Questa relazione tenterà di mettere in luce, senza la pretesa di una completezza assoluta vista la vastità dell’argomento, due aspetti che riguardano il tema dell’eutanasia: alcune considerazioni di carattere storico, da un lato; nella seconda parte dell’intervento, alcune valutazioni di carattere filosofico e giuridico.
Credo che si tratti di due aspetti del problema fondamentali. Noi siamo oggi un po’ tutti vittime di una certa cronolatria: abbiamo cioè tagliato o tendiamo a tagliare le radici del nostro passato e a collocare le cose importanti soltanto nella prospettiva del presente. Ed anche in bioetica questo costituisce un limite del quale coloro che promuovono una cultura della morte possono sempre approfittare. Questa società dei consumi distrugge non soltanto le cose che si producono, ma anche i fatti che accadono. Tutto quello che è avvenuto ieri, non esiste più. Ed in questo modo, come qualcuno diceva, il nostro passato è sempre incerto. Non è il futuro ad essere incerto, ma è il passato che cambia sempre, è riscritto ad uso e consumo di chi lo riscrive. E quindi, nell’ambito del dibattito bioetico, il passato che riguardava la prassi in materia di aborto è stato riscritto e viene riscritto in senso anti-vita; ed anche rispetto al tema dell’eutanasia c’è il rischio di essere messi fuori gioco da false affermazioni che riguardano il passato, e che non corrispondono assolutamente alla verità delle cose.
Ora, possiamo iniziare la nostra breve “incursione” nel passato, per ciò che riguarda l’eutanasia, a partire da un fenomeno che mi sembra importante conoscere e ricordare, cioè la pratica eutanasica nell’ambito del regime nazista.
Qui bisogna fare una premessa, che tra l’altro è già stata in parte sviluppata dal professor Lenoci nella sua ottima relazione, tenendo conto che non è considerato molto educato il parlare del piano eutanasico nazista nel contesto di una riflessione sull’eutanasia contemporanea. E’ considerato un atto scorretto perché si sostiene che quell’eutanasia non abbia nulla a che vedere con quella che si propone oggi; anzi alcuni propongono di non chiamarla eutanasia, ma di definirla con un altro vocabolo. In realtà vedremo successivamente, nella riflessione di carattere filosofico-giuridico, come i legami tra la matrice culturale di quel piano eutanasico e la matrice culturale delle proposte di legalizzazione dell’eutanasia contemporanea, siano molto più forti di quanto si potrebbe immaginare a prima vista.

Intanto, cominciamo con il ricordare che il programma eutanasico nazista non nasce col nazismo. Questo è un aspetto tanto importante quanto rimosso dalla storiografia ufficiale, che riguarda la dimensione eugenetica del nazismo E’ tristemente noto l’uso dei prigionieri nei campi di concentramento per eseguire esperimenti che provocavano gravi danni e perfino la morte di uomini e donne ridotti a cavie di laboratorio; oppure l’eliminazione dei difettosi e degli handicappati; in genere, però, si riconducono questi orrori al fenomeno nazional-socialista in quanto fenomeno ideologico e politico. In realtà il nazismo attinge queste cattive idee da una serie di elaborazioni culturali di filosofi e pensatori che non erano in se stessi nazisti, anche perché da un punto di vista cronologico si tratta di autori venuti parecchio tempo prima che il nazismo facesse la sua comparsa sulla scena politica internazionale.
Pensiamo, tanto ad esempio, ad Adolf Jost, che sul finire dell’800 pubblica un testo intitolato significativamente

“Il diritto alla propria morte. Uno studio sociale”.

In questo lavoro – che è del 1895, quando ancora il fenomeno nazional-socialista è del tutto sconosciuto – troviamo alcune affermazioni che costituiscono un punto di riferimento ancora perfettamente valido per i fautori dell’eutanasia di oggi:

“E’ lecito uccidere su richiesta, nei seguenti casi: malattia inguaribile e gravi turbe psichiche”.

E sempre questo stesso autore, Adolf Jost, scrive:

“Il valore della vita di un uomo potrebbe divenire non solo pari a zero, bensì anche negativo. In tal caso il valore zero di una morte sarebbe da preferire al valore negativo di quella vita”.

