Padre Giorgio Carbone O.P. – Docente di bioetica e teologia morale, Facoltà di Teologia dell’Emilia-Romagna

All’inizio della sua enciclica Evangelium Vitae (n. 3) Giovanni Paolo II ricorda che la storia dell’umanità ha sempre registrato delle minacce alla vita umana. Oggi, però, alle minacce antiche, come le malattie, la fame, le guerre e le violenze, se ne sono aggiunte altre un tempo inedite, ma altrettanto drammatiche, come l’aborto chirurgico e chimico, l’eutanasia, la diagnosi a scopo selettivo. Negli anni passati la Federazione dei Movimenti per la Vita del Piemonte e della Valle d’Aosta ha dedicato esplicitamente alcune giornate di studio a questi attentati alla vita dell’uomo, per cui non parlerò di essi, ma piuttosto delle loro cause.

Il paradosso

L’esistenza umana è spesso contrassegnata dal paradosso e dalla contraddizione. Tuttavia, un conto è il paradosso che io contemplo con stupore, e altro conto è la contraddizione che procuro con malizia. Così da un lato ammiro con gioia una consapevolezza sempre più diffusa del valore dell’individuo umano, della sua vita e della sua libertà, consapevolezza che è tradotta nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti. Ma dall’altro lato mi irrita profondamente, per usare solo un eufemismo, il fatto che in tanto progresso culturale, economico e tecnologico esistano segni di contraddizione tali da vanificare la consapevolezza circa i diritti fondamentali di ogni uomo.

Ad esempio, da un lato le recenti conquiste della medicina consentono di tenere in vita e a far crescere bambini nati prematuri di appena 23 settimane dal concepimento, mentre dall’altro lato si spendono ingenti capitali per uccidere feti anche al di sopra delle 23 settimane o per uccidere uomini allo stadio embrionale con il micidiale “pesticida” umano RU486.

Da un lato la medicina riabilitativa e la farmacologia avanzata consentono di migliorare la qualità della vita di molti anziani e di prolungare la loro esistenza, dall’altro si mettono a punto tecniche e farmaci per diffondere l’eutanasia. Da un lato alcuni governi tagliano drasticamente le spese sociali e assistenziali, ma dall’altro lo stesso Stato continua ad accollarsi le spese dell’aborto, pur di offrilo gratuitamente. Queste sono contraddizioni? Oppure dietro di esse c’è una logica che per adesso ci sfugge?

Da un lato, la modernità si vanta giustamente di aver scoperto l’idea dei diritti umani universali e di averli solennemente proclamati in dichiarazioni internazionali. Ma dall’altro lato, gli stessi Stati, che siglano solennemente queste dichiarazioni e se ne fregiano, negano in modo altrettanto clamoroso questi diritti fondamentali dell’uomo. In altri termini, li riconoscono teoricamente, ma li calpestano a livello pratico. Quindi, tutto lavoro inutile. Ma da dove nascono queste palesi e stridenti contraddizioni in una cultura che si vanta di essere illuminata ed efficiente?

Sono delle contraddizioni che hanno una loro “logica”: sono la conseguenza di alcuni miti contemporanei. Presenterò tali miti cercando, poi, di smascherarli.

1. Scetticismo

Molti sono convinti che è impossibile conoscere la verità. Secondo il pensiero debole la verità non è un dato oggettivo, ma ognuno ha la sua personale opinione, il suo punto di vista. Ma mi è negata la possibilità di sapere in che misura la mia visione personale corrisponda a ciò che è la realtà delle cose.
Se sviluppiamo la nostra capacità critica ci accorgiamo presto che dire: “È impossibile conoscere la verità” è una contraddizione, perché chi nega che la verità esista pretende allo stesso tempo di affermare almeno una verità, cioè “è impossibile conoscere la verità”.

Inoltre se ognuno ha la sua personale opinione e non può sapere in che misura corrisponda alla realtà in se stessa, allora ognuno è chiuso nel proprio mondo e non ha senso che comunichi con gli altri. Se si smarrisce il riferimento oggettivo extramentale alla realtà in se stessa, la persona umana si candida all’isolamento.

