“La famiglia di fronte ai problemi sanitari in gravidanza”
Giuseppe Noia – Istituto di Ostetricia e ginecologia, Università Cattolica di Roma
Sono onorato di questo invito e soprattutto felice di poter condividere con voi, comunicandoveli, tutti quegli sforzi che anche il mondo della scienza fa per cercare di vivere per un ideale. Questo ideale non dovrebbe essere un valore solo dei cristiani, ma anche di tutta quella gente che, pur non credendo e non riconoscendosi nella fede cattolica, capisce, per una sensibilità personale particolarmente forte, quanto sia importante il valore della persona umana, la posta in gioco altissima per la quale vale la pena spendere tutta l’esistenza. Non voglio riempirmi la bocca di grosse parole, ma la forza di questo impegno è per un progetto grandioso che non finisce con la nostra esistenza, ma andrà avanti per sempre: la verità sulla persona e il dono di essere chiamati alla vita.
Ogni essere umano, una volta che è chiamato alla vita, appartiene al patrimonio e alla storia eterna dell’umanità. Egli è espressione della “pazienza” di Dio. “ Ogni bimbo che nasce ci ricorda che Dio non si è stancato dell’uomo” dice Tagore. Con molta umiltà penso che, alla luce delle conoscenze scientifiche dell’ultimo secolo, dovremmo riscrivere la frase in questo modo: “Ogni bimbo che viene concepito ci ricorda che Dio non si è stancato dell’uomo”.
Questo mio contributo potremmo schematizzarla in tre punti. Concentrando lo sguardo nell’universo della vita prenatale possiamo individuare 3 livelli di valutazione:
a) il livello socio-culturale e medico-scientifico;
b) il vissuto materno;
c) il vissuto embrio – fetale.
Il primo livello di valutazione ci fa molto riflettere, poiché negli ultimi 50 anni è avvenuto e continua ad attuarsi una rivoluzione antropologica che riguarda proprio la famiglia dinanzi ai problemi sanitari e in particolare dinanzi alla fecondità e alla fertilità.
Abbiamo assistito a 3 grandi separazioni: la prima, avvenuta con l’avvento della pillola contraccetttiva ha comportato una separazione temporale tra procreazione e sessualità; la seconda è avvenuta con la fecondazione extracorporea quando la procreazione è stata separata dalla corporeità; la terza, con la clonazione, ha praticamente separato la procreazione dalla germinalità, potendo utilizzare per il concepimento una cellula diversa dal gamete maschile (spermatozoo). Queste 3 separazioni, procreazione senza sessualità contemporanea, procreazione senza corporeità, procreazione senza germinalità, ci offrono una riflessione molto importante: laddove il processo che porta alla nascita di una nuova vita umana, scritto da Dio nella legge naturale, utilizza la sessualità, la corporeità, la germinalità in un “unicum” unitivo fisico, psicologico e spirituale, punto di confluenza teleologica del microcosmo e del macrocosmo dell’uomo, “la sapienza dell’uomo” fa tutto l’opposto. La sapienza dell’uomo? Separare in greco si esprime col verbo “diaballo”! Intelligenti pauca !
Il mondo medico è attraversato da una profonda crisi valoriale e alcuni “fuochi” di onestà intellettuale hanno sentito l’esigenza di esprimere la volontà di non essere neutri di fronte al destino dell’essere umano:
“Non possiamo essere solo persone” – dicono alcuni scienziati onesti “che presentano brillanti dati scientifici e poi invocano una neutralità su come queste conoscenze ottenute vengono utilizzate successivamente. E’ veramente immorale impegnarsi a fondo sulla ricerca e poi disconoscere la paternità delle conseguenze che quelle conoscenze hanno prodotto, invocando una dicotomia tra scienza ed etica”.
Ottocento anni fa Dante Alighieri diceva:
“Nati non foste a viver come bruti, ma a seguir virtute e conoscenza”.
La conoscenza deve andare sempre avanti perché siamo nati con la sete della conoscenza e della verità, ma essa ha bisogno della “virtute”
, cioè di quel discernimento etico che ci fa usare quella conoscenza per un servizio alla persona umana e non contro di essa.
Chi pensa che il mondo della cultura cristiana sia, da un punto di vista antropologico, un mondo di integralisti e di retrogradi che si oppongono alla scienza, si sbaglia perchè invocare l’etica vicino alla scienza significa invocare un corretto uso delle conoscenze in ogni campo della vita civile. Il tentativo pregiudiziale di ghettizzare culturalmente è una povertà umana che nega e si nega la ricchezza dell’impegno dei cristiani nella società civile. Sembra che si voglia negare quello spessore e quella validità di pensiero e di azione, che non dipende solo dall’impegno umano, ma anche da ciò che noi cristiani chiamiamo “fede”, quell’abbandono fiducioso all’azione di Dio, che ha fatto sempre moltiplicare la semina. “ Quod non fecerit natura, fecerit pietas”: “ Ciò che la natura umana non riesce a fare, lo fa la grazia di Dio”.