Ripeto, siamo nel 1895.
E’ da notare che il titolo del libro evoca uno studio sociale, alludendo all’idea di fondo in base alla quale lo Stato ha non solo il diritto, ma perfino il dovere di eliminare una vita malata dall’organismo sano del popolo.
Qui si notano alcuni presupposti della logica eutanasica che, diciamo così, attingono a due forni: da un lato all’idea della dignità della vita meritevole o meno di essere vissuta; dall’altro lato, al peso negativo che una vita, cosi detta inutile, assume dal punto di vista della comunità. Quindi notiamo due dimensioni che sembrerebbero fra loro percorrere strade diverse: una prima, potremmo dire oggi, di carattere libertario – la vita va buttata via quando non è più dignitosa – quindi aiutando qualcuno che soffre in una dimensione privata. L’altra dimensione – più sociale – per la quale l’eutanasia è vissuta come scelta che purifica la società dai pesi inutili.
Come vedete, queste due dimensioni non sono poste in conflitto fra loro, ma si alimentano a vicenda. Ma, con una certa sorpresa scopriamo che la logica dell’introduzione dell’eutanasia nell’ordinamento giuridico e non è soltanto patrimonio di quell’area culturale che possiamo collocare nel cuore dell’Europa e in particolare in Germania. Nel 1903, negli Stati Uniti, circa un migliaio di medici dell’Associazione Medica Americana propongono l’eutanasia per alcuni casi particolari: ad esempio per alcuni malati di cancro.
Assistiamo così ai segnali di un cambiamento di scenario, ancora una volta del tutto estraneo al nazional-socialismo: siamo negli Stati Uniti, nel 1903, e c’è un movimento tutt’altro che marginale, comunque costituito da un numero significativo di medici che propongono di utilizzare questo strumento per “aiutare” alcuni pazienti. Nel 1935, in Gran Bretagna, viene costituita una vera e propria società per l’eutanasia. Nel 1938, negli Stati Uniti, accade sostanzialmente la stessa cosa e viene poi anche costituita una vera e propria federazione mondiale di associazioni per il diritto a morire che al 1992 contava trenta società distribuite in diciannove stati del mondo.
Queste iniziative di carattere culturale hanno poi determinato delle conseguenze di carattere politico-giuridico. Ad esempio nel 1969, alla Camera dei Lords, viene messo in votazione un testo di legge che non passa alla fine, ma che propone appunto l’introduzione dell’eutanasia. Nello stato di Washington, nel 1991, si svolge un referendum con il quale viene bocciata la legge per l’eutanasia, ma con un margine percentuale molto risicato. E poi citiamo un testo che ovviamente non può essere ignorato nell’ambito di una ricostruzione storica su questo tema: si tratta del documento di Leon Schwarzemberg del 1991 – approvato dalla Commissione Ambiente e Sanità Pubblica del Parlamento Europeo – in cui si pongono indubbiamente le premesse per una qualche forma di riconoscimento dell’eutanasia.
Ovviamente abbiamo messo insieme epoche diverse, contesti culturali diversi e anche concezioni dell’eutanasia differenti tra loro, ma per evidenziare che esiste un filone, un filo rosso non sempre riconoscibile, che lega tra loro gli esponenti di questo movimento che prima ancora di essere un movimento politico o un movimento culturale, è un’idea antropologica dell’uomo e della vita favorevole alla normalizzazione dell’eutanasia.
Per quanto riguarda però il programma eutanasico nazista in se stesso non si può non rievocare il contributo determinante che a questo tipo di programma è stato dato da Karl Biding e Alfred Hoche. Questi due studiosi scrivono un libro che rimane un testo fondamentale in una sorta di ricostruzione dell’eutanasia, e lo scrivono prima dell’avvento al potere del nazional-socialismo. Ma chi sono questi due autori? Binding è professore di diritto penale; certamente è uno studioso di idee stataliste e nazionaliste e quindi si colloca all’interno di quella concezione per cui il diritto dello Stato soppianta i diritti dell’individuo. Quindi è certamente un pensatore che può, a buon titolo, essere considerato in linea con quello che sarà poi il modello di stato fondato dal nazional-socialismo. Tanto per citare un esempio, nel 1915 fornisce una serie di giustificazioni teoriche all’affondamento della nave passeggeri Lusitania, basate proprio su quest’idea, per così dire utilitaristica circa il potere dello stato che può calpestare, se occorre, anche i diritti delle persone e nella fattispecie di cittadini inermi. Sempre in quest’ottica, Binding è contrario al principio di certezza del diritto e al divieto di applicazione dell’analogia nel diritto penale.
L’altro autore, Alfred Hoche, non è un giurista ma un medico, uno psichiatra. Durante la prima guerra mondiale è un convinto interventista, ma poi subisce un cambiamento di posizione psicologica assai radicale: aderisce alla social-democrazia e si oppone strenuamente a Hitler e alla sua ascesa al potere. Anche perché sua moglie è di origini ebraiche e questo costituisce un motivo ulteriore per cui questo intellettuale osteggi le politiche discriminatorie messe in atto da Hitler. Hoche morirà nel 1943, suicida.
I due personaggi che abbiamo visto sono intellettuali che oggi chiameremmo “opinion leader”, pensando a quello che per noi contemporanei può rappresentare da un punto di vista mediatico un personaggio come il filosofo e uomo politico Massimo Cacciari. Dunque, li paragoniamo non a due gerarchi con gli stivaloni neri, non a due “Kapò”, ma a due intellettuali rispettabili, colti, intelligenti, credibili che scrivono un testo dalle valenze innanzi tutto dottrinali e culturali.
