Prof. Corrado Manni
Emerito di Anestesiologia e Rianimazione
U.C.S.C.

“Se l’ atteggiamento del medico di fronte alla persona morente” è divenuto uno dei problemi emergenti della medicina moderna, ciò è dovuto al fatto che la medicina consente, oggi, di modificare profondamente la naturale evoluzione della fase terminale della vita. In particolare, la rianimazione ha conseguito risultati tali da indurre ad una ridefinizione dello stesso concetto di morte, aprendo nuove speranze per il recupero di molti pazienti in condizioni critiche ad una vita degna di essere vissuta. La ventilazione meccanica, la nutrizione parenterale totale, l’ emodialisi, l’ assistenza meccanica del circolo ed i trapianti d’ organo permettono di mantenere in vita, per mesi o anni, pazienti prima destinati a morte sicura. Questa possibilità di controllare il divenire della morte, di ritardarla o anticiparla, di decidere, di programmare il momento in cui termina la vita, propone interrogativi inediti che ancora attendono risposte esaurienti. L’ obbiettivo è quello di difendere la vita dell’ uomo rispettando la sua complessità psico – somatica e spirituale. Il rischio è quello di un tecnicismo che assoggetta l’ uomo e lo riduce a mera espressione del proprio potere.

Di fatto, la possibilità di ritardare con ogni mezzo e ad ogni costo il momento della morte può facilmente determinare un atteggiamento di accanimento terapeutico; così come il desiderio di interrompere le sofferenze, che inevitabilmente accompagnano le fasi terminali della vita, può indurre ad una richiesta di eutanasia.
Quanto detto ci lascia già intravedere l’ estrema complessità del problema e la difficoltà, anche per il medico più esperto, a fornire risposte esaurienti e, soprattutto, a proporre modelli operativi sufficienti per evitare, in ogni caso, scelte terapeutiche errate. Perché, è bene sottolinearlo subito, sia l’ accanimento terapeutico che l’ eutanasia contrastano con gli indirizzi del codice di deontologia medica e con i fondamentali valori etici. Comunque, se vogliamo almeno tentare di fornire risposte chiarificatrici, è necessario soffermarci ad analizzare alcune delle possibili cause di una scelta terapeutica errata, sia per eccesso che per difetto.
Al primo dei motivi ho già accennato: il tecnicismo. Il medico si avvale, oggi, di strumenti diagnostichi e terapeutici sempre più efficienti, sicuri, maneggevoli. Questa disponibilità di mezzi comporta il rischio di un abuso, soprattutto quando il medico rivolge eccessiva ed esclusiva attenzione alla valutazione degli effetti della tecnica adottata, interrompendo il delicato rapporto che lo lega al paziente. Mi piace ricordare che la tecnologia assume valore, infatti, finché rimane al servizio del paziente, diviene tecnicismo quando si limita a servire la scienza. L’accanimento terapeutico può essere, inoltre, favorito dall’attuale concezione organicista della Medicina. In questi ultimi anni, abbiamo assistito al proliferare di numerose discipline mediche specialistiche il cui interesse prevalente è rivolto allo studio di un singolo organo o apparato: nefrologia, pneumologia, gastroenterologia, cardiologia, epatologia e molte altre ancora. Di fatto, molti medici hanno profondamente modificato la propria cultura con il pericolo di divenire curatori di organi e non di organismi come dovrebbe essere. Proprio per questo motivo, dobbiamo sempre ricordare che il nostro dovere è quello di curare il malato e non la malattia. Il medico che riesce a mantenere un rapporto personale con il paziente difficilmente corre il rischio di prendere decisioni tali da configurare un atteggiamento di accanimento terapeutico: è proprio il rapporto personale, infatti, che consente di evitare il ricorso di terapie sproporzionate, inutili, addirittura dannose.

Un altro problema è quello del rifiuto della morte. Non è raro osservare medici che ritengono che la morte dei propri pazienti sia espressione di un insuccesso terapeutico. Questa convinzione determina più o meno coscientemente, un comportamento finalizzato a ritardare con tutti i mezzi possibili, il momento del decesso. Ciò si verifica quando la morte è ritenuta, a torto, la complicanza finale di una patologia e non il naturale termine della vita. Tutti noi, oggi, sentiamo il bisogno di recuperare il significato vero della morte; un significato nascosto da modelli di vita eccessivamente materialisti ed edonistici. Rifiuto della morte che, è bene precisarlo, non appartiene solo al medico ma anche, è sempre più spesso, a tutti i cittadini. Stiamo assistendo ad una eccessiva medicalizzazione delle fasi terminali della vita: il morente viene quasi sempre ospedalizzato, allontanato dal suo ambiente e dai suoi affetti familiari. Il motivo apparente è quello di favorire le cure atte a salvare la vita; il motivo reale è, in molti casi, quello di evitare di rimanere coinvolti in un momento così doloroso. E’ evidente che il “rifiuto della morte” può indurre all’accanimento terapeutico, così come il “rifiuto della sofferenza” può favorire una scelta di eutanasia. Fra le molteplici cause che possono alimentare l’accanimento terapeutico, vorrei anche ricordare la “non corretta informazione scientifica da parte dei mass media”. Titoli ad effetto e continue notizie sulla scoperta di nuovi miracolosi farmaci creano l’illusione che oggi sia possibile guarire qualsiasi male. Da qui la pressante richiesta di fare tutto il possibile o, meglio ancora, più del possibile. Da una lato il protagonismo di alcuni medici, dall’altro la ricerca dello scoop giornalistico rendono sempre più frequente una disinformazione scientifica causa di pericolosi malintesi. A volte sembra di assistere al trionfo della scienza; la realtà che le nuove tecnologie biomediche stanno ancora muovendo i primi passi e la strada da percorrere è ancora molta è piena di ostacoli da superare.
Accendere false speranze diviene quasi un invito all’accanimento terapeutico. Da qui il dovere di una maggiore prudenza nel diffondere notizie mediche, soprattutto quando riguardano malattie ancora inguaribili. Ritengo che questa breve analisi dei principali fattori che possono indurre all’accanimento terapeutico sia sufficiente a quantificare il problema che, certamente, non può essere sottovalutato. L’accanimento terapeutico, quale espressione di un errata prassi medica, deve essere sempre rifiutato. Ed anche noi siamo certamente contrari a quel processo di medicalizzazione delle fasi terminali della vita che sempre più caratterizza le prassi assistenziali dei paesi ad elevata tecnologia. Processo di medicalizzazione che inizia proprio con il ricovero in ospedale e l’allontanamento dalla famiglia verso un isolamento completo, alienante, privo di rapporti affettivi, totalmente spersonalizzante.