Una disamina sul piano statistico parla di 22 milioni di famiglie d’Italia con uno dei più bassi tassi di fecondità (1,9), invecchiamento della famiglia italiana (per ogni bambino abbiamo 3,4 anziani sopra i 65 anni) con ovvio aumento degli ultraottantenni.
Per quanto riguarda l’età media in cui si concepisce il primo figlio siamo passati in vent’anni da 27,5 a 30,4 e la percentuale delle madri quarantenni è salita da dodici a sedici, mentre quella delle ventenni da 74 a 21 per mille, e delle diciannovenni da 55 a 15.
La programmazione è un aspetto ormai rituale della vita fertile delle famiglie in funzione di un numero di figli sempre più ridotto (il figlio unico è l’optimum) di un lavoro stabile (ben retribuito), una propria casa con tutte le comodità oggi ritenute indispensabili, di un periodo più o meno lungo di libertà di scelte sessuali. Spesso, molto spesso, però, vi sono reali problemi economici con donne con lavoro a tempo determinato e che, in caso di maternità, vengono addirittura licenziate.
Ma le problematiche legate a questa scarsissima fecondità, sicuramente non sono solo di tipo economico, ma soprattutto antropologico. Nel campo della procreazione, in particolare, c’è questo concetto di libertà: non si accetta niente che possa annullare o anche soltanto limitare la libertà di scelta, di movimento e l’esercizio della sessualità. Lo vediamo tutti i giorni: non ci sono più criteri valoriali. E’ il fast food del sentimento o del vivere la propria corporeità senza radici nel passato, senza proiezioni nel futuro, è quindi il tempo di una sessualità banalizzata, senza criteri valoriali, senza distinguo neppure dello spessore emozionale di quell’esperienza. Come medico e ginecologo, vi posso comunicare senza tema di smentita che la patologia, che più spesso noi vediamo nei nostri ambulatori, è l’aumento dell’anorgasmia nella donna e dell’impotenza nell’uomo.
E questo è ben strano in un’epoca di pansessualismo mediatico e virtuale e di libertà sessuale illimitata. Diventa, così, difficile spiegare ad un adolescente che un’esperienza così intensa e forte come quella legata al mondo della sessualità, vissuta in maniera casuale e anonima, possa condizionare la vita sessuale ed affettiva futura.
Quante donne invocano come causa iniziale di un vissuto sessuale e affettivo ormai devastato, quella prima esperienza fatta in condizioni fisiologiche e organiche assolutamente inadatte. Un esempio molto semplice è il seguente: la mucosa vaginale a 14-15 anni non ha le difese locali, le IGA, per difendersi adeguatamente da virus, da batteri, che porta il seme maschile. Questo dato, che sembra insignificante, è importantissimo, perchè le infezioni (e oggi sappiamo che sono quattro le cause legate alle malattie a trasmissione sessuale: la pillola, la spirale, la promiscuità e la precocità sessuale, modalità, scelte e quasi sempre utilizzate per impedire l’evento figlio con una sessualità libera e irresponsabile) risalgono attraverso il collo uterino nell’endometrio e nelle tube alterando la dinamica anatomica, strutturale delle tube nella donna e dell’epididimo e dei condotti deferenti nell’uomo. Le infezioni a trasmissione sessuale sono aumentate del 140%. Il problema, come si vede, non è solo di ordine morale, ma anche di ordine sociale e sanitario: le malattie a trasmissione sessuale sono anche un veicolo di trasmissione dell’HIV e negli ultimi 15 anni il 90% della popolazione femminile, sessualmente attiva, ha contratto il Papilloma Virus, un’agente virale molto legato all’incidenza di tumori del collo dell’utero. Questa patologia neoplastica che fino a 30 anni fa aveva un picco tra 40 e 50 anni, negli ultimi 15 anni ha cambiato la sua storia naturale, poichè si vedono carcinomi dell’utero a 28-30 anni).
E infine la mancanza di criteri di educazione all’amore e all’affettività porta spesso gravidanza nelle adolescenti (l’ultimo dato Istat 2004 parla di un aumento di IVG nelle adolescenti). Quante vite devastate da questo genocidio silenzioso!.
“La maternità precoce è molto più scandalosa del sesso precoce, infinitamente più di un eventuale aborto. Anzi: reclamiamo la diffusione della pillola del giorno dopo nelle scuole come una conquista di civiltà, come se l’unica cosa in grado di turbare un’adolescenza spensierata fosse il rischio di concepire. Però continuiamo a ripetere, come una litania in una lingua di cui abbiamo smarrito il senso, che l’aborto per la donna è un trauma! Ma chi, oggi, lo crede davvero? Chi davvero pensa che l’aborto sia una ferita fisica e simbolica, qualcosa che tocca profondamente il cuore dell’identità di genere? L’interruzione di gravidanza è stata da sempre il lato oscuro della maternità, che è fatta anche di rifiuti, crudeltà, angosce. Oggi sta diventando altro, un elemento della dilagante cultura dell’anti-materno. In molti casi (disabilità della madre e del figlio, violenza, età troppo giovane) l’aborto è la scelta corretta, in pratica obbligata, mentre la nascita diventa una forma di disobbedienza, una maternità selvaggia” .