A questo punto gioverà ricordare qual è stata la dinamica attraverso cui il regime nazista arriva ad introdurre la pratica eutanasica. Mi riferisco al cosiddetto “Piano T 4”.
Hitler era intenzionato a promuovere l’eutanasia di alcuni soggetti, ma era contrario ad una legalizzazione formale perché temeva che di fronte ad una iniziativa ufficiale l’opinione pubblica reagisse negativamente a questo progetto. Per questa ragione, nel 1935 il Furher scrive al dottor Gerhard Wagner e lo consiglia di aspettare qualche tempo prima di far partire il piano per l’eliminazione delle vite inutili. Bisognava infatti attendere che nell’opinione pubblica il senso della vita umana fosse affievolito, come avviene per esempio nel passaggio da una situazione di pace ad una situazione di guerra, condizione per la quale – anche secondo gli studiosi di psicologìa sociale – la sensibilità dell’opinione pubblica per il valore delle singole vite umane subisce una sorta di rimozione.
Infatti nel 1939, anno di avvio del secondo conflitto mondiale, Hitler crea un’apposita commissione e dà incarico verbale al medico personale Karl Brandt di contattare medici di provata fede nazista disposti ad “aiutarlo”. Questa lettera, che viene appunto scritta da Hitler al suo medico, pone il via all’inizio del “Piano T 4”. I medici premono per ottenere almeno una autorizzazione scritta che li sollevi da qualsiasi responsabilità penale, ed ottengono questo tipo di documento segreto nell’ottobre del 1939.
Riportiamo qui un passaggio della lettera che Hitler scrive a Brandt: “Si garantisca una morte pietosa ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano”. Si tratta di una citazione estremamente interessante. Ricordo che questo brano é stato utilizzato una volta da monsignor Elio Sgreccia durante un dibattito televisivo dedicato all’eutanasia. Sgreccia ha letto questo testo senza denunciare la paternità, ottenendo consensi da parte dei suoi interlocutori – fautori dell’eutanasia – che sono rimasti un però piuttosto spiazzati quando hanno saputo di pensarla come Adolf Hitler. Ma ciò che colpisce in questa frase, anche in relazione all’idea che giustamente abbiamo di Hitler e del nazional-socialismo, è l’attenzione – diciamo così – alla dimensione della dignità umana con cui Hitler tenta di giustificare l’eutanasia.
Per essere più chiari: è pur vero – e questo lo dobbiamo dire – che il “Piano T 4” elimina soltanto soggetti che non hanno richiesto l’eutanasia; ma è anche vero che questo avviene all’interno non di un’affermazione brutale della necessità per lo Stato di risparmiare sui costi sociali determinati dalle vite senza valore o dalle vite inabili, ma attingendo invece ad una argomentazione di principio; cioè al fatto che questa morte è data per pietà, data quindi – oserei dire – nelle intenzioni almeno apparenti dello scrivente, nell’interesse stesso di colui che verrà privato della vita. Si uccide per fare del bene, non per vendicarsi o per punire.
Ed è curioso che un sistema certamente totalitario senta il bisogno di giustificare quella sua condotta con una motivazione che, anche se può apparire paradossale, vorrebbe essere quindi morale, vorrebbe avere una sorta di benedizione etica e non soltanto basarsi sulla mera forza del diritto positivo. “Il Furher ha sempre ragione”, recita una regola non scritta usata con larghezza dai giudici tedeschi dell’epoca. Ma in questo caso egli attinge a motivazioni degne di certe liberal democrazie contemporanee.
I numeri di questo piano eutanasico sono ancor oggi ampiamente sconosciuti alle nuove generazioni. Per le quali la cosiddetta “Giornata della Memoria” significa conoscere ciò che è accaduto al popolo ebreo per causa di quest’ideologia feroce. Ma spesso (forse sempre) significa anche continuare ad ignorare che i forni crematori sono stati collaudati e pensati non per il popolo ebreo ma per l’attuazione di questo piano eutanasico. Perché le prime vittime dei forni crematori di Hitler non sono stati gli zingari, non sono stati gli ebrei, ma sono stati dei cittadini tedeschi “di pura razza ariana” che avevano però la colpa di essere ammalati, di essere reduci mutilati della Grande guerra 1914-18, di essere insomma dei soggetti per i quali la morte indotta era una soluzione pietosa, secondo Hitler e secondo i medici che avevano accettato questa proposta. Era dunque meglio morire ed essere soppressi, che vivere in quelle condizioni. Le stesse parole che i fautori moderni dell’eutanasia esibiscono ogni volta che si riaccende il dibattito pubblico sull’argomento.
Ecco dunque qualche numero: 70.000 le vittime, di cui 5.000 bambini. I medici tedeschi aderirono al piano – o almeno una buona parte di loro – tenendo conto che il progetto non coinvolgeva tutta la classe medica ma veniva attuato in alcuni istituti che avevano delle denominazioni particolarmente fantasiose, ma che ben si accompagnano con la denominazione di alcune leggi che pure il nostro parlamento democratico ha votato: penso ad esempio alla legge con cui si uccidono i bambini prima della nascita, la famigerata 194 del 1978, intitolata alla tutela della maternità. Allo stesso modo, gli istituti nazisti in cui si eliminavano le vite senza valore avevano delle denominazioni particolarmente caritatevoli.