L’uomo-paziente perde progressivamente la sua identità, viene identificato e confuso con la sua malattia; a questo punto il momento della morte non è più accettato come naturale evoluzione del vivere, ma come complicanza di un evento patogeno e testimonianza di un insuccesso terapeutico. In pratica, possono manifestarsi tutti gli aspetti negativi di un rapporto che non è più medico-paziente ma medico-malattia. Questo rischio non possiamo certamente nasconderlo, e tanto più è elevato quanto maggiore è il ricorso a tecnologie biomediche avanzate. La terapia strumentale, finalizzata a sostenere o sostituire completamente la funzione di un organo, ha insito il pericolo di un’attenzione esclusivamente rivolta al particolare, nascondendo al medico l’oggetto vero delle sue cure che deve sempre rimanere l’uomo nella sua completezza psico-fisica e spirituale. Se oggi noi affermiamo che è sempre possibile curare anche il malato terminale inguaribile (detto anche oggi “malato in progressione di malattia”) è proprio perché sappiamo che è possibile avvalerci, pure in questi pazienti, delle più avanzate tecniche terapeutiche senza ledere ulteriormente la dignità ormai giunta alle sue fasi conclusive. Il problema è quello di individuare e sperimentare prassi assistenziali specifiche per questo tipo di pazienti, i quali indubbiamente necessitano di cure diverse, ma certamente non meno efficaci di quelle rivolte a patologie guaribili. Ed è in tal senso che i progressi delle tecnologie biomediche aprono prospettive nuove e interessanti. Anzitutto i progressi dell’elettronica e dell’informatica consentono, oggi, di utilizzare alcuni strumenti terapeutici anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero, aprendo nuovi confini alla cosiddetta “assistenza domiciliare” di cui tanto si parla per i supposti vantaggi, ma che rimane ancora un realtà circoscritta a poche occasionali esperienze. A tal proposito è bene precisare, al fine di evitare equivoci che “assistenza domiciliare” non vuol dire disimpegno dei servizi socio-sanitari e affidamento del malato terminale alle sole cure di familiari o di gruppi di volontariato. Al contrario, deve significare la possibilità di intervento medico qualificato, anche al di fuori dell’ospedale, con mezzi idonei e competenze specifiche. Per realizzare un programma di questo tipo i problemi da risolvere sono di due ordini.

Il primo, di tipo organizzativo, pretende un diverso rapporto tra le molteplici componenti del servizio sanitario (medico di famiglia, medico ospedaliero, personale infermieristico, assistente sociale) e la realizzazione di strutture intermedie (quali il day hospital) che avvicinano l’ospedale al territorio in cui esso opera.

Il secondo, di tipo tecnico, è relativo alla messa a punto di metodiche diagnostico-terapeutiche, realizzabili con pari efficacia e sicurezza anche al di fuori dell’ospedale. Possiamo affermare con certezza che questo secondo aspetto dei problemi relativi “all’assistenza domiciliare” può essere ampiamente risolto dal progredire delle tecnologie biomediche. Basti pensare alle possibilità offerte dalla Telemedicina che consente il trasferimento a distanza di informazioni relative all’elettrocardiogramma, all’elettroencefalogramma e a molte indagini di laboratorio. In pratica è possibile realizzare il monitoraggio delle principali funzioni biologiche senza, necessariamente, ospedalizzare il paziente ed il medico di famiglia potrebbe avvalersi di consulenze specifiche in tempi rapidi e senza sottoporre il paziente a gravosi ed inutili spostamenti.
Altro esempio è quello relativo all’automatizzazione dei sistemi di dialisi. Oggi l’elettronica ci offre la possibilità di programmare l’apparecchio della dialisi e di “informarlo”, all’inizio del trattamento, dei nostri obiettivi terapeutici: quant’acqua deve essere rimossa e in quanto tempo; quale deve essere la durata del trattamento dialitico e il flusso di sangue determinato dalle pompe peristaltiche. Numerosi allarmi impediscono il verificarsi di complicanze legate al mal funzionamento della macchina e ne rendono possibile e sicuro l’uso anche al di fuori dell’ospedale.

