Mons. Germano Zaccheo – Vescovo di Casale Monferrato
Siamo alla conclusione di un vasto e profondo studio e vorrei, sia pure con pochi cenni, rivisitarlo sui due fronti che reputo indispensabile distinguere.
Da una parte c’è evidentemente una “dottrina” che la Chiesa cattolica attinge, circa il delicato rapporto tra la famiglia e la vita, dalla sua fonte primaria di ispirazione che è la Parola di Dio e la Tradizione Cattolica, ambedue pilastri di riferimento per ogni problematica umana e sociale.
Ma questa connotazione, che molti appellano “confessionale”, non deve essere in alcun modo falsificata.
C’è infatti, sui temi sociali che toccano l’uomo e il suo destino, la società e il suo articolarsi, il progresso umano e il suo futuro (e cito esplicitamente i tre capitoli della “Gaudium et Spes”) una profonda consonanza della “dottrina sociale della Chiesa Cattolica” con alcuni cardini irrinunciabili dell’etica della natura e degli orizzonti vitali, che appartengono di per sé alla condizione umana ed ai fondamenti stessi della cultura.
Voglio dire che, mentre la Chiesa propone una “dottrina sociale”, la fonda anzitutto sulla razionalità, trovando poi conforto nella rivelazione.
“Fides et Ratio” ha scritto Giovanni Paolo II e non ricorreremo mai abbastanza a questo binomio e all’impostazione culturale da cui esso deriva.
Potremo citare a lungo e in molti passi la fondamentale Enciclica.
Mi soffermo solo su qualche affermazione per cogliere il senso globale.
Ciò che interessa a Giovanni Paolo II, nell’analizzare il delicato rapporto fra Fede e Ragione, è di mettere in evidenza la loro complementarietà e non la reciproca esclusione.
“I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell’unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell’uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana” (Veritatis Splendor n. 13 )
E in effetti la questione di fondo è proprio questa: il rapporto fra la “vera umanità dell’uomo” confrontata con una legge che lo trascende.
“Il presunto conflitto – afferma ancora il Papa nell’Enciclica – tra la libertà e la natura si ripercuote anche sulla interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità”. (n.51).
E cita assai opportunamente una bella pagina di Sant’Agostino:
“Dove dunque sono iscritte queste regole — si chiedeva sant’Agostino — se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell’uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l’immagine passa dall’anello nella cera, ma senza abbandonare l’anello”. (n.51)
Armonia dunque e non contrapposizione fra fede e ragione, tra rivelazione di Dio e “umanità dell’uomo”.
Più avanti, a conferma di questo orizzonte culturale, parlando degli atti che “contraddicono radicalmente il bene della persona” , il Papa cita un famoso testo conciliare:
“Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un’ampia esemplificazione di tali atti:
«Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore». (n.80).
Dottrina chiara, dunque, e tradizionale nella Chiesa: essa esprime tutto il rispetto per la ragione umana, pur dichiarando di volerle dare come un nuovo e solido fondamento: la fede.
Affermiamo dunque con forza e, sperando di non essere fraintesi, che, su alcuni fondamenti comuni all’intera umanità, la dottrina sociale della Chiesa, se apporta delle “conferme” che derivano dalla sua teologia, di fatto però non abdica a condividerle con tutti gli uomini di ogni fede e filosofia.
Prendiamo ad esempio il rispetto della dignità dell’uomo, della sua libertà e del suo intangibile diritto alla vita e alla cultura.
Sono valori fondamentali che non occorre la teologia per argomentarli, anche se la Teologia può confermarli con la forza di una Rivelazione.
Voglio insistere.
Spesso ci si accusa di volere imporre una “visione confessionale” dei problemi umani, anche a chi non ha la nostra fede. Chi ci accusa di questa confusione di orizzonti culturali è in evidente ignoranza del nostro autentico pensiero.
Sì, è vero che la Chiesa Cattolica riconosce in alcune affermazioni bibliche e teologiche delle “ragioni supplementari” per dare completezza e profondità a certe posizioni. Le quali però si radicano fondamentalmente sul buon uso della razionalità, che riconosce come dono principale dato da Dio all’uomo e all’umanità nel suo complesso.
È vero, insomma, che “non uccidere” è un comandamento divinamente ispirato (e quindi teologicamente fondato), ma è pur vero che esso è anche “imperativo categorico” per chiunque voglia fondare sul diritto e la giustizia la convivenza umana.
Non per nulla tale urgenza morale attraversa tutte le religioni e le trascende, attingendo al comune substrato di razionalità naturale, al quale tutti dobbiamo fare riferimento.