Spesso, i bambini venivano eliminati all’insaputa stessa dei genitori. Venivano avviati in questi istituti con la promessa di una guarigione o di una cura particolarmente efficace e poi successivamente i genitori si vedevano riconsegnare qualche effetto personale del proprio bambino o le ceneri del proprio figlio ed una lettera che affermava essere avvenuto improvvisamente il decesso per qualche particolare causa naturale.
Fu proprio una di queste procedure che permise, in una circostanza particolare, ad un genitore di accorgersi che gli effetti personali non erano quelli del proprio figlio e in qualche modo iniziare a scoperchiare questo vaso di Pandora ed evidenziare così che qualche cosa di orribile stava accadendo. Per cui nel 1941, Hitler, di fronte alle proteste che cominciavano a serpeggiare nell’opinione pubblica, fu costretto a bloccare il “Piano T 4”.
Ora proviamo a svolgere qualche considerazione sui fatti che abbiamo testé illustrato, perché certamente ci sono delle obiezioni apparentemente molto serie all’introduzione del “Piano T 4” in un contesto di discussione sull’eutanasia al giorno d’oggi.

Per esempio: si obbietta che non c’è alcun nesso tra eutanasia e “Piano T 4” – la tesi, ad esempio è sostenuta da Demetrio Neri e così pure da Spinsanti – perché il “Piano T 4” è figlio del fenomeno nazista e quindi sarebbe come un prodotto di un fenomeno che oggi non può più tornare perché oggi tutto il consesso umano ha orrore di tutto ciò che è stato il nazismo. Quindi, è sufficiente che non torni il nazismo per evitare che possa accadere qualche cosa di analogo ai malati, agli handicappati, agli anziani, ai pazienti terminali.
E ancora: il “Piano T 4” sarebbe figlio delle idee razziste esposte da Hitler nel suo noto libro; e ancora qualcuno propone (sempre Spinsanti) che a causa dell’episodio nazista sarebbe meglio non usare più la parola eutanasia quando si parla della questione della morte per motivi pietosi. Inventiamo un altro termine perché è ideologicamente scorretto usare una parola che per colpa del nazismo ha assunto questi connotati negativi.
Ora, a queste obiezioni, che pure vanno conosciute, abbiamo obbiettato strada facendo (a nostra volta) in maniera rigorosa, dimostrando che il “Piano T 4” non è tanto figlio del nazismo quanto di un movimento culturale dalle radici profonde non soltanto radicate in Germania ma anche in altri Paesi. Inoltre, abbiamo dato prova di come il movimento eugenetico non nasca nella Germania nazista, ma prenda le mosse – ad esempio – in ambienti anglosassoni.
Nello stesso tempo abbiamo anche visto come Hitler adotti per giustificare il piano eutanasico, non le motivazioni che ci aspetteremmo, cioè quelle legate ad un’impronta totalitaria che decide per il bene della collettività anche contro l’interesse del singolo, ma fondando invece il piano eutanasico proprio su una sorta di rispetto degli interessi del singolo. Quindi con una logica che definiremmo oggi di tipo liberale o libertario. E quindi mi pare anche che la proposta di non usare più la parola eutanasia sia quanto meno curiosa. E’ invece necessario utilizzare questo termine nella sua connotazione, nel suo significato che poi cercheremo di chiarire, visto che uno dei problemi del dibattito sull’eutanasia è proprio di tipo terminologico, perché oggi non è sempre chiaro che cosa si debba intendere per eutanasia.
A maggior riprova di quanto abbiamo sostenuto, ricordiamo qui brevemente il manifesto sull’eutanasia che è stato redatto nel 1973, pubblicato da “Le Monde” e firmato da alcuni premi Nobel come Monod, Pauling, Thomson. Nel testo si legge fra l’altro “Affermiamo che è immorale accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nei valori morali di ogni individuo; ciò implica che lo si lasci libero di decidere della propria sorte.” Qui farei soltanto due annotazioni. La prima: è impressionante notare questa apoditticità per cui non soltanto la sofferenza non può essere imposta, ma è immorale perfino l’accettazione stessa della sofferenza. Dove si vede come spesso gli epigoni di una prospettiva libertaria, poi, non pratichino i principi a cui si appellano. Dall’altro lato, non si può non notare, a costo di essere sgradevoli, una certa assonanza tra questo manifesto e quella lettera che Hitler aveva scritto al suo medico curante. E ancora, leggiamo sempre in questo manifesto del 1973 :

“E’ crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo valore e che le si rifiuti l’auspicata liberazione quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire”.

Qui rinvio alle considerazioni che con molta chiarezza il professor Lenoci ha già fatto, con una sottolineatura soltanto su quel concetto di liberazione che oggi torna sempre più spesso nella presentazione da parte dei mass-media dei casi pietosi: la morte come liberazione dal corpo, che rinvia a un certo platonismo deteriore che contrappone lo spirito alla fisicità corporea. E sempre nel manifesto sull’eutanasìa leggiamo: “Deploriamo la morale insensibile, le restrizioni legali che ostacolano l’esame di quel caso etico che è l’eutanasia.”
E qui mi pare utile ricordare l’opportuna riflessione del professor Lorenzo Cantoni, quando dice che uno dei meriti – meglio, delle colpe – dell’eutanasia è d’introdurre l’inversione dell’onere della prova, per cui sono coloro che sostengono che non si debba dare la morte a dover fornire delle motivazioni per cui non si deve uccidere. E l’inversione dell’onere della prova, di cui l’opinione pubblica non ha in genere consapevolezza, è l’elemento fondamentale su cui in genere si costruisce un viraggio di tipo permissivo. Perché una volta che ci si trova – per così dire – dalla parte del torto e con i mass-media che remano nella direzione opposta, è quasi impossibile ricollocarsi sulle posizioni originali.