Un’assistenza domiciliare qualificata è pertanto certamente possibile e auspicabile. I vantaggi che ne deriverebbero, al paziente ed alla collettività, sono tali da giustificare l’inevitabile, iniziale impegno organizzativo. Il paziente potrà continuare le proprie abitudini, potrà vivere nel suo ambiente, potrà godere degli affetti familiari, in definitiva potrà conservare la propria identità. Il timore, come già detto, è che i progetti di assistenza domiciliare possano nascondere una volontà di disimpegno sociale da parte delle istituzioni. L’abbandono terapeutico può esprimersi in molti modi; sarà compito di tutti controllare che ciò non si verifichi.

Queste perplessità mi inducono a ribadire che il presupposto per la realizzazione di un valido programma di assistenza domiciliare è insito nel mantenimento di uno stretto legame tra l’ospedale, il paziente e la sua famiglia. Il malato non deve sentirsi dimesso; al contrario deve essere ben consapevole di andare a casa senza interrompere le cure, che verranno continuate a domicilio possibilmente dallo stesso gruppo di sanitari dell’ospedale, in collaborazione con il medico di famiglia. Ovviamente, quando la fase terminale di una malattia raggiunge il momento dell’agonia qualsiasi tentativo di terapia strumentale diviene ingiustificato e l’insistere configurerebbe un atteggiamento di accanimento terapeutico che non è tra i nostri obiettivi.

Proprio per questo motivo, è fondamentale comprendere chiaramente il significato del termine “accanimento terapeutico”, oggi definibile con criteri oggettivi.

Il primo è quello della documentata inefficacia, e quindi inutilità, della terapia. Pertanto, una terapia inutile, quale che sia la sua complessità, non potrà mai configurarsi in un atteggiamento di accanimento terapeutico.
Il secondo criterio è quello della gravosità del trattamento che rischia di determinare nuove ulteriori sofferenze, tale da configurare un atteggiamento di “violenza terapeutica”.
Il terzo criterio è quello dell’eccezionalità dei mezzi terapeutici che non debbono essere sproporzionati agli obiettivi che il medico si prefigge di raggiungere. E’ evidente che quest’ultimo criterio è soggetto alla continua evoluzione della scienza medica. Mezzi un tempo ritenuti sproporzionati oggi sono di quotidiana e routinaria applicazione. Basti pensare, come abbiamo già detto, alla ventilazione meccanica ed alla emodialisi, oggi attuate anche a domicilio.

Quanto detto ci induce ad essere contro “all’accanimento terapeutico”, ma anche contro “l’abbandono terapeutico” ed in particolare contro “l’eutanasia” sempre più spesso invocata per porre fine alle inevitabili sofferenze che accompagnano il morente.
Intorno al problema dell’ eutanasia esiste ancora molta confusione determinata da malintesi, a volte intenzionali, sul significato dei termini utilizzati; malintesi relativi alla stessa definizione del concetto di “eutanasia”, sul cui significato ritengo necessario soffermarci brevemente. La definizione di eutanasia ormai da tutti accettata è quella proposta il 5 Maggio 1980 dalla Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede:

“ per eutanasia s’ intende un’ azione o una omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore”.

In altre parole, si tratta di una morte inflitta o attraverso una aziona diretta o attraverso l’ omissione di un intervento dovuto e capace di sostenere la vita. Come si può notare si parla di azione od omissione e non già di eutanasia attiva o passiva. Quest’ultima distinzione, infatti, per quanto in uso, non è sufficientemente chiara in quanto non sempre sono nettamente definibili i confini tra ciò che è attivo o passivo. Per il medico una scelta, anche quella di sospendere una terapia, è in fondo una decisione in qualche modo attiva; ad esempio il sospendere la somministrazione di farmaci o lo staccare il respiratore non potrebbero essere definiti atti passivi. Così come attiva è la decisione di non iniziare una terapia che l’ esperienza ha dimostrato efficace nella maggior parte dei casi. Perciò, quando nelle proposte di legge si usa il termine eutanasia passiva andrebbe precisato se si tratta di astensione od omissione di una assistenza dovuta e valida, o di una pratica medica inutile e sproporzionata: come vedremo, è sulla validità e proporzionalità della terapia che si deve portare il giudizio etico per stabilire se si debba praticare o ci si possa astenere.
Diversi sono anche i possibili modi di applicazione dell’ eutanasia.

C’è, anzitutto, quella che potremo chiamare “eutanasia a richiesta”, quando cioè la legge riconosce valida la volontà espressa dal paziente affinché, in determinate condizioni di malattia, non si pratichino terapie per il prolungamento della vita. E’ questo, il modello di autanasia basato sul cosiddetto “living will” (espressione inglese), in vigore dal 1976 nello stato della California e in altri cinque stati dell’ Unione. Ed è su questa linea che si pone il “Voluntary Euthanasia Bill” proposto alla camera dei Lords in Inghilterra da Lord Raglan nel marzo 1969 (il C. N. B.: Direttive anticipate di trattamento – testamento biologico, testamento di vita, volontà previe di trattamento, ecc.).

