Claudio Risè – Psicoterapeuta, professore di Sociologia dei processi culturali presso l’Università dell’Insubria
Riassumerò come io vedo la figura del padre, che è stata, in un processo di smarrimento, edulcorata e molto svirilizzata . Per entrare in tema basta riandare a come si parla del padre oggi sui media: il padre è diventato nel discorso collettivo una figura sentimentale, qualche volta affettiva, spesso economica, ma se ne sono persi i fondamenti costitutivi.
Il padre come creatore.
Un fondamento della figura paterna è la sua appartenenza alla figura del creatore. Il padre è creatore, anche se non solitario, ma originario: è colui che mette in moto, grazie alla propria iniziativa, e all’accoglienza e successiva partecipazione della madre, l’inizio della vita.
Nel dibattito sulla paternità, anzi sulla genitorialità in cui il tema della paternità viene sempre più spesso annegato e confuso (come se fosse privo di suoi connotati specifici, che vengono al contrario sempre evidenziati e valorizzati parlando del materno), questo aspetto centrale del contenuto psicologico e simbolico della relazione paterna, vale a dire quello dell'”iniziativa vitale e della prima origine”, ha finito con l’essere completamente cancellato.
E quindi, hanno finito collo sbiadire sia l’evidenza che ogni uomo non é causa e responsabile dell’inizio della sua stessa esistenza, sia le conseguenze psicologiche e simboliche di questo fatto. La tradizione aveva sintetizzato questa condizione umana universale, col concetto di creatura, ed i suoi attributi. Io sono una creatura perché qualcun altro mi ha posto nell’essere e mi ci ha posto senza che io glielo abbia chiesto . Ha deciso per me prima che io ci fossi e io sono il risultato di questo atto di volizione. L’uomo, se ha consapevolezza, appare a sé stesso quel che è, con le parole della tradizione: è una creatura, dipende dall’atto del suo creatore.
Se questa è l’inevitabile condizione umana, il problema centrale, primario, decisivo, che ognuno di noi uomini ha è quello di identificare in qualche modo la sua origine: da dove vengo? E questo interrogativo, fondante la personalità, rimanda alla figura del padre, che deve essere consapevole della sua portata nel destino dei figli. Tutta la storia umana è la storia di questa ricerca dell’origine o, in altri termini, tutta la storia umana è la storia del rapporto, la storia del legame con la propria origine.
Dire che la storia umana è la storia del legame con la propria origine introduce un’altra grande parola della tradizione, oggi rimossa quanto il significato profondo di padre, e di paternità. Si tratta di: legame, di cui si parla nella sequenza religo, religens, religio. La storia umana dunque è storia religiosa. Anche la storia di ogni singolo individuo, in quanto umano. L’uomo, in quanto creatura, è fatto (quindi dipende), da un legame con qualche cosa d’altro da sé, per questo forse la definizione più esatta dell’uomo è questa: l’uomo, che è figlio, creatura, è un essere religioso, homo religiosus, perché è costituito da un legame, che ne segna l’origine, quindi l’appartenenza, e il destino.
E così la storia umana è la storia di questo rapporto, la storia della re/ligione, del legame padre-figlio, che rimanda all’Altro Padre, alla Creazione avvenuta per mezzo di lui, ed al suo intervento nella storia dell’uomo. Il che significa che la rimozione di questo legame paterno – quello col padre naturale, ma anche quello col Padre trascendente – priva l’uomo, ed anche il singolo individuo umano, della propria storia. Ne fa un personaggio non solo “privo di autore”, ma privo di contesto, di scenario in cui muoversi, di direzione verso la quale tendere. D’altra parte, qui si vede anche come la rimozione di Dio, realizzata non solo attraverso le speculazioni intellettuali sulla sua “morte”, ma col suo allontanamento da noi attraverso il processo giuridico-politico di secolarizzazione, coinvolge fatalmente la fine della figura paterna come figura dotata di senso, in quanto la svuota del suo contenuto di “creatore”. Il concetto di Dio infatti, nel suo significato fondamentale, è quello dell’origine, il creatore a cui io debbo la mia vita, e dunque me stesso. All’origine, al Dio a cui tutto il mio senso religioso , la mia consapevolezza del legame originario mi dirige, è dato un nome: quello di Padre, per l’appunto; se mi è padre io sono affine a lui. Ne sono creatura.
Tuttavia, perché tutta la dinamica della creaturalità prenda l’avvio, dalla presa di coscienza dell’appartenenza originaria a quella del destino che ne discende, occorre che il padre dica il proprio nome, ne sia consapevole. Conosca la propria essenza. Ciò è reso possibile dalla rivelazione, avvenuta nella tradizione ebraico–cristiana, che culmina con l’avvenimento cristiano. Ed è da questa tappa che il corso della storia umana è cambiato: se la storia umana è storia religiosa, nel momento in cui il nome del Padre viene pronunciato, l’uomo comprende la propria identità. Con l’incarnazione del Figlio nell’uomo, e la rivelazione che egli fa del Padre, nasce l’Io compiutamente umano dei nostri tempi.