La verità, invece, è un dato oggettivo, è la corrispondenza della mia intelligenza alla cosa, si mostra a tutti e a ciascuno, anche attraverso la relazione con gli altri.

2. Il relativismo etico

Il pensiero debole, oggi dominante, va convincendo sempre più che non esistono valori morali universali, cioè validi sempre e ovunque. Secondo alcuni, affermare valori universali sarebbe il primo passo verso il totalitarismo. Perciò soltanto il relativismo, cioè la convinzione che tutto è relativo e cangiante, sarebbe la condizione della democrazia, perché il relativismo garantirebbe la tolleranza e il rispetto reciproco. Mentre norme morali oggettive e vincolanti porterebbero all’autoritarismo e all’intolleranza.

Ma, ammettiamo pure che tutto sia relativo, che non esista nullo di oggettivo e di irrinunciabile, ma allora come determinare le leggi della nostra convivenza civile?
Attraverso la convenzione, cioè l’accordo della maggioranza parlamentare – così ci viene detto.

Ma siamo convinti che tutto sia negoziabile in parlamento con accordi politici? Ma anche i diritti fondamentali dell’essere umano sono oggetto di contrattazione politica?
Quando il sistema democratico non è ancorato sulla tutela dei valori fondamentali dell’essere umano, primo tra tutti il suo diritto alla vita, allora la democrazia si trasforma in abuso della statistica: sono i giochi puramente numerici, caso mai anche i voti di protesta, che determinano chi possiede il governo di un paese.

3. Il mito della tolleranza e dell’apertura

Se tutto è relativo e se non esiste la verità, ma solo opinioni personali, allora l’ideale di vita è la tolleranza delle opinioni altrui. Il nuovo ordine collettivo è: Bisogna essere aperti! E la peggiore offesa che puoi ricevere è: Come sei chiuso e intollerante.

Ma cos’è la tolleranza? Originariamente significa l’atteggiamento pratico di chi, pur condannando un modo di pensare o di agire, lo lascia esistere perché rispetta la libera opinione altrui o perché ha un motivo di convenienza pratica, come evitare un male peggiore. Oggi la tolleranza indica libertà di opinione: chi tollera lo fa o perché è totalmente scettico, e quindi non si impegna in nessuna opinione, oppure perché, pur impegnandosi in un’opinione personale, ammette la possibilità che altri vivano e professino tutte le altre possibili soluzioni, anche in profondo contrasto con le sue.

Ma in mancanza di un fondamento comune del vivere insieme, la tolleranza diventa indifferenza. Il pluralismo culturale degenera in una sorta di spettacolo estetico in cui possiamo essere anche curiosamente interessati al modo di vita dei nostri vicini, ma sospendiamo qualsiasi giudizio su di loro. Tutto viene ridotto a un problema di stile di vita, una questione di gusti o di preferenze intercambiabili. Mentre si mette a tacere la coscienza, dalla quale emerge continuamente la domanda cruciale che ci rende persone responsabili: come devo vivere?

Se tutte le azioni sono ugualmente legittime, allora io non potrò chiedere conto a nessuno e nessuno avrà il diritto di chiedere a me. Sospendere il giudizio etico, di valore sulle azioni, ci condanna inevitabilmente alla solitudine, alla chiusura in noi stessi. Altro che apertura!

Invocano il rispetto ad oltranza: di tutti su tutto. Il rispetto lo puoi intendere come tolleranza, allora ritorni a un approccio turistico della vita, oppure lo puoi intendere come una forma di apprezzamento. Se qualcosa esige rispetto è perché ha qualche buona qualità, se tu dici che ha una buona qualità significa che tu hai fatto un opera di discernimento. Quindi, il rispetto suppone un giudizio discriminante tra qualità buone e qualità cattive, tra qualità apprezzabili e qualità disprezzabili. Rispettare suppone necessariamente giudicare, e non accettare tutto in modo indiscriminato.

La tolleranza e il rispetto, come accettazione indiscriminata di ogni azione o soluzione di vita, sono dei miti che inizialmente fanno comodo, perché così nessuno si prende la responsabilità dell’altro. Ma, poi, come vedremo, sono miti liberticidi.