Infine si prospetta, come in Italia, il modello della legislazione con la quale vengono enunciate le condizioni generali in cui il medico è dispensato dal praticare le terapie, a meno che non si avanzi una opposizione da parte del paziente o dei suoi famigliari. Si realizzerebbe, in pratica, un rovesciamento delle posizioni della legislazione vigente negli U.S.A., con grave invasione da parte dello stato in un momento che è il più personale, quello della morte; di fatto la legge si sostituirebbe alla valutazione deontologica del medico.

Altro aspetto controverso dell’ eutanasia è quello relativo al tipo di paziente al quale essa è teoricamente rivolta e suscettibile di essere applicata.
Come è noto nella maggior parte dei casi l’ eutanasia viene invocata per i cosiddetti “ammalati in condizioni terminali irreversibili”. Ed è proprio per questo motivo che ritengo doverosa una breve riflessione sul significato del termine “malato terminale”. Anche tra i medici esiste, a volte, confusione sulla definizione di “malato terminale”. Anzitutto, non è possibile definire “terminali” tutti i pazienti inguaribili per i quali non è più possibile attuare terapie eziologiche, ma solo trattamenti “sintomatici” o “palliativi”; questa definizione è troppo generica, perché non considera l’ evoluzione cronologica della malattia, né la capacità della terapia di influenzarne il decorso, elementi essenziali per precisare i confini tra una terapia proporzionata ed una terapia sproporzionata, e quindi inutile, che sconfini nell’ accanimento terapeutico. Tenendo conto, invece, di questi elementi possiamo distinguere tre categorie di pazienti:

1. Pazienti con patologie inguaribili nei quali non è ancora possibile prevedere il tempo residuo di vita, che può essere anche di molti anni; questi pazienti non impongono decisioni terapeutiche diverse da quelle che comunemente vengono adottate per qualsiasi altro malato: sono persone che vanno curate con tutti i mezzi di cui la scienza dispone;

2. pazienti che si trovano già nella fase agonica e per i quali possiamo attendere solo la cessazione definitiva della vita. E’ bene ricordare che, quando parliamo di fase agonica, intendiamo una condizione di grave, irreversibile e contemporanea insufficienza delle funzioni vitali (neurologica, cardiocircolatoria e respiratoria), tale da consentirci di prevedere che la morte si verificherà inevitabilmente entro poche ore, o al massimo, pochi giorni e per la quale non esistono più terapie idonee. In questi pazienti, è doveroso per i medici prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso degli ultimi istanti. E’ altrettanto doveroso, tuttavia, ricorrere ad altri interventi finalizzati all’ obiettivo di rendere dignitosa l’esperienza degli ultimi istanti, che è ancora esperienza di vita. Tra questi, ricordiamo: terapia del dolore, nutrizione e idratazione, cura delle ulcere da decupito, assistenza umana e religiosa. E’ bene ricordare l’articolo 23 del Nuovo Codice Italiano di Deontologia Medica che:

“il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenire la sofferenza fisica e psichica, di aiutarlo e di confortarlo”;