Quando con il cristianesimo il creatore si rivela come Padre, noi abbiamo e riceviamo la più importante informazione sulla nostra identità, come ricorda anche Giovanni Paolo II: l’uomo è stato rivelato a se stesso perché gli è stato detto che lui è figlio. Non solo ha un nome l’origine, ma avendo un nome l’origine, Padre, abbiamo un nome, un’identità, anche noi, figli. Si tratta non di un’identità metafisica astratta, ma di carne, ossa, sangue del mio stesso essere. Ogni uomo è nato perché l’atto creatore del Padre Celeste è passato attraverso l’atto generatore del proprio padre umano. Pertanto la mia identità dipenderà dalla mia relazione con quel padre umano, che per me è stato il veicolo generativo attraverso cui è passato l’atto del Padre che mi ha creato.
Riflettere perciò sulla vicenda della paternità umana, diventa decisivo per comprendere in profondità la vicenda della nostra vera identità. Dalla cui conoscenza dipende strettamente il nostro sviluppo propriamente umano: l’individuo che (pur avendone le potenzialità psicofisiche ) non si conosce, perché non sa da dove viene, non riconosce la sua origine dal padre, non può quindi neppure immaginare una meta. Si trova dunque ad essere fortemente limitato nella realizzazione della propria umanità.
L’uomo è appartenenza al Padre creatore celeste, e solo attraverso il Padre è generatore umano. E’ però accaduto nel nostro presente (non è accaduto ieri l’altro, è accaduto oggi, ci riguarda) che l’uomo abbia rifiutato di appartenere al Padre Celeste: ed è la vicenda del processo di secolarizzazione cui io faccio risalire il progressivo sbiadimento della figura paterna in Occidente, sia come consapevolezza del significato della paternità nei padri, sia come riconoscimento dei suoi contenuti da parte degli altri membri della famiglia, e della società. Nel rifiuto del Padre l’individuo della tarda modernità coinvolge anche l’appartenenza che lo lega al padre umano. E così facendo chiude ogni visione che illumini le sue possibilità di sviluppo, di direzione, e di “senso” (nel significato, appunto, di direzione), della propria esistenza.
Il padre, infatti, è alla nostra origine, ma in quanto tale è anche colui che ci consente di guardare verso il nostro destino. Perché se noi non abbiamo un’origine, non sappiamo da dove veniamo. Se abbiamo trasformato il padre da figura di creatore ad una figura di supporto sentimentale o di funzionario sociale, che deve adempire in qualche modo a funzione utilitarie, materiali all’interno della famiglia e della società, se non sappiamo che noi veniamo da quell’uomo, la nostra identità sarà vacillante e non sapremo neanche identificare il nostro obiettivo, il nostro percorso, il nostro futuro. Se non siamo collegati con le radici, non possiamo nemmeno gettare i nostri rami nel cielo: le due attività, che fanno porte dell’aspetto dinamico della vita umana, sono strettamente legate. Ma, allora, questa edulcorazione della figura paterna si è tradotta in un taglio della storia dell’uomo dal lato dell’origine e, necessariamente, dal lato dello sviluppo.
Lo sbiadimento della natura di creatore della figura paterna porta ad una crisi dello sviluppo umano, induce una stasi.
Il padre come testimone della ferita
L’altro aspetto specifico della figura paterna che mi sta a cuore sottolineare è quel suo ruolo scomodo, oggi assolutamente impopolare: il padre è colui che porta nella vita del figlio l’esperienza della ferita, l’esperienza della perdita.
Lo scenario che esprime compiutamente per ogni tempo e per ogni individuo questa vicenda è la vicenda che si produce sul Golgota: il Figlio che viene ferito fino alla morte nel nome del Padre, per compiere il suo volere. In questa vicenda fondatrice della nostra civiltà, e della nostra storia personale e collettiva, vediamo con precisione il significato della figura del padre: il padre è colui che ti conduce alla ferita, che ti inizia al senso del dolore. Che ti fa morire perché tu possa risorgere, trasformarti. Come ha ricordato don Giussani nel suo ultimo augurio pasquale: “se la vita non è resurrezione, è uno scivolare triste verso la morte”. O, come scrive Cordes: “Nell’azione salvifica di Gesù diventa visibile lo stesso Padre che ha tanto amato il mondo da dargli il proprio figlio per la nostra salvezza”.
Il padre insegna e testimonia di fronte al figlio, e per il figlio è una conferma, una rassicurazione, ma che passa anche dalla perdita, mancanza, fatica. Le esperienze più profonde, a cominciare da quella dell’amore, prendono origine e forma proprio in quella della perdita.