In fondo, dobbiamo riconoscere che nella nostra società esistono delle diffuse forme di paura. Abbiamo tanta paura di offendere qualcuno, che ci capita di rado di dire quello che pensiamo. La paura è diffusamente generalizzata, perché anche la più bella invenzione umana, cioè la città, è diventata per noi una notevole fonte di ansia e di stress. Un tempo l’uomo cercava di vivere in città per difendersi da vari tipi di nemici, oggi i nostri nemici ci assediano persino tra le mura domestiche: alcune degenerazioni ormai divenute endemiche, come il traffico, l’inquinamento aereo, acustico, idrico e magnetico, la microcirminalità, la stessa vita associata.

Possiamo vincere queste paure e queste indifferenze collettive solo condividendo i doveri e le responsabilità civili, essendo convinti del ritornello dell’Evangelium Vitae: Sono forse io il custode di mio fratello?

Allora, usciremo a testa alta dal tunnel dell’individualismo narcisista e del disimpegno noncurante.

4. Progresso tecnico-medico

Viviamo in una società schizofrenica che si entusiasma per le scoperte parascientifiche, che sono prossime al paranormale, e dall’altro lato ricorre ai tarocchi, ai maghi, alla cosiddetta medicina alternativa. Molti sono affascinati dal mito del progresso indefinito. I vorticosi successi tecnici e scientifici hanno sempre più diffuso la persuasione che la storia umana sia guidata dal progresso, al punto che questo mito è «uno dei dogmi extraecclesiali che hanno raccolto, dalla Rivoluzione francese al ballo Excelsior, il maggior numero di aderenti in tutte le “parrocchie”». È un mito diffusissimo e ciecamente accettato.
Se qualcuno vuole tapparti la bocca, basta che dica: tu sei contro il progresso!
Questo mito oggi inizia a vacillare per due motivi.

Per un motivo esistenziale, in quanto molti iniziano a chiedersi: il progresso dove ci ha condotti? Non siamo più sicuri neanche degli elementi più semplici che ci circondano e da cui dipende la nostra vita, neanche dell’acqua e dell’aria che respiriamo.

Per un motivo logico, in quanto il mito del progresso indefinito è contraddittorio. Infatti, come faccio a sapere che progredisco, cioè che procedo in avanti, se non conosco la meta cui sono diretto? Perciò non si dà autentico progresso tutte le volte che manca l’obiettivo e che la meta è indefinita.

Un altro diffuso mito è quello dell’annientamento o del vuoto, che a sua volta alimenta forme collettive di nichilismo, secondo le quali il traguardo della vicenda umana è l’annientamento raggiunto proprio in virtù del progresso tecnico-scientifico. Il mondo correrebbe verso la propria rovina.

Ma se è il nulla ad essere la meta fatale, allora il nulla è già fin d’ora la sostanza dell’esistenza. Se vivo per andare verso il nulla, già adesso vivo per niente!

La devozione al progresso indefinito si rivela come devozione a un progresso che in realtà è omicida.

Ed è, poi, ancor più micidiale quando il mito del progresso si sposa con l’utilitarismo. La cultura imperante, allora, inizia a scartare chi è debole e chi è povero e valuta tutti in termini di profitto economico: se non produci, com’è il caso dei malati in fase acuta e avanzata, è preferibile farla finita – è questa la mentalità che conduce all’eutanasia. Il desiderio di onnipotenza tecnologica riduce l’uomo a mezzo del processo tecnologico, alcuni uomini non sono più fruitori e padroni di questo processo, ma ne sono asserviti.

5. Il mito della libertà senza verità

Il pensiero debole, oggi dominante, insegna un tipo di libertà completamente svincolata dall’uomo, una libertà assoluta e indipendente da ciò che l’uomo è, e quindi dalla realtà stessa. Secondo questa corrente di pensiero, la libertà è essa stessa un valore, anzi è il valore per eccellenza. Basta essere liberi di scegliere: questo è quello che conta. Non importa, poi, il contenuto della scelta. Perciò è necessario avere più alternative da scegliere. Una sola possibilità sembra già rendere l’uomo schiavo di essa. Ancora, è sufficiente che un’azione sia fisicamente possibile perché sia anche buona moralmente: la bontà morale, cioè dell’agire, coincide con la possibilità fisica.