3. la terza categoria è rappresentata da pazienti inguaribili, con prognosi infausta a breve termine, bisognevoli di assistenza, per i quali non è possibile attuare terapie eziologiche, ma sono necessari trattamenti sintomatici o palliativi. Elementi caratterizzanti di questa definizione sono la ridotta aspettativa di vita (pochi mesi) e, soprattutto, il bisogno di assistenza: pazienti non più autonomi, spesso con elevato grado di invalidità, che necessitano dell’aiuto continuo degli altri e dai quali, pressoché completamente, dipendono. Sono proprio questi pazienti che maggiormente sono esposti al rischio di una condotta terapeutica errata, sia nel senso dell’ astensionismo che dell’ abbandono, indipendentemente dal fatto che per loro si voglia o meno accettare la definizione di malato terminale.
Il problema si pone in questi termini: di fronte ad un malato di cancro in fase terminale è opportuno praticare un trattamento eutanasico ed abbreviare, con la vita, anche le inevitabili sofferenze, oppure resistere a questa tentazione e lasciare che la malattia faccia il suo corso limitandosi a fornire all’ ammalato i sussidi palliativi e le terapie sintomatiche che le sue condizioni richiedono? Senza dubbio, chi deve affrontare responsabilmente tale quesito non può trincerarsi dietro l’ agnosticismo, né rinunciare a darsi un codice di comportamento ragionevole. Tuttavia, per rispondere all’ interrogativo in oggetto, bisogna tener conto del quadro clinico che si ha di fronte e delle situazioni obiettive da affrontare. Una considerazione obbligata è che l’ evoluzione della malattia, anche nelle sue fasi terminali, non è generalmente graduale, bensì contrassegnata da molteplici episodi acuti, uno dei quali diventa il fattore ultimo e decisivo della morte. L’ immagine dell’ ammalato di cancro tormentato da gravi sofferenze corrisponde al vero, ma queste sofferenze si spiegano con il fatto che sono causate da complicazioni che avvengono in successione. Talvolta sono provocate da compressione o irritazione di un nervo, più spesso da complicazioni intestinali, urinarie, epatiche, polmonari, ecc.
Di fronte ad un ammalato che ha dolore per una causa specifica, abbiamo l’ obbligo di rimuovere la causa, oppure lo dobbiamo lasciar soffrire? E ancora di fronte ad un ammalato colpito da occlusione intestinale, che vomita e che non può alimentarsi e ci chiede di sollevarlo dalle sue sofferenze, possiamo rifiutarci di prendere in considerazione un eventuale trattamento, anche se esso risulterà esclusivamente sintomatico? La problematica clinica – quella che offre l’ immagine dell’ ammalato terminale – è sintesi ed espressione di queste modificazioni non eludibili. Se l’ ammalato terminale è oggi destinato ad una morte che avviene in breve tempo ciò è dovuto al fatto che ancora oggi troppi aspetti della malattia sono e rimarranno sconosciuti fino a quando, attraverso incessanti tentativi, non sarà finalmente risolto questo capitolo della medicina. E non è affatto retorico ricordare che molte malattie hanno trovato la loro soluzione attraverso gli sforzi compiuti per dare soccorso agli ammalati terminali.
Altra popolazione di pazienti per i quali si cerca di giustificare l’ eventuale richiesta di eutanasia è quella geriatrica. L’anziano che, ancora lucido, assiste alla perdita delle varie funzioni organiche non preferisce ad una tale misera condizione una morte dignitosa? Nessuno, credo, se non l’ interessato, è in condizione di dare risposta veritiera, e può darsi che alcuni siano davvero propensi per questa soluzione. Il compito della società è, però, quello di guardare a fondo anche nella “senectute” e cercare in essa spiragli per una differente valutazione. Certo che la vecchiaia è una condizione di estrema gravità, perché ad essa non si sfugge e perché, dato i moderni mezzi di cura, sono sempre in maggior numero quelli che la raggiungono: ne deriva quindi un onere che la società ha sempre maggiori difficoltà ad assumersi. Di fronte al numero crescente di ammalati ed alle loro aumentate esigenze, la nostra civiltà si trova di fronte due strade opposte :

o privilegiare i forti assicurando loro maggiori benefici ed emarginando i deboli, riportando i termini dell’ esistenza verso forme di maggiore degradazione,

oppure accrescere gli sforzi per arrivare ad una diversa soluzione degli attuali problemi della salute.

L’ eutanasia, il controllo forzato delle nascite – ottenuto persino con l’ infanticidio – e tante altre manifestazioni che la vita moderna privilegia, dipendono dalla scelta di una di queste due strade. Vi è però l’ alternativa, e cioè la scelta della solidarietà con coloro che si trovano in maggiori difficoltà come gli ammalati, i deboli, gli emarginati. Questa solidarietà si accompagna all’impegno per un ulteriore progresso scientifico che consenta di trovare la vera soluzione di fronte alle malattie croniche che tuttora affliggono l’ umanità. Occorre una fede leale nella ricerca e impegnarsi per dare maggior sostegno a quella che già oggi appare preminente nella strategia biomedica. Essa ha come obiettivo non tanto quello di allungare la vita, quanto di prevenire l’ inizio di innumerevoli malattie debilitanti. L’ eutanasia non si colloca su questa linea, ma in quella di una resa. La vita – e questa è una considerazione che come medico riporto volentieri – nasce e si afferma in mezzo a sofferenze e rinunce, senza che per questo si possa giustificare l’ uccisione di un essere, il quale, anche se cosciente, non è in condizioni di decidere serenamente della propria persona. Il concetto di eutanasia non può rientrare nei compiti del medico, né, tantomeno, in quello del rianimatore che è impegnato sui molteplici fronti della morte. In questo, per il modo di essere e di pensare, per l’ esperienza e l’ educazione che ha ricevuto, non trova posto neppure un’attesa passiva della morte anche se, naturalmente, egli non può né deve imporre terapie che i pazienti non gradiscono o rifiutano. Quando il medico si accinge a praticare cure ad ammalati inguaribili od in fase terminale della vita, ha davanti a sé la visione che le grandi conquiste della medicina rappresentano, molto spesso, il risultato di tante piccole battaglie combattute, ma anche perdute. Queste battaglie, inoltre, non aumentano, come taluni affermano, la sofferenza dei pazienti terminali. Alla “aggressione terapeutica” del medico intensivista deve essere attribuito il giusto significato. Questa aggressione non è rivolta al malato, ma alla malattia; il suo obiettivo è quello di una pronta diagnosi per una terapia mirata ed efficace; non esclude, al contrario facilita, l’attuazione di quei provvedimenti rivolti ad alleviare le sofferenze. La ventilazione meccanica, ad esempio, correggendo l’ ipossia, elimina l’ angosciosa sensazione di morte imminente, sempre presente nei pazienti con insufficienza respiratoria scompensata. Il fastidio fisico determinato dalla protesi respiratoria è del tutto insignificante, se confrontato al beneficio conseguente alla abolizione della “fame d’ aria”. Pazienti che sono stati intensamente dispnoici ben volentieri accettano di essere sottoposti a respirazione artificiale, anche di lunga durata, e nessuno di loro ci ha mai chiesto di essere deconnesso dal ventilatore meccanico.