Per concludere questa parte del discorso con un pochino di ottimismo, citiamo una sentenza poco nota della Corte Suprema degli Stati Uniti (1997) che ha sancito che non esiste un diritto costituzionale a scegliere il momento della propria morte. Questa è una sentenza molto importate, storica nel contesto di quel Paese, perché pur affidando ai singoli stati la possibilità di legiferare a favore dell’eutanasia, quanto meno non ha ricondotto – come invece, purtroppo accadde nel 1973 con il celeberrimo caso Roe vs Wade – il diritto a morire a rango di diritto costituzionale del cittadino.
Abbiamo poi avuto un caso più recente, quello di Diane Pretty, una donna che aveva presentato istanza alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere l’eutanasia. Illustriamo brevemente il caso che forse molti di voi conoscono: questa donna era affetta da un male incurabile ed aveva chiesto il suicidio assistito alla Corte Suprema britannica, che aveva respinto la domanda. A questo punto, era stata presentata un’istanza alla Corte Europea, sostenendo che il rifiuto della Corte Britannica aveva violato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Cioè: rifiutare la morte ad un paziente che la richiede sulla base di un esplicito consenso, mediante il c.d. “suicidio assistito” – cioè una morte non naturale, ma ottenuta ad esempio attraverso farmaci forniti dal medico e somministrati dal paziente stesso –avrebbe costituito la violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata con una sentenza che ha stabilito che quell’istanza andasse rigettata, perché quando la Convenzione Europea, all’articolo 2, stabilisce il “Diritto alla Vita”, questa affermazione non può essere interpretata nel senso che una persona abbia il diritto a morire. Quindi è stato circoscritto o meglio precisato il significato del “Diritto alla Vita” escludendo che esso contenga anche il diritto ad ottenere anche la propria morte quando la si chiede.
Così pure sono state respinte le ipotesi di violazione dell’articolo 3, che si occupa del divieto dei trattamenti disumani e degradanti e dell’articolo 8 che era inteso dalla signora Diane Pretty nel senso di un diritto a scegliere come e quando morire. La Corte ha respinto il ricorso ed ha confermato il divieto di suicidio assistito punito dalla legge britannica con la reclusione fino a quattordici anni.
Ora, passerei ad una analisi di carattere giuridico che si pone in relazione all’eutanasia in senso più generale, tenendo conto di una cosa importante: un approccio corretto al tema dell’eutanasia, come sempre in bioetica, deve essere un approccio multidisciplinare. Stiamo dunque attenti a non ridurre la questione dell’eutanasia soltanto ad una questione giuridica, perché c’è, ad esempio, la dimensione di carattere filosofico, il tema di carattere antropologico della espulsione del morire della società, c’è il problema del senso del morire, c’è il tema del significato della sofferenza, ci sono una serie di questioni che richiederebbero un approfondimento specifico.
Però, qui, mi pare interessante chiarire le idee almeno su alcuni aspetti che hanno una ricaduta dal punto di vista giuridico. Allora partiamo dalla definizione: per eutanasia s’intende l’azione od omissione compiuta da un terzo e deliberatamente intesa alla soppressione di una vita umana allo scopo di porre fine alle sofferenze. Questa definizione non è la definizione accettata da tutti, perché contiene alcune indicazioni che evidentemente chiariscono alcune zone grigie che sono proprio utilizzate dai fautori della legalizzazione per far passare nell’opinione pubblica la bontà di una legge che ammetta l’eutanasia. Quali sono gli aspetti che sono da sottolineare in questa definizione? Il fatto che l’eutanasia si può consumare sia con condotte palesemente attive (faccio un’iniezione velenosa) ma anche astenendomi dal fare determinate cose. E questo è il primo tabù costruito dai mezzi della comunicazione di massa: l’eutanasia brutta è quella che implica l’uso di un atto che sia attivo, quindi un’iniezione velenosa o qualsiasi altra condotta che provochi in maniera evidente la morte. Viceversa, se la morte deriva dal fatto che i sanitari non fanno qualche cosa, si astengono dall’agire, questo caso non sarebbe problematico. Quindi la prima cosa da fare è respingere questo dualismo tra eutanasia attiva e passiva.
L’eutanasia o è eutanasia, oppure non è tale. Quindi, una condotta clinica o si configura come eutanasia, realizzata in maniera attiva oppure realizzata ad esempio sospendendo l’alimentazione o l’idratazione del paziente; altrimenti se io mi astengo dal fare certe cose a ragion veduta e senza intenzione di uccidere, allora in questo caso non c’è alcun tipo di eutanasia (tanto meno passiva) perché non sto determinando volontariamente la morte del paziente; sto astenendomi dal fare delle cose che qualcuno definisce – ad esempio – “accanimento terapeutico”.