Ecco cosa produce una sessualità vissuta nell’adolescenza con superficialità e irresponsabilità grande. Da qui l’importanza del discorso sulla mutazione antropologica, dove vengono contestati alla famiglia gli assiomi dell’indissolubilità, della fedeltà, per cui le convivenze libere transitorie sono aumentate e il matrimonio – addirittura anche quello civile – sembra che limiti la libertà di fare esperienze, nuove esperienze amorose e sessuali e limiti la libertà di scelta e di movimenti (oggi c’è questo nomadismo e una delle aberrazioni è il turismo sessuale).
Tutte queste cose si intrecciano con le paure: la paura di contrarre un legame che dovrà durare tutta la vita in un mondo che sembra estremamente instabile; la paura che il matrimonio fallisca (quanti ne vedono i giovani oggi di fallimenti matrimoniali); la paura di un futuro in un contesto così difficile. Molti dicono: perché ci dobbiamo sposare? Perchè mettere al mondo dei figli in un mondo così minaccioso, così turbolento? Ma questa è una visione della vita senza speranza!
Ecco la scelta di vivere da single e quindi le unioni di fatto: che in Italia erano 1.6% nel 1991 e 3.6 nel 2001, mentre le coppie con figli sono scese del 4%.
Un altro aspetto riguarda il profilo della pedagogia familiare dinanzi alla scelta di vita dei figli e dei giovani in genere. E’ chiaro che se c’è una proposta di vita, il problema è l’educazione all’impegno, alla responsabilità, quindi a un elemento che sembra sia stato eliminato dal vocabolario della nostra società: il sacrificio. Quando io dico alle mie pazienti: “Signora, la sessualità sta alla genitalità, come la maternità vera sta alla maternità biologica”; e quella risponde: “E cosa vuol dire? non ho capito nulla”. E spiego: sessualità e genitalità sono due ambiti completamente differenti; grosso modo – per non entrare nello psichico -: l’esperienza sessuale è l’incontro fra due persone, non solo l’incontro di due parti del corpo. Dall’altra parte nell’ambito della maternità l’esperienza della gravidanza reale – come la chiamiamo noi – rispetto alla gravidanza biologica, è che nella gravidanza reale, nella specie umana, non c’è solo il vissuto biologico, ma c’è una disposizione all’accoglienza anche psicologica, mentale, oltre che fisica, di questo bambino.
Quando la donna mi dice: “Non mi va di mangiare la carne”, dico: “Ma la carne è importante per il suo bambino ai fini della plasticità e del corpo futuro” – “Allora, va bene, per lui o per lei mangerò la carne” e così via. Ecco, mette da parte alcune sue esigenze, che sono biologicamente giuste, perchè fra l’altro durante la gravidanza di proteine le mamme ne vogliono mangiare poche, ma vogliono più zuccheri poiché la glicemia scende. Questo è un fatto biologico evidente tanto che poi i mariti dicono: “L’ho trovata alle tre di notte con le dita nella nutella!”. Infatti, la glicemia delle gravide, durante la notte, si abbassa. Ma fanno il sacrificio di mangiare anche proteine. Mettono da parte le loro esigenze per far crescere l’altro, il bambino. “Non devi fumare, perchè fa male al bambino”. “Bene: non è facile, c’è la dipendenza, però per lui, per lei, cercherò di smettere”. Ecco, l’elemento per cui la sessualità sta alla genialità: l’incontro sessuale non è una gara di egoismo, ma uno sforzo a chi fa più contento l’altro, a chi fa crescere più l’altro, soprattutto nell’esperienza relazionale e affettiva, sentimentale e sessuale, il sacrificio è una forza relazionale potente.
Chi ha una visione non realistica della vita e soprattutto non umana ha eliminato il concetto d’impegno, di responsabilità, di sacrificio. Quando parlo ai giovani dico spesso che l’ideale vale il sacrificio:
“Quando voi vi allenate per diventare campioni di calcio, di altetica, allenate il vostro fisico. E perchè non dovreste pensare che noi siamo fatti non solo di questo involucro ma di un’essenza molto più alta che è il nostro vissuto spirituale? Quindi dovete allenare anche la vostra volontà, facoltà fondamentale del vostro vissuto spirituale! Come fate per diventare campioni nello sport fatelo anche per diventare campioni nella vita, perchè l’accoglienza del sacrificio non è masochismo, non è autolimitazione passiva, finalizzato a qualcosa di più grande, cioè la vostra piena maturazione umana”.
Purtroppo non esiste una grande strategia sociale pedagogico-formativa che si opponga e rigetti le diseducazioni invadenti dei media, sottilmente manipolati dalla cultura dell’effimero, del disimpegno e del virtuale.