Altro esempio è quello dei pazienti con malattie neoplastiche inguaribili che manifestano, come complicanza acuta, una insufficienza renale. La sindrome uremica, che progressivamente si instaura, contribuisce ad aumentare ancor più le sofferenze di questi pazienti. Un trattamento dialitico adeguato consentirà di attenuare o eliminare i sintomi presenti e renderà sopportabili i restanti giorni di vita. E’ del tutto inammissibile ed ingiustificabile, pertanto, astenersi dalla suddetta terapia con l’ unico scopo di non prolungare una vita sofferente. Oggi la moderna tecnologia biomedica consente in molti casi di prolungare la vita del malato terminale, alleviando contemporaneamente le sue sofferenze. Non possiamo dimenticare, inoltre, che la medicina ha sufficienti mezzi per affrontare il dolore in tutte le sue forme.
La terapia antalgica ha fatto enormi progressi e non esiste dolore che non possa, sia pure parzialmente, giovarsi di farmaci analgesici e di eccezionale potenza e di tecniche chirurgiche altamente selettive che offrono buoni e talvolta ottimi risultati. Gli attuali protocolli di sedazione – analgesia consentono di far ben sopportare ai pazienti le tecniche terapeutiche invasive indispensabili al sostegno delle funzioni vitali. Il nostro impegno contro l’ eutanasia deve essere particolarmente forte proprio in questo momento, considerando che da più parti, anche a livello legislativo (Australia, Usa, Oregon, Olanda, Paesi scandinavi) sembrano emergere tendenze a favore dell’ eutanasia, che si concretizzano nelle proposte di depenalizzazione di un atto che, comunque, rimane riconosciuto quale reato. Questo atteggiamento permissivo non ci deve sorprendere, considerando che in tutto il mondo occidentale si è diffusa una “cultura della qualità della vita” che, troppo spesso, nei fatti, diviene cultura della morte. Se la qualità della vita diviene il valore primo di riferimento è evidente che la sua perdita per motivi economici, per malattia, per mutate condizioni sociali, rende insignificante e insopportabile la nostra esistenza. Al contrario, la vita umana è degna di essere vissuta per se stessa, indipendentemente dal suo grado di qualità. Non esistono vite che non siano degne di essere vissute: la sofferenza, la malattia, l’ invalidità sono componenti naturali e inevitabili della corporeità dell’ uomo. Noi abbiamo il dovere di prevenirle, di curarle, di combatterle, ma non abbiamo la libertà di rifiutarle a costo della vita. Certamente, non è facile dare senso alla sofferenza, così come non è facile sopportarla quando l’ unico scopo della nostra esistenza è la ricerca del benessere.

Solo una vera e propria rivoluzione culturale che ci conduca fuori dal materialismo per riscoprire i valori fondamentali della nostra esistenza sarà in grado di fermare una richiesta di eutanasia che diviene sempre più pressante. A tal proposito vorrei ricordare le parole del Santo Padre Giovanni Paolo II che nel 1995 ha dedicato un’intera enciclica “Evangelium Vitae”, alla difesa della vita. Nell’ enciclica si legge tra l’ altro che

“l’amore ispira la cultura della vita, mentre l’ egoismo ispira la cultura della morte”

, cultura che è all’ origine dell’ aborto, distruzione di embrioni e dell’ eutanasia “. Giovanni Paolo II ha sottolineato che una cultura autentica e rispettosa della persona e del suo vero bene non può prescindere dal difendere e promuovere la vita umana sempre, dal suo sbocciare dal grembo della madre al suo naturale tramonto.” Nell’ ambito dell’ attività medica non c’è posto per altre intese le quali, sotto l’ aspetto della pietà e di altre considerazioni umane, tentano di deviare l’arte medica dal suo naturale nobile compito. Naturalmente la nostra attività deve rispondere alle esigenze dei nostri ammalati. Le sofferenze, che frequentemente turbano molti di coloro che arrivano alle fasi terminali della loro malattia, vanno nettamente combattute, non per favorire una morte serena, ma per rendere l’ ammalato ancora partecipe alla vita. Noi respingiamo l’ “eutanasia negativa o passiva”, che rinuncia alla terapia; tanto più non possiamo accettare quella “positiva” o “attiva” per la quale il medico assume una posizione partecipe, diretta ad accelerare l’ evento mortale.

Ma questa opposizione deve essere costruttiva. Davanti ad un ammalato sofferente, colpito da una malattia inguaribile, non basta dire no alla richiesta di morte. E’ necessario dire si alle richieste di alleviare le sofferenze e ridare senso ad una vita che lentamente si sta spegnendo. Noi medici non possiamo rispondere alla richiesta di eutanasia semplicemente opponendosi ad essa; dobbiamo offrire risposte operative impegnandoci nella realizzazione di programmi assistenziali, oggi possibili, che si propongono di curare il dolore e migliorare la qualità della vita. Ed è in questo contesto che si inseriscono i programmi di cure palliative e di assistenza domiciliare. Le cure palliative hanno giustamente acquisito, in questi ultimi anni, un ruolo fondamentale nell’ ambito della assistenza socio sanitaria e sono divenute oggetto di numerosi dibattiti, non solo sul piano medico, ma anche su quello etico e sociale. Peraltro, solo di recente comincia ad essere adeguatamente riconosciuta alla Medicina palliativa la valenza di nuova disciplina medica, meritevole della massima attenzione e degna di programmi finalizzati per consentirne adeguato sviluppo e diffusione. A tal proposito, consentitemi di richiamare brevemente la definizione che, delle cure palliative è stata data dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità: “le cure palliative sono la cura totale prestata alla persona affetta da una malattia non più responsiva alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il loro scopo è quello di ottenere la massima qualità di vita possibile per il paziente e per i suoi familiari attraverso il controllo del dolore, degli altri sintomi e delle problematiche psicologiche, sociali e spirituali che insorgono all’interno del nucleo sofferente costituito dal paziente e dalla sua famiglia, che ne condivide le sofferenze”. Le caratteristiche peculiari delle cure palliative sono perciò le seguenti:

1. si rivolgono ai malati inguaribili;

2. come tali, non hanno come scopo primario la guarigione, ma il miglioramento della qualità della vita;

3. non sono rivolte al semplice aspetto biofisico e farmacologico della malattia, ma all’ uomo sofferente, nella sua totalità di aspetti fisico, morale e spirituale;

4. non sono rivolte solo al singolo paziente, ma coinvolgono la sua famiglia, sia come oggetto di cure, sia come soggetto attivo che partecipa alla cura del congiunto.

Il numero di pazienti bisognosi di cure palliative è in costante aumento, specialmente nel mondo occidentale. Ciò riconosce due cause fondamentali:

la prima è l’aumento dell’ incidenza di patologia ad evoluzione progressiva ed infausta, tra le quali ricordiamo il cancro, l’ AIDS, il morbo di Alzheimer, la malattia di Kreuzfeld – Jacob e le varie forme di sclerosi multipla. Tale fenomeno è in parte legato all’ aumento della vita media della popolazione, conseguenza del miglioramento delle condizioni sanitarie e sociali e della riduzione della mortalità infantile e giovanile.

La seconda causa è rappresentata dal prolungamento del tempo medio di sopravvivenza di questi pazienti, conseguente alla maggiore efficacia delle terapie sintomatiche medico – chirurgiche ed alla maggiore precocità delle diagnosi.

Non c’è dubbio, quindi, che i progressi della medicina, se da un lato hanno consentito la drastica riduzione della mortalità, dall’ altro hanno contribuito ad incrementare il numero e la durata di sopravvivenza dei pazienti affetti da patologie ancora inguaribili. Ci troviamo di fronte, pertanto, ad un nuovo tipo di malati bisognosi di cure intese nel senso più vasto del termine, ossia come attenzione diretta a tutta la complessa realtà spirituale e psicosomatica del paziente inguaribile. Non c’è dubbio, infatti, che il paziente affetto da una malattia ad esito infausto presenti delle problematiche peculiari, che un freddo approccio tecnico, rivolto ai soli aspetti clinici della malattia, non può risolvere. Anzitutto, il dolore fisico e gli altri disturbi legati alla patologia di cui è portatore, assumono un carattere particolarmente gravoso, per la loro continuità e intensità crescente.

In secondo luogo, gli effetti diretti della malattia, le mutilazioni dovute ad eventuali interventi chirurgici e le scadute condizioni generali del paziente riducono molto la sua autosufficienza, rendendolo dipendente dagli altri.

In terzo luogo, la consapevolezza, che presto o tardi si fa strada nella mente del paziente, la gravità delle sue condizioni e della sua prognosi infausta, e ciò lo pone dinanzi all’ angoscia dell’ ormai prossimo distacco dalla vita terrena.

L’ accavallarsi di queste problematiche causa un profondo turbamento spirituale e psicologico che si manifesta con le reazioni più disparate: incredulità, ribellione, disorientamento, ansia, depressione. Ciò accentua ulteriormente le sofferenze fisiche del paziente e aggrava il decorso della malattia. Purtroppo, il rapporto medico – paziente in queste condizioni spesso non è dei più idonei per gestire tale complessa realtà. Anzi, possiamo dire che in questi ultimi anni la cultura medica è andata progressivamente impoverendosi della sua componente “umanistica”, per avvicinarsi sempre più al carattere di una “scienza esatta”, efficiente, ma impersonale e sempre più lontana dalla natura trascendente del grande mistero della vita, la quale costituisce pur sempre l’ oggetto del suo sapere. La medicalizzazione dell’ approccio al malato costituisce un notevole ostacolo alla comprensione della sua difficile esperienza umana e spirituale, del doloroso riflesso della sofferenza fisica e morale sulla sua esistenza. Ma nel paziente inguaribile altri fattori, questa volta di natura morale e sociale, concorrono a frapporre ulteriori ostacoli lungo questo cammino. Infatti in una società opulenta e produttivistica come quella occidentale, dove il benessere materiale è troppo spesso esaltato ad unico bene possibile, e dove i mezzi di comunicazione di massa tendono a costruire un’ immagine dell’ esistenza fatta solo di bellezza, ricchezza e successo, i lati oscuri della vita, la sofferenza, la vecchiaia e la morte, vengono sempre più emarginati, quasi li si volesse rimuovere dalla coscienza comune. In una prospettiva fatta solo di beni terreni, la dimensione dolorosa dell’ esistenza non può che apparire come un vuoto inconcepibile ed inspiegabile, da esorcizzare.