Della ferita fa anche parte una esperienza costitutiva essenziale della vita umana, e di nuovo della nostra civiltà e cultura cristiana, ed è l’esperienza del male, altrimenti inesplicabile e psicologicamente sterile. In uno scritto molto profondo nato da un dialogo con don Luigi Giussani, “Il senso della nascita”, Giovanni Testori ricorda che l’uomo deve riconoscere il dolore del proprio male, come dignità, e spiega come questo riconoscimento sia legato alla relazione col padre. Se manca la relazione con il padre, tutta l’esperienza della ferita (che è quella che poi Freud chiamava laicamente, e accentuandone solo un’angolazione, l’esperienza della “castrazione”), e, più in generale, l’esperienza del male, diventa inesplicabile.
Il padre è colui che passa al figlio il sapere trasformare la ferita e la perdita, da esperienza distruttiva, in un passaggio indispensabile alla costruzione della personalità. E’ nel dolore, nella difficoltà, nello smarrimento, che la personalità si fortifica, e trova i suoi percorsi di crescita. A trasmettere questo sapere è il padre.
Ma perché il padre testimonia della ferita, della perdita? Com’è che avviene fenomenologicamente, nella storia dell’individuo, questa vicenda? Avviene perché il padre infligge, o dovrebbe infliggere, la prima ferita affettiva e psicologica nella vita dell’individuo, indispensabile perché l’Io venga a formarsi. Si tratta del gesto, che in realtà condensa una molteplicità di comportamenti, attraverso il quale il padre interrompe nei figli la simbiosi con la madre, in cui l’individuo, se tutto va bene, si trova dal momento in cui viene concepito, per alcuni anni dopo la nascita. Di sicuro tre, meglio se cinque, e anche oltre. E se non interviene un padre (che in tutte le culture tradizionali si impegna in quest’attività per solito al termine del primo settennio, verso gli otto anni) a prendere questo figlio e a toglierlo dalla simbiosi con la madre, se il padre non viene a prenderlo, il figlio rimane nella simbiosi. Che è una vicenda psicologica, ma anche una vicenda psico-organica: i due corpi erano fusi da molto tempo e la simbiosi continua a presentare degli elementi fusionali sui sottili confini tra psiche e corpo. In assenza di intervento paterno abbiamo allora la formazione, che è nostra esperienza quotidiana oggi, di personalità pseudo – adulte, che in realtà adulte non sono, perché non sono mai state separate dalla madre.
Questo non vuol dire che rimangano necessariamente legate in modo fusionale alla stessa madre naturale. Spesso accade anche questo, ma più spesso, nel tentativo di continuare a ricostituire dei legami di dipendenza di cui questo individuo “matrizzato” non sa fare a meno, la persona rimane dipendente dal gruppo delle conoscenze più vicine (la ricerca della dipendenza dalle sette si inserisce in questo bisogno infrantile della personalità), o dal sistema dei consumi, compreso il consumo dello spettacolo mediatico, cui l’individuo non riesce a sottrarsi, e nei confronti dei quali non riesce a porsi come soggetto. La relazione coniugale poi, se ci si arriva, tenderà a riproporre, e per entrambi i generi, le stesse caratteristiche di fusionalità e di dipendenza, le stesse fantasie di possesso , che caratterizzano il rapporto madre-bambino. Quindi l’Io non si è formato, perché non c’è mai stato un Io che abbia potuto rivolgersi al mondo riconoscendolo come un “Tu”; l’Io è sempre rimasto immerso in questa simbiosi, perché nessun padre l’ha mai interrotta in un rito che risponda alle stesse finalità dei “riti di iniziazione ” praticati dai popoli tradizionali.
Simbolicamente, e quindi psicologicamente, sono molto interessanti questi riti di iniziazione, per chiarire il nostro tema. Uno dei più classici e dei più famosi, raccontato dallo storico delle religioni Mircea Eliade, è quello del gruppo degli uomini che raggiunge il gruppo delle donne, che a loro volta stringono a sé i bambini, naturalmente ritualmente, perché in realtà sanno bene cosa sta per accadere; gli uomini strappano alle madri i bambini e li alzano offrendoli a Dio. Questo è uno dei riti che esemplifica bene cosa fa il padre: prende il figlio alla madre e lo offre a Dio, lo sposta dalla dimensione orizzontale (ritorniamo qui all’ immagine della croce), cioè parallela alla terra, al mondo delle necessità e dei bisogni materiali, e lo mette nella dimensione verticale, della comunicazione col divino e col Padre Celeste. Ponendolo al centro della Croce, che rappresenta l’esperienza umana.