L’altro elemento importante è che l’eutanasia è compiuta da un terzo. Questo è un elemento giuridico fondamentale, perché non dobbiamo “impantanarci” nella riflessione sul suicidio quando parliamo di eutanasia, anche se sul suicidio giuridicamente ci sarebbero molte cose da dire fare, non ultima il fatto che il suicidio continua a rimanere anche nel nostro sistema giuridico un atto illecito benchè non sanzionato. Tuttavia l’eutanasia si differenzia radicalmente dall’atto suicida proprio perché implica che un terzo soggetto è chiamato a porre fine volontariamente alla vita di una persona sostanzialmente inerme. E questo è l’elemento più problematico dal punto di vista giuridico che i mass-media sempre rimuovono.
Due casi di scuola: muore una persona l’anno scorso che aveva chiesto l’eutanasìa e che poi è morta prima di ottenerla. Titolo del Corriere della Sera: Tizio ucciso dalla sua malattia: aveva chiesto l’eutanasia ma non gli è stata data. Il verbo usato dal giornalista evoca un atto omicida. Cioè: la malattia non è stata un fatto naturale, ma un fatto estremamente innaturale, tanto è vero che si riveste addirittura di un significato penalmente rilevante: la malattia dovrebbe essere processata e condannata per omicidio.

Qualche mese fa muore invece un ragazzo francese gravemente handicappato, attraverso (pare) un intervento eutanasico. In tutti gli articoli dedicati dal Corriere della Sera all’argomento, la parola “uccisione” non compare. “Se n’è andato…..E’ uscito dalla sofferenza….E’ stato liberato…..Ha finalmente finito di soffrire…..eccetera”.
Questo è determinante per la capacità che il “media” ha di trasformare il contenuto sostanziale dell’informazione, per cui quella che noi definiremmo – anche da un punto di vista medico-legale – una morte naturale, è un’uccisione. Quella che invece da un punto di vista medico-legale implica l’apertura di un fascicolo per valutare le responsabilità penali del medico o di altri soggetti, è una morte naturale. A questo ribaltamento dovremmo abituarci sempre di più, non per accettarlo ma perché dovremmo farci i conti.
Diciamo che nell’eutanasia la morte è “deliberatamente intesa” perché essa è il frutto di una scelta, di una decisione. Quindi per valutare se un atto è eutanasico – come anche la Congregazione per la Dottrina della Fede giustamente fa rilevare – dobbiamo avere particolare attenzione alla dimensione della volontà, dell’intenzione.
Vi sono vari tipi di eutanasia: l’eutanasìa su richiesta attuale, il primo gradino da cui in genere si parte nel dibattito pubblico. Quando il movimento eutanasico propone in un Paese in cui l’eutanasia è vietata, l’introduzione della legge che la consenta, l’eutanasia che viene richiesta è solo questa, con un effetto tranquillizzante sull’opinione pubblica. E’ già stato detto dai relatori che mi hanno preceduto, cioè:

“L’importante è che non mi impongano nulla, tuttavia se uno lo chiede, ad un certo punto bisogna darglielo!”.