Manca in Italia, bisogna dirlo, una “vera” politica per la famiglia. Aiutare i giovani per formarsi una famiglia significa anche facilitare l’acquisto della casa e ridurre l’esosità degli affitti; aiutare a portare avanti serenamente la gravidanza senza la minaccia di essere licenziati, o di non poter tornare a lavorare dopo la nascita del figlio; rendere meno rigidi gli orari di lavoro: lavoro part-time, riducendo i turni serali, i fine settimana ed i lavori faticosi (anche perchè poi le donne hanno i lavori di casa); aumentare i servizi di asili nido. L’Italia spende per la politica familiare lo 0,9 del PIL, la Francia e la Germania il 3%, la Danimarca il 3,8. Agevolazioni per le famiglie con figli disabili (questa è la politica francese), famiglie con bambini di età inferiore a tre anni hanno un bonus, e poi il problema di quelle famiglie che hanno ambedue i genitori disoccupati.
E in questa indifferenza socio-politica si coltiva, cresce, si sviluppa una sindrome che io ho ribattezzato come “sindrome del feto perfetto”, che non è intesa nel significato scientifico del termine, perché non la trovi scritta da nessuna parte, ma è una sindrome che respiriamo un po’ tutti, innescata dal concetto di qualità della vita. Il concetto della qualità della vita, che è un concetto buono se finalizzato a migliorare le risorse per vivere meglio, per una piena consapevolezza umana e sociale, quando sottende il criterio di selezione diventa criterio anti-umano. La scienza asservita al criterio di selezione è una scienza di cattivissima memoria.
Siamo di fronte a questi contrasti: qualità della vita versus sacralità della vita. Vita come qualità della vita e vita come valore: i giovani hanno bisogno di chiarire le differenze, perché non possiamo parlare di dignità della persona se non proponiamo, con la nostra vita, il nostro impegno contro ogni discriminazione. Una esemplificazione riguarda proprio il mondo del prenatale: tanta gente ha la concezione che con la diagnosi prenatale si possa vedere tutto. La risposta più semplice a chi assolutizza il potere della tecnologia e che pensa di fare prevenzione vedendo precocemente le malformazioni e abortendo il bambino disabile è questa: fare prevenzione significa prevenire la causa delle disabilità e non uccidere il bambino disabile. Inoltre, le tecniche di diagnosi prenatale vedono molto, ma non vedono tutto e la vera risposta a una disabilità è l’amore verso il figlio. Disabile o malformato l’essenza di figlio non può togliergliela nessuno. Come in tutte le conoscenze, se non c’è quella virtù di cui parlava Dante, cioè quel discernimento etico che ti fa usare le conoscenze al servizio della persona, si fa tutto il contrario: essa viene usata contro le persone, contro le famiglie, contro le coppie.
Per non parlare del condizionamento culturale dei mass-media per quanto riguarda i problemi sanitari in gravidanza e le famiglie. C’è una manipolazione semantica, culturale, molto sottile, per far vedere quello che ci piace vedere e non far vedere l’oggettivazione del problema. Oggi il più grande peccato della nostra società ad ogni livello – non solo scientifico – è un peccato contro la verità dell’uomo! Quante falsificazioni, quanta fiction c’è ad ogni livello. Tutto virtuale, e quindi irreale. Ecco perché nasce questa esigenza della cultura della vita prenatale!
Il secondo livello valutativo è il vissuto materno. Credo che siano poche le persone che conoscano le problematiche percettive delle donne in gravidanza. Esse percepiscono la presenza del bambino a due livelli: a livello biologico, che è quello che tutti conosciamo, e a livello psicologico-spirituale. A livello biologico, a sei settimane, e anche prima, con una sonda endovaginale è possibile ascoltare il battito dell’embrione, ed è evidente che la relazionalità – adesso visiva – tra la vista della madre e la presenza del bambino in utero aiuta a percepire sensibilmente la presenza del figlio. L’uso dell’ecografia successivamente permette di associare la vista dei movimenti fetali già al terzo mese e la sensazione tattile nei mesi successivi come espressione di benessere fetale e di gravidanza ad evoluzione normale. La relazione si intensifica e diviene sempre più forte. E’ evidente però, che questo tipo di percezione avviene secondo un criterio di gradualità, proporzionale all’evoluzione anatomica e fisiologica del proprio bambino in utero. Ma c’è un’altra relazione, una relazione psicologica-spirituale, che non avviene secondo questo criterio di gradualità, ma secondo la legge del ‘tutto o niente’.