Cosa succede quando questa esperienza del padre, come testimone della ferita, non viene fatta? In termini di costituzione dell’Io, esso non può definirsi nella sua interezza, ed autonomia da un altro soggetto affettivo (la madre e le sue successive rappresentazioni, individuali o collettive), che rimane dominante nella sua natura di fornitore di appagamenti. Questo Io dipendente, che caratterizza il figlio/a senza padre, non potrà reggere poi alcuna ferita. Per esso, ogni perdita non è più introduzione a una nuova condizione esistenziale adulta, che lo mette in grado di interloquire, di scambiare con il mondo, e con Dio, ma solo un’ insopportabile, ingiusta, violenza. Non c’è infatti stata l’esperienza fondatrice del padre, che, ribadendo la sua responsabilità di creatore e il suo legame fondatore di appartenenza e di originarietà nei confronti del figlio, trasmette il sapere, e la pratica della ferita e della perdita come processo costitutivo della personalità.
Le tappe dell’allontanamento del padre
Ora qualche parola sul come è accaduto che questi aspetti specifici e costitutivi della figura paterna siano stati rimossi. E si sia arrivati da parte di sociologia, psicologia e antropologia, a chiamare convenzionalmente la nostra società occidentale, ‘società senza padre’, perché è la prima società nella storia del mondo, che ha provato a rompere i due aspetti fondanti del rapporto figlio-padre, quello di co/creazione, e quello di testimonianza della perdita come esperienza costitutiva della personalità.
La prima tappa di questo processo è costituita dal “processo di secolarizzazione”, cioè il tentativo che si sviluppa da un certo punto in poi, e più marcatamente dall’Illuminismo di separare la vita dell’uomo dall’esperienza del sacro. Da un certo punto in poi si dice che l’universo dell’uomo, della vita umana, può tranquillamente concentrarsi sulle cose, sulle acquisizioni, sugli oggetti, sulla vita sentimentale, e che l’universo del sacro è un’altra cosa, con cui l’uomo può o meno avere relazione, é un optional, che non deve comunque travalicare lo spazio strettamente privato. I preti e le suore cui è proibito di presentarsi col loro abito nelle scuole di Francia, e in alcuni stati tedeschi, sono uno dei più recenti momenti di questo processo. Questo processo di secolarizzazione interrompe in Occidente il rapporto dell’uomo con il Padre divino. Con esso il Padre non è più presente in ogni momento nella vita umana e non è più il riferimento del mondo simbolico da cui derivano, in Occidente, le identità e le appartenenze.
All’interno di questo processo, ed in particolare sulla questione del padre, gioca un ruolo fondamentale la riforma protestante, e la figura di Lutero. Nella sua visione egli rompe l’unità dell’esperienza umana dividendola tra regno di Dio e regno del mondo, e sposta in questo secondo ambito, cioè nel regno del mondo, l’esperienza dei figli e del matrimonio, istituto che Lutero ritiene che appartenga esclusivamente all’ordine terreno.
E’ Lutero che secolarizza, come riconosce l’antropologia religiosa, il matrimonio e la famiglia. Il processo di secolarizzazione era già in atto, ma il realizzatore della secolarizzazione nel campo della famiglia è Lutero, con la riforma protestante.
E’ il riformatore protestante che statalizza in qualche modo la paternità, cioè comincia a fare del padre quel provvisorio, avventizio, funzionario statale, che, perdendo sempre più rilievo, continua ad essere fino ai nostri giorni. Ciò toglie al padre terreno ogni aspetto di riflesso del Padre Divino, che gli conferiva enormi responsabilità, naturalmente, ma da cui derivava il suo specifico significato all’interno dell’ordine simbolico di una società non secolarizzata. Lutero sostiene che il divorzio non riguarda la Chiesa, ma lo stato. E’ ancora Lutero che chiama sua moglie, in famiglia, “Dottor Kate”, trasferendole una parte molto rilevante dei ruoli educativi, che fino ad allora erano stati svolti dal padre. Come osserva l’antropologo Dieter Lenzen, poche generazioni dopo di lui, nessuno sapeva più, quanto meno nella tradizione protestante, cosa avesse significato paternità prima. Si tratta di un punto di svolta decisivo all’interno di questa vicenda.
La perdita di significato del padre continua con la rivoluzione industriale, successiva all’Illuminismo e alle rivoluzioni borghesi (francese ed inglese), in cui il padre, all’interno della famiglia, diventa un amministratore, e sempre di più rinuncia alla sua caratteristica di creatore, e di iniziatore ed educatore.
Il passaggio del padre da formatore della personalità, a rifornitore di alimenti avviene all’interno del processo di industrializzazione, durante il quale vengono ribadite alcune posizioni fondamentali del processo di secolarizzazione, cioè che le sterline sono più importanti dei riti religiosi, e che la cosa più sacra, cui bisognava stare bene attenti, era lo sfruttamento del denaro (B. Franklin). Quindi un processo, quello della rivoluzione industriale in cui i valori economici prendono il sopravvento, insieme con una visione complessivamente materialista, sulle domande e anche sulle risposte di tipo più spirituale.