C’è, dunque, una “philosophia perennis”, che offre solide basi alla razionalità di ogni uomo, in qualunque latitudine culturale egli si ponga.
È forse questo il fondamento ultimo che certe concezioni filosofiche (ma più sociologiche e, talvolta, ideologiche) nei tempi moderni hanno tentato di insidiare.
Ma a noi pare che esso debba essere difeso come l’ultimo (anzi l’unico) baluardo di una pacifica, civile e solidale convivenza umana.
Detto questo con profonda convinzione, mi pare opportuno esemplificare sul nostro tema: famiglia e vita.
Nell’ottica finora esposta non si può dire che la “dottrina sociale della Chiesa” in tema di famiglia e vita sia sempre stata carente.
Sia che i due termini siano presi isolatamente, sia che siano correlati fra loro, come in questo convegno.
Famiglia, dunque.
Vita, dunque.
Due pilastri, anche singolarmente presi.
Della famiglia la Chiesa, attingendo ad una sua singolare tradizione afferma alcune componenti che considera essenziali.
Famiglia, come incontro stabile di una coppia formata da un uomo e da una donna, che pongono a fondamento del loro reciproco rapporto l’amore stabile e duraturo (anzi definitivo), almeno di per sé, prescindendo dalle vicende umane successivamente possibili.
Famiglia, come luogo che pone le condizioni per il fiorire della vita e per la sua crescita umana.
Famiglia, come luogo sociale che offre alla comunità, sia essa civile che politica, una struttura di base per lo sviluppo armonico e armonioso.
La società civile e politica risulta così secondaria rispetto alle famiglie che naturalmente la compongono e, per il principio di sussidiarietà, si dà il compito di integrare le famiglie nel loro compito nativo.
Noi non siamo statalisti, come in qualche esperienza deprecabile e deprecata si è cercato di sperimentare.
Per noi la famiglia viene prima dell’organizzazione statale . E ci chiamano pure “familisti”.
Ma tutto ciò è perfettamente razionale e non c’è bisogno di motivazioni religiose per viverlo. Anche se le motivazioni religiose possono aiutare a viverlo meglio.
Così è del primato dato alla vita.
Ma la vita non è un concetto astratto, filosofico . È una realtà.
Quando, per ben identificabili segnali, una donna sente che nel suo corpo sta nascendo una vita, dice semplicemente con il buonsenso popolare: “Aspetto un bambino”.
E con uguale commozione e partecipazione il padre va ripetendo ad amici e parenti.
“Aspettiamo un bambino”.
Niente è più sano del linguaggio popolare.
E così è di tutto lo scorrere della vita: del bimbo che cresce nel grembo come di quello che, dopo il trauma della nascita, va crescendo di giorno in giorno in una famiglia .
È sempre la stessa vita che abbisogna di cure, di protezione, di incremento.
In ogni stadio e in ogni età.
Fino all’ora di morire, che pure appartiene alla vita e alla sua inalienabile dignità.
A non nasconderci dietro le parole (o meglio alle sigle come IVG) la vita umana è un tutt’uno dal suo concepimento alla sua morte naturale.
E, ancora una volta, ciò non richiede alcun atto di fede né cattolica, né ebraica né musulmana.
Tutto ciò è semplicemente vero, razionalmente corretto: umano, direi.
Ma urge ancora una parola circa il rapporto fra queste due realtà, così profondamente iscritte nella cultura dell’uomo.
Ricorro per questo ad una pagina illuminante di Giovanni Paolo II che, nell’immortale Enciclica “Evangelium vitae” chiama la famiglia “santuario della vita”.
E scrive:
“All’interno del «popolo della vita e per la vita», decisiva è la responsabilità della famiglia: è una responsabilità che scaturisce dalla sua stessa natura — quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio — e dalla sua missione di «custodire, rivelare e comunicare l’amore». È in questione l’amore stesso di Dio, del quale i genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la vita e nell’educarla secondo il suo progetto di Padre. È quindi l’amore che si fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti. La famiglia è chiamata in causa nell’intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte. Essa è veramente «il santuario della vita…, il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un’autentica crescita umana». Per questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita”. (Evangelium Vitae n. 92).
Tutti i paragrafi 92,93,94, susciterebbero un’attenta rivisitazione, svolgendo questo tema. Per me ora basta avervi fatto riferimento per poter concludere che il tema del delicato rapporto fra famiglia e vita ha bisogno anche della luce della fede cristiana, per essere completamente inteso e attuato.
Ma esso- il rapporto- è talmente congenito e naturale che a nessuno potrà mai venire in mente di scinderlo. Non sarebbe né razionale, né umano. Tanto meno cristiano.
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