Questo secondo tipo di percezione è pressoché istantanea e probabilmente utilizza subito dopo il concepimento il famoso cross-talk (dialogo incrociato) che avviene nei primi 8 giorni dopo il concepimento. “Io ci sono”: è la presenza del bambino che avvisa la madre attraverso i mediatori della comunicazione materno-fetale. Ormai questo è acclarato: l’embrione già nella fase tubarica manda segnali, parla con la madre e riceve indicazioni su come deve andare avanti, prima dell’impianto. E’ questo insieme di attività che ha fatto definire l’embrione un “attivo orchestratore del suo impianto e del suo destino futuro” . Dopo l’impianto, continua a parlare con la madre e a ricevere risposte ( traffico cellulare), inviando eritroblasti, linfociti e cellule staminali. E queste cellule staminali, queste cellule del figlio, vengono ritrovate nel sangue, nella cute e nel fegato materno anche 30-35 anni dopo la nascita. Due casi esemplificativi hanno dimostrato che le staminali del figlio avevano raggiunto la tiroide materna e il fegato materno, trasformandosi rispettivamente in cellule tiroidee e cellule epatiche per poter opporsi a processi patologici che colpivano questi organi: il figlio dona la vita alla madre!
Questa relazione esiste, è grande, è piena di messaggi, è grandiosa: in termini biologici uno non può far finta che non ci sia anche subito e precocemente. I canali di relazione sono espressione di questo contatto, di misteriosa bellezza che continuerà sempre, anche quando il cordone ombelicale sarà tagliato. Un altro esempio di percezione materna del proprio figlio è dato dal fatto che tutti conoscono: moltissime donne fanno autodiagnosi di gravidanza, prima ancora di fare il test. Quante volte le donne vengono da noi e dicono: “io sono incinta”. Vent’anni fa, quando ero alle prime armi, rispondevo: “Signora, faccia il test di gravidanza”. Ora non lo dico più: loro fanno diagnosi di gravidanza prima ancora di fare il test. Ma la cosa incredibile è che hanno fatto autodiagnosi di gravidanza quattordici donne che avevano gravidanze gemellari, senza aver subito stimolazioni ormonali o avere casi di gemellarità.
Mi è accaduto la prima volta nel 92. Una signora dice: “Professore, io sono incinta, ma è diverso”. “Diverso da che?” rispondo, “E’ diversa dalla prima gravidanza è come se portassi una gravidanza gemellare”. Lei si è espressa proprio così. Sul piano scientifico, la percezione di due distinte presenze è qualcosa di eccezionale, dopo di lei ho accumulato altri 14 casi.
Un altro fatto percettivo come presenza sin da subito è quello che riguarda le donne che perdono il proprio bambino per un aborto spontaneo. Durante il ricovero in ospedale ho avvicinato più di 300 donne in queste condizioni: “Signora, vedrà che ci saranno altre gravidanze, cerchi di superare questo momento luttuoso”. Mi hanno risposto quasi sempre così: “Io la ringrazio, Professore… ma io ho perso il mio bambino”. Nessuna ha mai detto: “Io ho perso l’embrione di sette millimetri”, “Io ho perso l’embrione di dodici”. Parlavano di “bambino”, di “figlio”. Non è una questione di semantica, è il vissuto di una donna, è una presenza, la presenza del figlio. Piccolo o grande, malformato o non malformato: è il figlio che la donna sente. Una donna mi diceva quindici giorni fa: “Io poi ho avuto una bambina di kg 3,200, poi un aborto a 18 settimane, poi ho avuto un aborto a nove settimane. Sono passati sei mesi, ed io piango questa perdita ultima”. E quelli intorno mi dicono: “ Ma quest’ultima? Hai avuto una figlia, e poi hai avuto altre due esperienze negative, ma questa ultima, di otto settimane! … “. “Professore, ma a chi lo posso dire che io piango, vivo e soffro come se avessi perso mio padre per quest’ultimo bambino di pochi millimetri? Vivo un’esperienza di perdita relativa ad una presenza, non alle sue dimensioni!”.
E un ultimo esempio di percezione, che è indipendente dalle dimensioni del bambino, è quella relativa alle donne anoressiche in gravidanza. In queste pazienti c’è una doppia valenza di rifiuto: il rifiuto del proprio corpo e il rifiuto del bambino. La somatizzazione di questo rifiuto è rappresentata da un vomito che, per le sue caratteristiche, intensità e quantità, viene definita “vomito maligno” (iperemesi maligna). Queste donne, quando diventano gravide, portano all’esasperazione il loro rifiuto e, se non vengono alimentate parenteralmente e psicologicamente, possono arrivare al decesso. Il supporto psicologico aiuta a far spazio mentale all’accoglienza, ad esorcizzare il doppio nemico: il proprio corpo e il clandestino a bordo, che è l’embrione. Il supporto biologico di nutrizione parenterale fornisce un alimentazione biologica e il supporto psicologico ridimensiona i fantasmi della mente. Ora io mi chiedo se la donna anoressica vivesse questa iperemesi maligna – tutte le donne hanno il vomito gravidico o la nausea, ma qui è maligno perché le porta alla morte – se questa percezione psicologico-spirituale dovesse seguire l’idea della gradualità, allora queste donne dovrebbero avere il rifiuto a nove mesi, quando il bambino è più grosso, e non subito quando il bambino è piccolissimo.