All’interno di questo processo succedono alcune cose abbastanza importanti, che ricorderò per immagini.
Una scena autobiografica raccontata da David Herbert Lawrence, che vive nel momento del compimento della società industriale, descrive il padre che ritorna a casa la sera dopo il lavoro nelle miniere, sporco, per il quale è pronta una tinozza nella cucina perché possa lavarsi. Il padre si spoglia, il figlio guarda questo uomo vigoroso che ha lavorato tutto il giorno, pieno di carbone; lo guarda ammirato e pieno di amore, e la madre, che è maestra, lo prende da parte e gli dice: “Vedi quell’uomo sporco, tu non dovrai mai essere come lui, tu dovrai diventare un intellettuale, un signore”.
In questa posizione, che non è solo della madre di Lawrence, ma è la posizione di buona parte della società protestante, che è la punta di diamante della società della industrializzazione occidentale, la separazione dal padre assume dei dati culturali e quasi razziali: il padre diventa il rappresentante del lavoro manuale, del lavoro fisico, maschile, diventa una figura forte solo fisicamente, ma debole dal punto di vista culturale, valoriale, delle “buone maniere”. Una figura svalutata, nei confronti della quale il giovane viene sollecitato a separarsi.
Questo, come vediamo in tutta la produzione letteraria di Lawrence, che da questo punto di vista è molto chiara, crea una scissione fortissima nell’essere umano occidentale tra il mondo dell’istinto, ed il mondo della cultura industriale, che diventa poi quella del consumo. Ma l’istinto è anche il mondo della relazione con la natura, con l’ordine e la legge naturale, e quindi il mondo dove si trova Dio. L’affronto alla natura ed alla legge naturale, e a Dio che le ha volute, procede di pari passo, come è evidente, ad esempio, nella questione della fecondazione artificiale, dell’aborto, e delle cosiddette “politiche di genere”. Se si toglie l’ordine naturale, e gli si sostituisce quello che i tedeschi hanno chiamato “processo di civilizzazione”, che ruota attorno a comportamenti di buone maniere, a modi di comportarsi, e a tecniche e dispositivi sociali, ad esempio l’ideologia del politically correct, si priva la vita umana sia dell’orientamento naturale, sia della luce di Dio, che quella natura e quel corpo hanno creato. L’individuo diventa così prigioniero di un mondo fabbricato, fatto di modelli di comportamento in cui non ci sono più né appartenenze, né destini personali. Ci sono solo modelli prefabbricati di comportamento, che sono poi dei modelli di consumo. Ma qui siamo già a quella che nei miei libri io chiamo società “grande madre”, la società dei consumi.
Un passaggio rilevante, che vorrei ricordare, è quello delle due guerre mondiali del secolo scorso durante le quali gli uomini stanno lontani da casa per molti anni, e spesso muoiono, e non tornano più a casa; in quegli anni sono le donne che si devono occupare dei figli. Gli uomini che tornano dopo la seconda guerra mondiale trovano poi un mondo sostanzialmente cambiato, appunto la società “grande madre”, in cui ai vecchi modelli produttivi, modellati sull’unità produttiva familiare, strutturata su una trasmissione di sapere da padre a figlio, si è completamente sostituita la grande corporation, una unità produttiva impersonale in cui non c’è nessuna trasmissione di sapere, anzi i saperi vengono continuamente modificati. Ogni detentore di sapere, compreso il padre, è ora una figura provvisoria, qualcuno che per breve tempo dispone di un sapere provvisoriamente utile, destinato ad essere rapidamente sostituito. Un sapere intrasmissibile perché subito obsoleto.
Come funziona questa società grande madre, che si esprime attraverso la figura della grande corporation? Funziona come nei miti più negativi di questa figura archetipica, la Grande Madre appunto, aumentando il proprio potere attraverso la soddisfazione dei bisogni. E’ una società estremamente attenta a soddisfare bisogni materiali, anche a suscitarne di nuovi e soddisfarli con prodotti di consumo, e attraverso questo aumentare il proprio potere.
Questa questione del soddisfacimento del bisogno (che è in gran parte un bisogno di possedere. Per esempio, possedere ad ogni costo un figlio che non arriva naturalmente), ha un grande rilievo, sia dal punto di vista della costituzione dell’Io, sia quindi dal punto di vista della formazione spirituale. Cosa succede infatti nel mondo dove tutto è consumo, e dove il funzionamento dell’individuo viene deformato a richiesta di bisogni, perché vengano soddisfatti? Accade che in quel mondo non ci siano più desideri, perché il mondo materno, primario, della soddisfazione del bisogno, è antagonistico al mondo della produzione del desiderio, che è il mondo spirituale in cui l’individuo viene introdotto dalla iniziazione paterna. Perché un desiderio si produca occorre che l’individuo sia libero dal bisogno, altrimenti non può investire sul desiderio, in cui l’immaginazione, e il sentire personale sono determinanti.