Ma, ad esempio, dal fatto che io ho la capacità fisica di bere quattro litri di birra, segue che berli sia una scelta moralmente giusta? Ho anche la possibilità di scegliere che cosa bere, perché di fatto posso fisicamente bere birra, cianuro, ammoniaca. La semplice possibilità fisica o tecnica rende buona qualsiasi scelta? Dal puro fatto fisico deriva la legittimità morale di un’azione? Perché un’azione la chiamo buona e un’altra la chiamo cattiva? Cioè qual è il criterio che fonda la bontà morale della mia vita?

Rispondere a questi interrogativi diventa ancor più complicato perché la “dittatura del relativismo” ha persuaso molti che l’uomo sia incapace di cogliere la verità su di sé e sul mondo e che esistano soltanto delle opinioni personali tutte ugualmente plausibili.

Sono queste le sfide culturali con le quali noi tutti siamo chiamati a confrontarci. Si tratta di sfide urgenti e fondamentali, perché la libertà arbitraria svincolata dalla verità oggettiva conduce all’autolesionismo e alla distruzione (eutanasia docet) e il relativismo nel campo della conoscenza impedisce agli uomini di stringere delle relazioni autentiche e di comunicare nel senso più profondo del termine (ad esempio l’affettività umana è banalizzata a puro gioco di un piacere epidermico).

6. La libertà diventa licenza

La libertà diventa licenza, in particolare licenza lussuriosa. Basta fermarsi a qualche edicola o aprire internet. Questo tipo di licenziosità si diffonde almeno per due motivi, il primo è intenzionalmente e fortemente voluto, il secondo è avvertito da pochi e questi pochi sono però i più abili manipolatori.

Il primo motivo è il lucro: accendere nell’uomo la licenza lussuriosa è una delle maggiori fonti di guadagno. E su questo terreno così scivoloso alcuni costruiscono immense fortune economiche.
Il secondo motivo è che l’uomo, che è preda del vizio della lussuria, ne diventa presto schiavo, perde la sua autentica libertà e la sua forza di volontà e si rammollisce. E dei rammolliti le potenti lobbies commerciali possono disporre molto facilmente secondo i propri accorti intendimenti.

Perciò è quanto mai urgente, proprio per un riscatto e una liberazione di molti giovani, un’autentica educazione all’amore umano. Soltanto educando, ordinando le pulsioni, i desideri, l’affettività potranno maturare le più grandi e ferme volontà, potranno nascere famiglie forti e fedeli, emergeranno gli eroi.

7. La vera libertà

Questi due dogmi del pensiero debole, “libertà senza verità” e “la verità non esiste”, sono anche falsi, perché dire “la verità non esiste” significa già affermare una verità universale e sempre valida e sostenere la “libertà senza verità” significa candidarsi all’insignificanza della vita. È come vagare senza meta o rubare a un escursionista la mappa e la bussola. La libertà senza limiti e condizioni apparentemente sembra la massima emancipazione cui possiamo aspirare. Inizialmente può anche darci una piacevole ebbrezza, ma presto si rivela per quello che è: ci priva della meta, dell’obiettivo della nostra vita, ci deruba del senso e della gioia dell’esistenza. La libertà senza verità, oltre ad essere pura utopia, è quindi suicida, minaccia la stessa sopravvivenza dell’uomo. «Le fantasie genetiche, il crollo della natalità, il disprezzo della vita umana, soprattutto la vergognosa liberalizzazione dell’aborto, la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell’istituto della famiglia e il permissivismo dilagante ne sono i segni più manifesti».