Questo per farvi capire come il vissuto materno abbia una serie di cose che ancora non conosciamo. Tutti quei colleghi che in buona fede, propongono un anticipo di diagnosi prenatale (pensando in buona fede “ Prima lo sai, prima puoi fare l’interruzione in modo da rendere più lieve il trauma rispetto a un aborto volontario al quinto mese”), dicono una cosa parzialmente vera: il trauma di tipo fisico, biologico, indubbiamente può essere minore, ma la lacerazione di natura psicologica è indubbiamente devastante, perchè noi possiamo eliminare la presenza biologica dell’embrione, ma non la presenza psicologico – spirituale nella memoria affettiva della madre. La donna, come moltissimi studi hanno dimostrato, porta questa cicatrice nel proprio cuore; e quando questa è una scelta volontaria, il processo è anche più lacerante.
Uno dei teoremi più diffusi e radicati nel mondo medico e nella cultura popolare è quello di pensare che l’aborto volontario sia meno traumatico, se effettuato nelle epoche precoci della gravidanza, consegnando così la pratica abortiva (e tra queste la RU486, detta pillola del “mese dopo”) al criterio della “proporzionalità traumatica”: più piccolo è l’embrione più sicuro e più accettabile è l’aborto, con minori conseguenze per la donna.
La sicurezza della pratica abortiva inoltre, da togliere alla clandestinità e al privato per consegnarla al mondo della Sanità pubblica, è stato uno dei capisaldi della legge 194. Abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, anche nel campo del prenatale, a una corsa vertiginosa all’anticipazione della diagnosi: il prelievo dei villi coriali (10-12 settimane) al posto dell’amniocentesi, il bi-test al posto del tri-test, la valutazione del liquido retronucale, fatta precocemente fra nove e quattordici settimane di gestazione, esprimono il diffuso atteggiamento dell’anticipazione temporale che insegue la “sindrome del feto perfetto”. Tale sindrome non è scritta in nessun libro, ma oggi la respiriamo profondamente tutti ed è caratterizzata da un iter compulsivo di esami diagnostici sempre più precoci e sempre più ansiogeni: è il teorema della “proporzionalità traumatica”, l’idea, cioè, che la diagnosi precoce di un’anomalia corrisponda a una scelta più precoce e, in caso di malformazione, a una scelta abortiva meno traumatica sul piano fisico e psichico.
E’ ovvio che sul piano fisico-biologico la precocità dell’interruzione possa essere gravata da minori complicazioni. Ma quando parliamo della persona umana la sicurezza non può essere valutata solo sotto l’aspetto della tecnica abortiva e degli aspetti fisico-biologici: la salute psichica delle donne è un fatto riconosciuto da tutti come estremamente importante, e per la sua salvaguardia viene invocato il diritto all’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni. Mi chiedo allora: come si può continuare ad accettare, nella prassi medica soprattutto, il criterio di proporzionalità traumatica quando tutta la letteratura scientifica evidenzia la devastante conflittualità psicologica post-abortiva, quando l’elaborazione del lutto (anche di aborti precoci e spontanei) è la causa di depressioni profonde, di perdita di libido, di infertilità e di perdita di capacità gestazionale successiva, quando nei nostri studi le donne ci gridano che la perdita di un figlio non è proporzionale al suo peso in grammi o alla sua lunghezza? Il tasso di sofferenza che evidenziano le donne dopo un aborto, in effetti, non è altro che la dimostrazione esperienziale di una evidenza profonda che il mondo medico si rifiuta di vedere o non ne valuta la reale gravità: che, cioè, si può interrompere una percezione biologica, ma non è possibile eliminare quella psichica né anticiparla. In definitiva il vissuto relazionale col proprio figlio non viene eliminato con l’eliminazione dell’embrione.
La RU486 riconduce la pratica abortiva volontaria, sotto l’apparente finalità della precocità e della sicurezza (sigh! Il 13% richiede un’evacuazione chirurgica, si veda Ojidu JI et all.,m J. Obstet. Gynacol. 2001) nel tunnel dell’aborto fai-da-te (Faucher P. et all., Gynecol. Onstet Fertil. 2005), invertendo e contraddicendo le motivazioni storiche e psico-sociali che hanno motivato fortemente la legge 194: un aborto privato, per quanto precoce e sicuro sia, aggiunge solitudine a solitudine. Inoltre, mentre nell’aborto chirurgico l’interruzione di gravidanza viene delegata tecnicamente a una terza persona, nell’aborto chimico da RU486 è la stessa madre che si autosomministra il veleno che ucciderà il proprio figlio. Gli effetti fisici sono gli stessi di un aborto chirurgico eseguito in anestesia: contrazioni, espulsione, emorragia, ma con la RU486, la donna vive tutto questo in diretta, senza neanche l’assistenza medica. E’ il massimo della responsabilizzazione psicologica!!