Il desiderio è il risultato della libertà: appunto per questo dal rapporto con il padre, dice ad esempio Giussani, è la libertà.
La libertà viene dalla relazione con un padre che te la insegna, magari contrapponendoti un modello che tu non hai e costringendoti a misurarti con questo modello; è lì che formi la tua libertà. Ma se questo non avviene e tu sei preso dentro un circuito dove c’è solo la soddisfazione del bisogno, alla libertà di desiderare non arrivi mai, perché sei coatto ad appagarti, a soddisfarti. Non reggi proprio la distanza dall’appagamento in cui si forma il desiderio. E qui vi posso dare la mia testimonianza di terapeuta: la maggiore patologia di oggi non è quella di avere dei desideri sbagliati, ma è quella di non avere affatto desideri, è quella di non sapere qual’è il tuo desiderio, è quella dello spegnimento di qualsiasi desiderio all’interno di un universo, che si chiude nella soddisfazione del bisogno, nella continua recezione di bisogni – che sono poi dei possessi – da soddisfare.
Il divorzio, e la cacciata del padre
Dopo il processo di secolarizzazione, e quello di sviluppo della società dei consumi, il grande produttore dell’assenza del padre oggi è l’istituto, e la cultura, del divorzio.
Vi darò anche qui alcuni dati della società americana, che è un po’ il pesce pilota della nostra. In America oggi un matrimonio su due finisce con un divorzio e la previsione statistica è che nel giro di quindici anni due su tre finiranno così. In Italia, come voi sapete, siamo a livelli minori, ma il ritmo di incremento negli ultimi anni è analogo. Negli Usa il 75% dei divorzi è chiesto dalle mogli, le quali si vedono affidare in oltre il 90% dei casi i figli e la casa. Anche questo dato, della maggioranza delle donne nella richiesta di separazioni in Italia è minore, ma l’incremento è analogo, specie nelle zone a maggior reddito femminile.
Questo padre, di cui viene chiesta l’espulsione, viene chiamato in America, nel comune discorso politico-mediatico “padre disposable” (come voi sapete disposable sono tutti gli oggetti “usa e getta”, come le siringhe).
I padri che perdono la casa, hanno dei forti disorientamenti sia fisici, che logistici, che finanziari: perdono molto spesso il lavoro e sono loro stessi tra i principali partecipanti alla crescita degli homeless.
La cacciata del padre dalla famiglia, attraverso il divorzio, è l’elemento principale oggi in Occidente, insieme al rapimento dei padri da parte delle grandi corporations, che determina l’assenza del padre.
Su questo fenomeno, che io ho appunto chiamato la fabbrica dei divorzi, si è organizzato un giro economico straordinario di avvocati, psicologi, assistenti sociali, tutto un personale specializzato che vive sulle sezioni del diritto di famiglia nei tribunali, sullo sviluppo dei divorzi, ed è quindi interessato a che i matrimoni saltino e le famiglie finiscano. Questo è il fenomeno non solo affettivamente più disgregante, ma anche economicamente più pericoloso della società occidentale. In America si è calcolato che il costo dell’apparato della fabbrica dei divorzi è superiore a tutto quanto speso dallo stato federale per l’assistenza e l’educazione delle tossicodipendenze e dell’alcolismo. Si tratta di una fetta di reddito nazionale rilevantissima, che viene sprecata in un fenomeno completamente distruttivo. Da questo punto di vista è assolutamente desolante, e ritengo sia un fenomeno che ci interpelli molto vigorosamente, il fatto che mentre in America l’attuale amministrazione è sicuramente e dichiaratamente preoccupata di questa situazione, così come della situazione dell’aborto, della diffusione dell’aborto tra minorenni e così via, in Italia si discuta su come spianare ancora di più la strada alla distruzione della famiglia. Mentre nel mondo occidentale più avanzato il disastro comincia ad essere chiamato con il suo nome, da noi in Italia oggi, addirittura da forze di governo, come le varie deputate del gruppo autodenominatosi “branco rosa”, viene proposta una riduzione degli anni necessari, che devono passare tra separazione e divorzio, viene proposto cioè di cancellare questa intercapedine di tempo, che può consentire ai due di ritrovarsi. Da sondaggi fatti tra le coppie, e che cito nel libro Il Padre. L’assente inaccettabile, si rileva che in Usa una percentuale molto elevata di coppie, che dieci anni prima avevano dichiarato di essere sul punto di divorziare, intervistati dieci anni dopo, hanno dichiarato: “Meno male che non abbiamo divorziato, perché abbiamo ritrovato la nostra intesa e stiamo bene”.