E’ inevitabile che la perdita del significato trascendente della vita privi di significato anche la sua naturale conclusione, la morte. Dietro la tendenza di ospedalizzare la malattia si nasconde spesso anche il tentativo di nascondere questa dimensione dolorosa agli occhi della società. Ma la mancata accettazione di una simile realtà, la sua emarginazione o il suo mascheramento dietro il tecnicismo esasperato, dietro la medicalizzazione, mentre da un lato non impediscono a questa realtà di verificarsi, dall’ altro hanno reso l’ uomo odierno sempre più impreparato ad affrontarla, ed hanno accentuato le sofferenze del morente, che deve sopportare le conseguenze morali e materiali dell’ isolamento di cui troppo spesso è fatto oggetto. In ognuno di noi lo spettacolo della morte altrui suscita disagio perché ci ricorda, a sua volta, il nostro destino. Nel medico, a tutto ciò si aggiunge un senso personale di sconfitta nei confronti delle proprie capacità. Anche il già citato riduzionismo alimenta questa concezione distorta, in quanto comporta la perdita di identità del paziente, che viene identificato e confuso con la sua malattia; in questa prospettiva la morte è ritenuta, a torto, la complicanza finale di una patologia e non il naturale termine della vita. In questa ottica, il malato per il quale non esiste possibilità di guarigione, viene considerato un malato “perso”, non più meritevole di vera e propria assistenza, non solo sanitaria in senso stretto, ma anche morale; nel curante, persa ogni speranza di guarire il paziente, all’attenzione scientifica e professionale subentra il distacco, negando al paziente la fiducia ed il sostegno spirituale proprio quando egli più che mai ne avrebbe bisogno; le informazioni sulle sue condizioni di salute divengono vaghe ed evasive, lo si evita in fin dei conti, perché risveglia nel medico l’ imbarazzo della propria impotenza e amarezza della propria sconfitta professionale; al più la pietà si accontenta di illuderlo.

Recentemente, anche il Comitato Nazionale per la Bioetica ha sottolineato l’alto valore bioetico delle cure palliative. Queste infatti trovano la loro sostanza non nella pretesa illusoria di poter strappare un paziente alla morte, ma nella ferma intenzione di non lasciarlo solo, di aiutarlo quindi a vivere questa sua ultima radicale esperienza nel modo più umano possibile, sia dal punto di vista fisico, che da un punto di vista spirituale. Volte primariamente ad alleviare il dolore in generale e in particolare quello dei malati terminali, le cure palliative hanno allargato e continuano ad allargare il loro orizzonte e il loro ambito di azione e si presentano nel nostro tempo come uno dei campi in cui la moderna medicina manifesta la sua vocazione profonda di cura in senso globale, quindi non solo fisico, ma anche psicologico ed esistenziale dei sofferenti. Peraltro, l’assistenza al paziente inguaribile acquista un significato spirituale più alto nell’etica cristiana. Per il medico cristiano, il primo imperativo morale è quello di servire la vita, il che vuol dire assisterla fino al suo compimento naturale. L’ assistenza sanitaria al morente è un compito particolarmente importante e delicato, perché si tratta di far si che anche nel morire l’ uomo abbia a riconoscersi e volersi come vivente. Per citare le parole di Giovanni Paolo II,

“mai come in prossimità della morte, e nella morte stessa, occorre celebrare ed esaltare la vita…….l’ atteggiamento di fronte al malato terminale è spesso il banco di prova del senso di giustizia e di carità, della nobiltà d’ animo, della responsabilità e della capacità professionale degli operatori sanitari, a cominciare dai medici”

(cit. in carta degli Operatori sanitari, 115). Aiutare una persona a morire significa aiutarla a vivere intensamente l’esperienza ultima della sua vita. E ciò si realizza attraverso una presenza amorevole da realizzare accanto al morente; una presenza che, senza illuderlo, lo faccia sentire vivo, persona tra le persone, perché destinatario come qualsiasi uomo, ma più di ogni altro, in tale circostanza, di attenzioni e premure. Questa presenza, attenta e premurosa, deve infondere fiducia e speranza all’ammalato e riconciliarlo con la morte. E’ evidente che per essere realmente in grado di infondere fiducia e speranza, l’operatore sanitario debba essere il primo a fare suoi questi valori, a non soccombere allo scoraggiamento e all’ egoismo, a saper cogliere la dimensione umana e trascendente delle sofferenze fisiche del malato e del dramma psicologico e spirituale del distacco che il morire significa e comporta; compiti, questi, non facili. Non possiamo negare che:

“davanti al mistero della morte si rimane impotenti; vacillano le umane certezze. Ma è proprio di fronte a tale scacco che la fede cristiana…….si propone come sorgente di serenità e di pace…… ciò che sembrava senza significato acquista senso e valore… Nell’ adempimento di questo compito, la testimonianza di fede e di speranza in Cristo dell’ operatore sanitario acquista un ruolo determinante. Realizzare una presenza di fede e di speranza è per l’ operatore sanitario la più alta forma di umanizzazione del morire”

(cfr. Carta degli operatori sanitari, 115.118).