C’è poi l’eutanasia su richiesta differita. Anche questo tipo di eutanasia può essere presentata – diciamo – come Cavallo di Troia, come primo strumento per varcare la Linea del Piave morale e giuridico che vieta l’eutanasia. Si tratta dell’uso, direi malizioso, del testamento di vita per cui una persona lascerà una disposizione scritta realizzata quando era ancora compos sui, quando era ancora in grado d’intendere e di volere, secondo la quale se gli accadrà quella certa patologìa, vorrà che il medico o chi per esso intervenga in modo tale da provocarne la morte.
Eutanasia per motivi pietosi in assenza di richiesta. Qui cominciamo ad addentrarci in quel territorio in cui l’eutanasia non è richiesta dal paziente. Tutti i fautori dell’eutanasia per libera scelta a questo punto hanno un sobbalzo: “No! Assolutamente! Se non c’è il consenso o se non c’è la richiesta, non si può fare!”. Poi si scopre, però, dalla lettura dei quotidiani, dalla televisione e dalle interviste televisive, che in realtà i casi più strazianti sono spesso quelli di soggetti che non sono più in grado di manifestare la loro volontà. Pensiamo, ad esempio, a tutta la tematica sullo stato vegetativo persistente, che secondo alcuni viene liquidata come “stato vegetativo permanente”, con un salto logico che sottintende una conclusività diagnostica che non è possibile sovente determinare. In questa dimensione, allora, si fa appello al vero e proprio shock emotivo che, per esempio, la visione televisiva di un paziente in queste condizioni produce, oppure all’intervista televisiva del famigliare che soffre accanto ad un paziente in quelle condizioni, per far riflettere – diciamo così – se non sia il caso di consentire l’eutanasia nell’interesse di colui che sta soffrendo, anche se non c’è il consenso.
Un’altra annotazione su questo tipo di eutanasia fa rilevare come spesso noi pensiamo all’eutanasia stessa come ad un problema legato alle ultime fasi della vita, cioè a quella fase in cui la patologia è comunque giunta verso l’ultimo stadio e quindi siamo psicologicamente abituati a collegare il dibattito eutanasico a quella frontiera che comunque si colloca prima dell’avvento della morte. In realtà, l’eutanasia sarà destinata a diventare sempre più una questione che riguarda i problemi di cronicità, non alla fase terminale in se stessa; ma a tutte quelle patologìe che in virtù della capacità diagnostica sempre più sofisticata è possibile prevedere nel loro evolversi nell’arco di molti anni che precedono l’evento definitivo: la morte. Quindi il problema non è più soltanto di dire: “Beh! Questo paziente la settimana prossima o fra un mese morirà!”, ma è quello di dire: “Questo paziente, purtroppo, vivrà cinque, dieci, quindici anni in queste condizioni”:
E in una logica di sofferenza inaccettabile, potremo dire che è addirittura più urgente – nella prospettiva dei favorevoli all’eutanasia – dare la morte a chi passerà quella condizione per vent’anni, che non a chi la subirà per una settimana. Questo apre tra l’altro degli scenari molto interessanti rispetto al problema del “pendio scivoloso”. L’eutanasìa può essere invocata poi per motivi eugenetici sui neonati, per motivi economico-sociali, per motivi altruistici.
Andiamo avanti. Abbiamo detto già che bisogna tener presente che l’eutanasia o è tale o non lo è, e quindi che non si deve accettare la definizione di “attiva” e “passiva”. Insistiamo anche sul fatto che è assolutamente necessario tenere sotto controllo la distinzione tra elementi oggettivi ed elementi soggettivi, nel senso che per concorrere alla valutazione di un atto eutanasico, cioè per stabilire se una certa condotta è un atto eutanasico, bisognerà aver riguardo sia ad alcuni elementi oggettivi – nel senso che una certa modalità operativa configura certamente un’eutanasia – ma nello stesso anche al fatto che ci sono condotte che invece in se stesse sono moralmente – come dire – anonime e che assumono un significato etico soltanto collocandole in relazione con la cartella clinica di quel paziente.
Ad esempio: l’uso dell’analgesìa, cioè usare degli antidolorifici è un atto in se stesso non giudicabile negativamente, ma potrebbe essere invece anche da valutare come un’eutanasia quando fosse utilizzato esclusivamente allo scopo di provocare la morte del paziente.
Volevo, d’altra parte, richiamare qui la vostra attenzione su un aspetto che giuridicamente è molto delicato, cioè quello della graduazione del dolore, della misurazione del dolore, dato che i criteri per normare nel campo dell’eutanasìa devono rispondere a dei requisiti tipici del mondo del diritto, cioè devono essere validi erga omnes, devono essere validi per tutti e devono avere un livello di oggettività accettabile. Non è pensabile una legge che dica: “Il medico guarda negli occhi il paziente e decide”. Questo credo che nessuno lo proporrebbe, per cui qualsiasi legislatore, anche favorevole all’eutanasia, vorrebbe una legge che stabilisca i parametri, i criteri.
Ora, un primo problema con il quale ci si scontra è quello della determinazione della misura del dolore. La sofferenza è impossibile da circoscrivere in maniera dettagliata. E’ difficile definirla. La misurazione del dolore fisico è sempre condizionata dal singolo paziente. Cioè: ogni singolo paziente vive in maniera diversa il suo soffrire, e tra l’altro la vive in una maniera assolutamente personale, non comunicabile entro certi limiti: il mio mal di testa è il mio mal di testa. Posso dire che ce l’ho, ma non lo posso comunicare nella sua espressione a chi mi sta intorno. Ma l’aspetto più interessante è: ci si deve limitare a consentire la pratica eutanasica solo per quel dolore che definiremmo “fisico”, cioè legato ad una patologia che determina delle sofferenze fisiche; o dobbiamo anche riconoscere una valenza giuridicamente rilevante al dolore psichico?
In Olanda, per esempio, questa scelta è già stata fatta. La Corte Suprema ha assolto un medico che aveva applicato l’eutanasia a una donna che non aveva nessun tipo di patologia in senso organico, ma che era in uno stato di particolare prostrazione psicologica a causa di una serie di traversìe personali. Questa donna va dal suo medico, chiede l’eutanasia ed il medico gliela dà. La Corte Suprema assolve il medico perché dice: “Non possiamo limitarci ad accogliere la richiesta eutanasica quando c’è una motivazione organica, ma anche quando c’è il “Tedium Vitae” portato ad un livello insopportabile, noi dobbiamo riconoscere che questo non è meno grave di una sofferenza fisica”.
Le leggi esistenti oggi nel mondo? E’ difficile fare un’analisi dettagliata, comunque i casi più noti sono quello olandese, che è passato da una fase di depenalizzazione ad una fase successiva di una vera e propria legalizzazione, come sapete. Poi c’è il caso del Belgio, piuttosto simile a quello olandese.
In Australia abbiamo avuto un caso interessante di ripensamento, nel senso che è stata approvata una legge che successivamente è stata abrogata dallo stesso Parlamento.
In Italia, come sapete, oggi come oggi l’eutanasia è una condotta penalmente rilevante che viene disciplinata in maniera rigorosa, anche se questa normativa è oggetto di alcune contestazioni e non soltanto da coloro che sono favorevoli all’eutanasia, ma anche da coloro che ritengono che così com’è formulata la legge sarebbe troppo penalizzante per coloro che praticano l’eutanasia. Tanto è vero che la magistratura del nostro paese ha introdotto da tempo un mal vezzo; cioè quando c’è un processo in cui l’imputazione è una condotta eutanasica – tra l’altro non esiste il reato di eutanasia nel nostro ordinamento penalistico ma viene ricondotto o all’omicidio del consenziente o all’omicidio vero e proprio – chi di solito pratica l’eutanasia e viene riconosciuto colpevole di questa condotta, beneficia di una particolare previsione del Codice Penale che è una circostanza attenuante, ossia l’aver agito per particolari motivi di valore morale e sociale.