Dimostrata l’infondatezza di questi due “dogmi”, possiamo tornare tranquillamente al problema iniziale: perché un’azione la chiamo buona e un’altra la chiamo cattiva? Qual è il criterio che fonda la bontà morale della mia vita?
Quando acquistiamo un computer o un qualsiasi altro elettrodomestico, pretendiamo giustamente che sia un buon computer, cioè sia costruito e funzioni a regola d’arte, cioè che sia conforme ad una norma. Mettere tutto a norma CEE. Ora è la conformità a questa norma che rende buono il computer, in quanto, solo se è costruito e funziona conformemente ad essa, può raggiungere l’obiettivo per cui è stato progettato e per cui io l’ho acquistato. In modo analogo, la vita morale di ognuno di noi sarà buona quando è conforme ad una regola. Per chi ha scelto di non credere in Dio, questa regola è la sua sola ragione. Per chi ha scelto di credere, invece, la sua regola è non solo la ragione umana, ma anche la volontà di Dio in vari modi manifestata. La regola è costituita dalla ragione, perché è la ragione che scopre quali sono le mie più autentiche esigenze, conosce i mezzi per soddisfarle, valuta questi mezzi, li giudica e, infine, illumina la volontà e le comanda di compiere una precisa azione. Questo “lavoro” non può essere condotto né dall’impulso cieco e irrazionale, né dall’emozione o dal sentimento passeggero, né dalla semplice esperienza sensibile, ma solo dalla ragione, la quale analizzerà anche tutti questi aspetti della persona umana. L’autentica libertà umana è una conseguenza di questo “lavoro” della ragione e della sua sinergia con la volontà, perché la libertà non è altro che la capacità di essere causa determinante delle proprie azioni. Infatti, tu fai esperienza di essere libero tutte le volte che causi in modo determinante un’azione, cioè quando la conosci razionalmente e sei tu a volerla, anche se non hai altre possibilità da scegliere. Quindi, la libertà più radicale non consiste nella libertà di scegliere tra questo e quello, ma nell’essere causa di se stessi. Non si dà libertà senza la conoscenza razionale di sé, cioè senza la verità su se stessi. Perciò il pensiero debole negando all’intelligenza umana la capacità di conoscere il vero rende un pessimo servizio all’uomo e alla sua libertà pregiudicando seriamente il suo progresso morale e civile.
Inoltre la libertà, quando perde il suo contatto con la verità e la realtà delle cose, non promuove né esalta se stessa, ma anzi si deprime diventando capriccio pusillanime e smania di seguire le proprie pulsioni irrazionali: diventa arbitrio liberticida.

Infine, se la società vuole assicurare ai suoi componenti la libertà, allora dovrà incominciare a garantire loro l’esistenza. Infatti, il diritto alla vita è la condizione storica e sociale perché l’uomo possa esercitare la sua libertà. Perciò l’impegno fondamentale e primario di ogni vera democrazia libera è quello di riconoscere la dignità di vita a tutti gli uomini. Da alcuni decenni, purtroppo, assistiamo in modo drammatico al diffondersi di una tendenza culturale che esaspera in senso individualista la libertà e legittima la sua riduzione egoistica, al punto che ciò che mi piace e ciò che oggi mi fa comodo assurge a un mio diritto soggettivo, prescindendo anche dai diritti fondamentali dell’altro.

L’autentica libertà individuale, invece, nasce e si esercita in un contesto di libertà interpersonale e sociale. È inseparabile dal diritto alla vita, perché questo ne è il presupposto. Mi educa a scegliere il mio vero bene. Mi insegna ad amare in modo sincero e mi fa gustare con stupore la gioiosa bellezza dell’esistenza mia e degli altri.

8. Ecologismo

Un’altra causa degli attentati alla vita dell’uomo è l’ecologismo. Bada bene dico ecologismo e non ecologia, intendendo per ecologismo una forma esasperata di materialismo che nega la differenza assiologia tra le varie forme di vita, cioè una mentalità che mette sullo stesso piano l’essere umano e gli altri viventi e non riconosce le differenze essenziali tra di essi.

Quando il retto equilibrio tra la corporeità e l’anima è rotto, quando l’innegabile superiorità dell’anima viene negata o ridicolizzata, l’uomo è abbandonato ai suoi istinti peggiori e alla loro selvaggia espressione, l’uomo viene assimilato alle bestie, agli animali. Ecco la radice dell’ecologismo: Gaia terra. Dietro alle potenti organizzazioni di pianificazione familiare, formula eufemistica per nascondere che si tratta di globalizzare l’aborto, c’è la convinzione che l’uomo sia il cancro della terra.