Colgo queste profonde contraddizioni di tipo scientifico, etico e umano nel momento in cui si vorrebbe un uso estensivo dell’aborto farmacologico alla società italiana, già pesantemente colpita da un malessere diffuso che ci fa assistere, sempre più frequentemente, a malattie dell’anima e della psiche, e in cui, purtroppo, i protagonisti sono, spesso, una madre e un figlio, la diade preziosa che la cultura pseudo – scientifica sembra voler sempre più separare e dividere.
Tutto ciò enfatizza come la medicina non utilizzi quel discernimento etico, di cui sopra, che abbraccia la persona in maniera solistica: termine poco conosciuto, ma che sostanzialmente esprime il modo globale di vedere la persona sofferente e soprattutto di dare valore all’aspetto psicologico che è intimamente collegato alla procreazione umana. Un’ultima dimostrazione dell’importanza del fattore psicologico viene anche da uno studio effettuato dal nostro gruppo nell’aborto spontaneo ricorrente. Confrontando un gruppo di 21 pazienti (con più di 2 aborti spontanei), che erano state sottoposte a terapia cognitiva comportamentale sul piano del supporto psicologico con un secondo gruppo di 46 pazienti, che non hanno potuto effettuarla per diversi motivi, abbiamo evidenziato che l’ottenimento di una gravidanza a termine e fisiologica è stata ottenuta nel primo gruppo con una prevalenza del 70% e nel secondo del 35%.
Capite benissimo qual è il discorso oggi da affrontare in questi temi sul vissuto materno. Tenere conto di questa complessità femminile e di coppie, significa anche non medicalizzare anche la fertilità e la fecondità al punto tale che la nascita di un bambino cosiddetto “senza rischio”, diventa l’attesa di un bambino a “possibile” rischio. Questo atteggiamento medico molto diffuso genera un circuito di ansia, di paura, e spesso la paura genera il rifiuto: l’aborto eugenetico è l’esito finale di questo rifiuto.
Se poi ci spostiamo sull’ultimo livello valutativo (quello embrio-fetale) diciamo che l’embrione è un protagonista, anche perché è un paziente a tutti gli effetti, ed è il promotore del parto. Quando ci troviamo a valutare cosa succede quando noi abbiamo un’interferenza sul mondo materno, vediamo che ci sono delle aggressioni indirette anche al bambino, perchè questa unità, che nella sua diversificazione non è una simbiosi solo biologica, ma nella realtà biologica è una unità feto-placentare e psico – dinamica. Per cui delle aggressioni al vissuto materno diventano aggressioni al vissuto fetale.
Il dolore fisico: l’embrione ha le terminazioni nocicettive già da sette settimane; ma la capacità di modificare la sensazione di dolore, avviene dopo 28 settimane. Cosa vuol dire? Vuol dire che se io faccio un danno fisico con le metodiche abortive, o tocco il feto in maniera aggressiva, il bambino sente dolore e non ha la capacità di modificare questo dolore, cioè di ridurre questa sensazione di dolore. Per cui sente cento volte di più il dolore, rispetto a noi adulti.
Questo è un dato importante: per noi che facciamo la terapia fetale invasiva, e quindi utilizziamo procedure invasive che servono a salvare quel bambino, e a curarlo anche da patologie malformative, è importante, prima della procedura invasiva, effettuare una analgesia percutanea al feto. Questi studi sull’analgesia fetale sono derivati da osservazioni fatte da medici abortisti, i quali si sono resi conto nelle loro esperienze abortive, che il feto, anche molto precocemente, aveva risposte inusitate al dolore. Essi, pur essendo abortisti, hanno comunicato al mondo scientifico questo dato sulla sensibilità fetale e a chi criticava questo genere di studi hanno risposto: “E’ esperienza comune nella pratica sperimentale anestetizzare l’animale, anche se poi viene sacrificato: e perchè il cucciolo dell’uomo non dovremmo anestetizzarlo? Almeno trattiamolo come un animale sperimentale”. Questa espressione molto forte esprime inequivocabilmente un aspetto inusuale della cultura moderna: tanta sensibilità verso gli animali, tanta indifferenza verso gli embrioni umani.
Ma il bambino, il feto, ha una sofferenza anche psichica. Ci sono una serie di contributi che correlano molto bene la presenza del dolore fisico, come avviene nell’adulto, che è ricordato quando è associato ad una esperienza di dolore. Ci sono tantissimi studi che dicono che gli stress della madre vanno a causare problemi e disturbi anche del comportamento nella prole.