Le conseguenze del divorzio
Naturalmente anche nella frequenza dei divorzi rientra il tema della ferita. Se due si sposano non sarà certo tutto rose e fiori, certamente litigheranno, certamente succederanno cose difficili tra di loro. Ma lo sviluppo della loro personalità umana sarà misurata dalla loro capacità di far fronte a queste difficoltà. Se però non sarà stato trasmesso nell’infanzia/adolescenza il sapere della ferita, perché il padre è assente, o addirittura cacciato di casa da un divorzio, la nuova coppia non riuscirà a far fronte alle difficoltà. E il divorzio dei genitori, col relativo allontanamento del padre, determinerà – come accade- il divorzio dei figli.
La moltiplicazione dei divorzi non è l’unica conseguenza dell’allontanamento del padre, testimone del sapere della ferita. Senza la sua presenza ogni mancato appagamento del bisogno diventa tragedia: il ragazzino che si uccide dopo il rifiuto del motorino, o dopo un banale rimprovero, è purtroppo cronaca corrente.
Su questo c’è purtroppo una grandinata di dati e di statistiche agghiaccianti: se il padre è colui che testimonia della ferita, la società senza padri è quindi da una parte un’ aggregazione di persone incapaci di reggere le ferite della vita e dall’altra parte incapace di desiderare, di formulare dei progetti di esistenza. Allora, per esempio, secondo statistiche americane, che sono le più precise, – e a volte anche le uniche che tengano conto di questi parametri – il 90% di tutte le persone senza dimora e dei figli fuggiti da casa non avevano un padre in famiglia, il 70% dei giovani delinquenti ospitati in istituzioni statali venivano da famiglie dove non c’era il padre, l’85% dei giovani che si trovano in carcere sono cresciuti senza padre, il 63% dei giovani che si tolgono la vita hanno dei padri assenti. E potrei continuare sulle tossicomanie, i disturbi alimentari, l’alcolismo. In qualche modo questa mancanza di colui che ti insegna la ferita e ti consente di reggere la ferita, in una società che moltiplica i bisogni, ed anche la difficoltà di soddisfarli tutti, ti porta in una condizione di progressiva e devastante emarginazione. Naturalmente questi dati non vanno letti in termini causali, secondo una rigida connessione causa-effetto. Potenzialmente l’individuo senza padre rimane libero di costruire il proprio destino. Ma il rischio che non lo faccia è molto elevato.
Questa è una situazione estrema che non ci può né lasciare indifferenti né consentirci di guardarla come se fosse una questione psicologica, una questione di “genere”, una questione che possiamo catalogare e mettere in un cassetto di una qualche categoria conoscitiva, per poi sbarazzarcene subito dopo. La questione del padre è una questione centrale in un mondo che vive una situazione estrema, una situazione che confronta con la sua capacità di lasciare che la vita umana continui e si sviluppi, oppure si autoliquidi, all’interno di un processo perverso che trasforma tutto in consumo, compresa la procreazione.
Dove siamo
Siamo oggi alla soglia tra vita umana e liquidazione della vita umana, siamo alla soglia tra senso e non senso, tra corpo creato e corpo fabbricato, tra individui liberi capaci di provare desideri, e schiavi che possono soltanto assolvere degli stimoli al soddisfacimento di bisogni, attraverso una rete di comportamenti di consumo. Io credo che questa situazione ci interpelli in modo definitivo, non accantonabile, perché da essa dipende la continuazione di una vita autenticamente umana, che sappia trovare il proprio senso e che sappia parlare con Dio.
Quello che io posso testimoniare è che vedo apparire, proprio nella fenomenologia delle manifestazioni della psiche, estremamente sofferente, dell’individuo di oggi, quello che Jung chiamava “l’istinto di guarigione”. L’organismo tende a guarire, non ad ammalarsi, la malattia è un incidente di percorso, l’organismo vuole crescere, come certi alberi che hanno a metà del tronco una ferita dentro: a volte la ferita è anche molto profonda, ma si vede che l’albero poi, crescendo, ci ha costruito intorno ancora della corteccia, e sopra ci sono cresciuti dei rami.
Siamo arrivati ad un punto così estremo da consentire una qualche rigenerazione. Questa rigenerazione certamente passerà da gravi turbamenti e modificazioni politiche e sociali, in cui saremo tutti interpellati e coinvolti, e da cui uscirà forse anche un nuovo profilo dell’uomo padre e della donna madre.
La nostra società é arrivata ad un punto sufficientemente estremo da non poter andare molto oltre, e da dovere quindi modificare la propria direzione. E le cose a cui bisogna rinunciare sono poi soltanto delle miserie, dei dolori, delle pseudo libertà – negatrici di ogni libertà autentica -, produttrici di sofferenze, e di patologie per noi e per i nostri figli.