È una odiosa empietà punire severamente chi maltratta o ammazza un animale e allo stesso tempo legalizzare, caso mai anche a spese dello Stato, l’aborto di esseri umani. Il movimento di liberazione degli animali o quello dei diritti della terra arrivano ad affermare l’illiceità dell’uso degli animali come cibo dell’uomo e la titolarità di alcuni diritti in capo agli animali.

Tuttavia, è assurdo affermare che l’animale sia titolare di diritti, perché al diritto corrisponde sempre un dovere, e come fa l’animale, che è irrazionale, ad avere dei doveri? E, poi, come fa ad esercitare questi presunti diritti, dovrebbe avere sempre come tutore un uomo? Ma allora è sempre un minus habens!

Dietro queste aberrazioni c’è un movimento culturale abbastanza diffuso che nega la differenza assiologica tra le varie creature e che insiste in modo ostinato a proporre la teoria dell’evoluzione delle specie viventi (che secondo alcuni sarebbe frutto del caso) in aperto conflitto con la concezione dell’eccellenza della dignità dell’essere umano, della creazione (che significa semplicemente dipendere nell’essere) e del governo divino dell’universo.

Ma esiste un salto qualitativo enorme tra l’animale e l’uomo, salto espresso almeno dal linguaggio e dal desiderio.

L’animale ha dei bisogni, degli impulsi istintuali, solo l’uomo desidera, vuole ed è padrone di volere o di non volere.

L’antidoto efficace per superare questa visione e questa crisi consiste nell’osservare il creato e nel contemplare la molteplice e pluriforme bellezza delle creature: è necessario – come ricorda l’Evangelium Vitae al n. 83 – riscoprire «lo sguardo contemplativo».

9. Mito della pace o pacifismo ad oltranza

È triste constatare che mentre ci si sdegna della guerra in Iraq o in Afghanistan, ma si dimentica la guerra di casa nostra. «Siamo testimoni di un’autentica guerra dei potenti contro i deboli, una guerra che mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio e perfino semplicemente di coloro che sono poveri e “inutili” in tutti i momenti della loro esistenza. Con la complicità degli Stati, mezzi colossali sono impiegati contro le persone, all’alba della loro vita, oppure quando la loro vita è resa vulnerabile da un incidente o da una malattia e quando essa è prossima a spegnersi».

10. Pari opportunità, democrazia parlamentare e peccato di adultismo

È singolare che proprio chi parla tanto di pari opportunità, le limiti poi ai soli adulti, dimenticando chi non è ancora adulto, ma sta crescendo nel grembo materno per diventare adulto.
Proprio invocando la “pari opportunità” o il mito della libertà dell’adulto vengono oggi violati i più elementari diritti dell’uomo, il diritto all’esistenza e alla vita.
L’ordinamento giuridico sotto molti aspetti si è trasformato nella tirannia del più potente e dell’adulto.

Se il criterio decisivo per affermare dei diritti è il criterio della maggioranza, allora la forza della maggioranza diventa il criterio del diritto. Basta che lo decida la maggioranza parlamentare allora diventa giusto e legale.
Ma quando la maggioranza parlamentare decreta la soppressione dell’essere umano, allo stadio embrionale o fetale o malato terminale, non assume una decisione tirannica nei confronti del più debole e indifeso?

La coscienza di tutti inorridisce di fronte ai crimini contro l’umanità, come lo sterminio degli armeni perpetrato dai turchi nei primi decenni del 1900, come l’olocausto degli ebrei, degli zingari e dei malati mentali commesso dal Terzo Reich, come le stragi dei cristiani e degli oppositori politici commesse dai comunisti russi. Ma questi crimini efferati cesserebbero di essere tali quando fossero legittimati dal consenso parlamentare?