I dati scientifici ci dicono che viene alterato direttamente, per degli stress nella madre, lo sviluppo dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene. In uno studio effettuato sulla genesi della schizofrenia è stato valutato il livello di tolleranza allo stress psicologico materno di 30 coppie di gemelli monozigoti. Agli studi effettuati tra 6 e 8 anni dopo la nascita, 23 coppie risultarono discordanti per schizofrenia (1 era normale e 1 malato) e 7 coppie presentavano ambedue i gemelli normali. Il dato strano di questo studio era la loro discordanza per schizofrenia (cioè uno sano e uno invece schizofrenico). Pur essendo monozigoti, avevano le linee della mano (dermatoglifi) diverse, invece avrebbero dovuto averle uguali. Qual è l’elemento che unisce questa considerazione? Fra le 12 e le 19-20 settimane, cioè la fine del primo e l’inizio del secondo trimestre, c’è una migrazione dei neuroni a livello del feto, che è molto simile, sovrapponibile, alla migrazione che hanno le cellule che vanno a formare le linee della mano. Se la madre ha subito un insulto stressante molto forte, sicuramente questo stimolo ha giocato un ruolo di danno sulla migrazione neuronale, che essendo temporalmente simile alla migrazione delle cellule che formano i dermatoglifi, evidenzia una diversità migratoria e questo spiegherebbe la discordanza per schizofrenia.
Oggi assistiamo a una vera e propria codificazione della vita umana: l’embrione è un oggetto e non viene per niente percepita la valenza e la sacralità della sua esistenza. Fecondazione extracorporea, crioconservazione, diagnosi pre-impianto, riduzione embrionale, feticidio selettivo, utilizzo degli embrioni ai fini di ricerca e di sperimentazione. Viene spesso invocato il fine buono per usare gli embrioni, ma non è possibile ottenere un fine buono cosificando la dignità della vita umana. Il discernimento etico ci aiuta a riflettere e ribadisce il concetto che le più alte conoscenze sono quelle che vengono utilizzate per servire la persona e non contro la persona. Quante acrobazie della scienza.
Ma il medico non può essere un acrobata: l’acrobata è una persona che fa il suo lavoro molto bene, anche per far vedere la valentia da un punto di vista fisico e divertire le persone. Il medico, invece, ha una posta molto più alta e deve restituire con la sua vita e con il suo servizio il vero significato della sua missione.
La cultura del pre-natale deve mirare a riconoscere nel feto un soggetto per mantenere sempre l’equilibrio tra ciò che è utile nel progresso scientifico e quello che è utile per il feto. Tale confine viene individuato e mai valicato quando l’iter diagnostico si continua con quello terapeutico. Il vero servizio alle famiglie è quello di proporre terapie alle diagnosi e non l’eliminazione o l’anticipazione della diagnosi per poterlo eliminare prima.
Curare il bambino? Certo, sempre, fin dove si può! E dove non si può? Provvediamo all’accompagnamento, accompagniamo il bambino, anche quando è terminale.
Ho seguito 30 pazienti che hanno accompagnato il feto terminale. Ne dico una sola: paziente con feto con agenesia renale bilaterale.
“Voglio sapere se anche voi mi confermate che questo feto è senza reni”.
Faccio tutte le indagini e confermo: “ Sì, il bambino è senza reni”.
“Allora io faccio l’interruzione”.
“Signora, guardi, le vorrei proporre un’altra alternativa, sia perchè la legge mi consente di proporre alternative dissuasive, sia perchè sul piano medico, lei non sa cos’è la sindrome post-abortiva. E’ qualcosa di devastante”.
“ Lei mi propone qualcosa che non riesco a fare”e la paziente va via piuttosto irritata.
Dopo nove anni ritorna da me.
“Si ricorda di me? Sono quella signora che se ne è andata sbattendo la porta … voglio dirle che lei aveva ragione”.
“In che senso?”
“Nel senso che io adesso sono di nuovo incinta, e ho di nuovo un bambino con agenesia renale bilaterale. Nove anni fa mi ha parlato, e io pensavo che lo dicesse per il fatto che, stando alla Cattolica, proponevate anche l’accoglienza di un bambino che sicuramente sarebbe morto. Non mi sono resa conto della consulenza che invece era di tipo strettamente medico, scientifico, perchè ci ho messo nove anni a rifare l’esperienza di gravidanza, nove anni a elaborare quella perdita. Eppure era un bambino terminale. Nove anni, e mi ritrovo adesso così. Però adesso voglio fare quello che non ho fatto nove anni fa”.
Questa donna che abbiamo seguito insieme – si chiama Claudia – ha accompagnato la bambina, Alice, fino a 38 settimane, ha fatto le visite, Alice è nata, è morta dopo sei ore. Claudia è venuta dopo un mese da me:
“Professore, le ho portato questa scultura di Ottaviani: due corpi che al posto della testa hanno le mani che si intrecciano. Mi hanno detto: ma a chi la devi regalare, al ginecologo? Ma questa si regala a due persone che si sposano. Vuoi sposare il ginecologo? No, io non voglio sposare lei, ma sono già sposata con lei, da un legame particolare: lei ha condiviso una sofferenza con me. Questa è la medicina condivisa. Lei si è interessato del mio problema, fornendomi una risposta scientificamente e nuovamente giusta.
Io la sindrome del post-aborto l’ho sperimentata: ne parli dove va, lo dica alle donne che è devastante! E deve mettere questa scultura sul suo tavolo, mi deve ricordare, e io la ricordo, perchè in nove mesi della mia vita lei mi ha permesso di riscattare nove anni della mia esistenza”.
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