____________
Note
In questa relazione mi sono avvalso delle ricerche confluite nei miei due libri sull’argomento:
Il padre: L’assente inaccettabile e Il mestiere di padre, entrambi pubblicati da San Paolo Edizioni, 2004.
In questi primi paragrafi mi sono ampiamente avvalso del lavoro del Prof. M. Cangiotti Introduzione a LA SOCIETA’ “GRANDE MADRE” E I FIGLI SENZA PADRE, Presentazione de Il Padre. L’assente inaccettabile, di C. Risé, ed. San Paolo. Avvenuta a Pesaro 2004, a cura dell’Associazione: Famiglie per l’accoglienza. (per Informazioni vedi le pagine: Incontri avvenuti, in www.claudio-rise.it).
L. Giussani. Il senso religioso, BUR.
Quando questa potenzialità/funzionalità non è presente ogni giudizio psicologico deve, a mio avviso, fermarsi, se non per manifestarsi come aiuto e accompagnamento, e lasciare quella vita nelle braccia del Padre, in cui già si trova.
Quel sentimento di possesso di cui parla molto bene Giussani nel suo Il miracolo dell’ospitalità, Piemme edizioni.
Ho parlato di questo nei miei libri: Il maschio selvatico. Ritrovare l’istinto rimosso dalle buone maniere; Essere uomini. La virilità in un modo femminilizzato. (red edizioni) e: Donne selvatiche. Forza e bellezza del femminile. (Frassinelli ).
Ricordiamo i molti passi in cui Giussani riferisce della scoperta di Dio attraverso l’incontro con la natura, cioè di qualcos’altro che ti interpella sulla questione della creazione e del tuo destino come creatura.
“Ma, come dice George Eliot in uno dei suoi Cori da la Rocca, in realtà non è accaduto questo: l’uomo non ha cessato di appartenere, è accaduto che, volendo rinunciare alla sua appartenenza al Padre, ma essendo fatto della sua appartenenza (perché se io sono, sono perché qualcuno mi ha posto) ha semplicemente cambiato il titolare di questa appartenenza. L’uomo, in quanto uomo, non può cessare di appartenere a qualcuno; per cui il rifiuto del padre, l’uscita dalla relazione padre – figlio che costituisce l’uomo, ha prodotto nell’uomo moderno non l’indipendenza, non il fatto che non appartiene più, ma ha prodotto un cambio di appartenenza. L’uomo, per sua stessa natura, è di qualcuno, se non è del Padre entra, come è entrato, in una relazione di appartenenza con qualcun altro. Con chi? Eliot dice con un padrone e ci da anche i nomi: denaro, lussuria, potere. La Bibbia, molto prima di Eliot, definiva ciò che si sostituisce al padre quando l’uomo rifiuta il padre, con il nome di idolo. L’uomo appartiene all’idolo. Quindi, invece del rapporto padre – figlio, si è creato nel tempo presente il rapporto fra signore – servo, perché se io appartengo al padre, la mia identità è quella del figlio, ma se io appartengo al signore, la mia identicità è quella del servo, non si scappa. C’è un immenso compito che ci aspetta: quello di ritornare alla consapevolezza di essere figli di un padre e non servi di un padrone, e penetrare con il massimo di lucidità tutto il degrado a cui ci ha condotti la condizione di servi dentro la quale siamo caduti rifiutando il padre”. M. Cangiotti, Introduzione, cit.
Dobbiamo anche aver chiaro, credo, che questi esponenti politici che spingono verso un aggravamento della disintegrazione della famiglia non sono né persone comuni, che vivono la realtà della vita di ogni giorno, né autentici esperti, che discutono e decidono sulla base di un autentico sapere antropologico e sociale. E’ bene ricordare, invece, che gran parte della legislazione riguardante la legislazione sulla famiglia, già fin dalle leggi sul divorzio e aborto degli anni 70, è opera di quello che è stato chiamato il “circo politico mediatico”. Vale a dire non un’autentica classe politica, ma persone che si impegnano su questi temi in quanto professionisti del circolo, chiuso e fortemente autoreferenziale, dello spettacolo politico mediatico, su cui vivono, perché è la loro unica professione e la loro unica competenza.
Che, come voi sapete, può oggi essere realizzata via internet, cliccando sul sito “man not included” (uomo non previsto) dove qualsiasi donna può chiedere il seme in virtù delle qualifiche e delle caratteristiche che desidera, colore degli occhi, particolarità fisiche, comprese quelle richieste dalle due signore lesbiche inglesi che l’anno scorso, essendo loro non udenti, hanno chiesto un figlio che non avesse l’udito e l’hanno in effetti avuto. E’ di non molti giorni fa la notizia di quell’altra coppia di lesbiche che, negli Stati Uniti, dopo aver avuto un figlio nello stesso modo, l’hanno fatto morire per le percosse, dopo una prima infanzia di stenti, maltrattamenti, e ferite fisiche.
Commenti recenti