Il consenso democratico, o il sistema della democrazia parlamentare non può essere mitizzato fino a farne un surrogato della moralità. La democrazia parlamentare è un modo di ordinare i poteri all’interno di uno Stato, è un mezzo, uno strumento e non è l’obiettivo, il fine della convivenza civile. E sarà un buono o un cattivo ordinamento in base ai fini che persegue e ai valori che si propone di realizzare.

Il valore, quindi, di un ordinamento democratico sta o cade in base ai valori che incarna e promuove.

Ogni Stato per esistere, per progredire, deve riconoscere almeno un minimo di diritti oggettivamente fondati, diritti assoluti che precedono ogni convenzione sociale e ogni accordo politico, e quindi non sono oggetto di negoziazione parlamentare:

  • la dignità di ogni essere umano;
  • il rispetto dei suoi diritti inalienabili, primo tra tutti il diritto alla vita;
  • assumere il bene comune come obiettivo dell’azione politica.

Invece, uno Stato che ha la pretesa di dire questi uomini hanno una dignità superiore a questi altri, i primi godono di tutti i diritti fondamentali, mentre i secondi non godono di alcun diritto fondamentale, uno Stato che conferisce ad alcuni il potere di violare il fondamentale diritto alla vita di altri contraddice l’ideale democratico e mina le stesse basi su cui si regge. Se non riconosciamo che ogni uomo ha nativamente una dignità e questa dignità è inviolabile, l’alternativa è la barbarie. Come alla fede nell’unico Dio e Signore e alla speranza nella sua beatitudine la sola alternativa possibile è il politeismo e l’idolatria più caotica, come all’ideale della pace non c’è altra alternativa all’infuori della guerra continua, così ai diritti fondamentali di ogni essere umano non c’è altra alternativa che la più atroce ingiustizia e la degenerazione della democrazia.

Quindi, il mito secondo il quale tutto è negoziabile e il mito che tutto possa essere liberamente scelto, anziché costituire un autentico progresso, distrugge il fondamento stesso di una convivenza giusta fra gli uomini.

Il sistema democratico, lasciato a se stesso o minacciato dallo scetticismo conoscitivo, dal relativismo etico e dalla logica utilitarista, non è assolutamente in grado di garantire una pace stabile.

È necessario che la democrazia sia ancorata alla legge morale, cioè a valori permanenti e irrinunciabili della pari dignità di ogni uomo della solidarietà tra tutti gli uomini.

Educando la nostra intelligenza per formare in noi un convincimento sempre più radicato che la vita umana in ogni suo stadio è un bene fondamentale, che il diritto non può mai rinunciare a proteggere. Ogni essere umano ha una dignità e un valore assoluto e incondizionato, a prescindere dalle sue capacità fisiche o dalla sua produttività economica. La dignità umana non è graduabile, ma è uguale in ogni uomo.

Il convivere umano prende il nome di civiltà, quando coloro che vivono insieme si fanno carico di chi è più debole e di chi non ha facoltà di parola.

L’alternativa è la barbarie, la tirannia del più forte che schiaccia in vario modo chi è più debole o più sfortunato. Il materialismo dominante ci vuole illudere che la civilizzazione consista nel progresso tecnologico, nel consumismo sfrenato, nell’aumento del PIL. Ma il grado di civilizzazione di un paese si misura dalla diffusione della cultura e dall’attenzione premurosa e solidale verso l’altro.

Siamo così occupati a difendere a denti stretti i nostri diritti, che non ci diamo pensiero delle nostre responsabilità.
Antidoto: mettere al centro della legislazione la persona umana e ogni persona umana.
La fede cristiana può svolgere un ruolo decisivo nel dare un senso alto e duraturo all’esistenza terrestre e alla convivenza civile: uomo immagine somiglianza di Dio.

Note

1) Cf. Ch. Lasch, La ribellione delle élites. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 1995, 75-76.

2) G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 19983, 11-12.

3) G. Biffi, La città di San Petronio nel terzo millennio (Nota pastorale del 12 settembre 2000), EDB, Bologna 2000, § 47, 25.

4) J. Ratzinger, Relazione introduttiva al Concistoro straordinario del 4-7 aprile 1991, in “Medicina e morale” 1991, 486.