Detto a proposito all’eutanasia di una suocera potrebbe anche avere una qualche plausibilità, ma certamente (a parte la battuta e scusandomi con le suocere presenti) è curioso come escamotage tecnico-giuridico, perché attribuisce a quella condotta che pure andrebbe sanzionata, un valore morale e sociale particolare. Per altro, di questa clausola hanno beneficiato – tanto per fare un po’ di storia di queste sentenze – gli autonomi – “Leoncavallini” che qualche anno fa hanno messo a ferro e fuoco Milano, beneficiando di questa attenuante generica, per avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale.
Ora prendiamo in esame i principali argomenti a favore della legalizzazione, e poi vediamo quelli contro la legalizzazione dell’eutanasia. Ci accorgiamo che, come sempre, nel dibattito non s’inventa nulla. Nulla di nuovo sotto il sole. Quindi anche se una volta sentirete esporre la cosa con l’abilità dialettica di Maurizio Costanzo, un’altra di Sabrina Ferilli (cito due nomi della cultura contemporanea a caso) comunque le motivazioni di fondo per cui l’eutanasia può essere perorata, poi alla fine sono sempre quelli.
Allora, gli argomenti di fondo sono: è più forte il diritto a morire. Se si ha diritto a tutto, se l’uomo è il cumulo dei suoi diritti ed è soltanto quello, non si vede perché tra tutti i diritti non dovrebbe avere anche questo.
Diritto a morire con dignità, quindi qualità della vita, ma se non c’è la qualità della vita non vale la pena vivere.
Diritto a fare ciò che si vuole del proprio corpo. Questa è un’affermazione interessante perché presuppone quel divorzio tra il mio io ed il mio corpo per cui io non sono anche il mio corpo ma è come se mi collocassi in una posizione di terzietà rispetto al corpo che sono. Per cui con l’eutanasìa è come se non morissi; ed è interessante che questo avvenga in un contesto secolarizzato, per il quale spesso con la morte tutto finisce, ma in realtà eliminando il corpo che soffre è come se io salissi per un momento sugli spalti a vedere questa partita della vita che riguarda un altro. Il corpo muore, pazienza! Peggio per lui! Tanto io sono sugli spalti a vedere la scena. Non si coglie, invece, che questa decisione mi coinvolge radicalmente tutto e io non ne sono spettatore, ma protagonista.
Insignificanza ed inutilità del soffrire: un tema molto attuale. I costi sociali non compaiono mai nelle rivendicazioni eutanasiche, ma come spesso accade (quando s’incontra per strada il padrone di casa, si chiede sempre come sta la famiglia e come stanno i bambini, ma poi vuole che gli paghiate l’affitto) anche nel contesto di queste riflessioni, la preoccupazione per i costi sociali, la consapevolezza che un sistema sanitario è gravato prevalentemente dalle spese degli ultimi tre anni della vita di ognuno di noi, induce alcuni a ritenere che l’eliminazione degli ultimi tre anni della nostra vita potrebbe giovare a molti.
La sofferenza dei familiari: è un argomento molto importante e anzi spesso decisivo perché in realtà è proprio il soffrire che sta intorno che è movente forte per l’eutanasia.
Vediamo ora alcuni argomenti che si possono invocare contro la legalizzazione.
Li leggiamo proprio senza commentarli:

  • Non esistono vite senza qualità –
  • La dignità della vita non è determinabile dai singoli. Chi può avere il potere, l’arroganza di determinare quando o meno ci sia la qualità della vita? –
  • La trasformazione dell’arte medica. Il fatto che un ordinamento giuridico permetta o meglio quasi imponga al medico di fare l’eutanasia comporta un vero e proprio cambiamento radicale del significato del atto medico e della professione medica.
  • L’effetto incentivante latente. Nel momento in cui l’eutanasia diventa una possibilità, il fatto di non ricorrere all’eutanasia diventa una scelta che deve essere giustificata e quindi il paziente viene caricato di una responsabilità ulteriore:

“Il mio vicino di letto ha chiesto l’eutanasia e ha liberato la sua famiglia dal peso che esso rappresentava. Io non la chiedo e quindi sono un egoista”.

Il precedente nazista mi sembra comunque un fatto interessante da ricordare. –
Il “Pendio Scivoloso”: quella del piano scivoloso non è un’argomentazione di principio, ma proprio perché non è tale, trova molto ascolto oggi nell’opinione pubblica. Mi riferisco all’affermazione per la quale al di là di come la si possa pensare sulla liceità del singolo atto eutanasico, ogni volta che si introduce nell’ordinamento giuridico la possibilità (anche solo ad alcune condizioni) di praticare l’eutanasia, si assiste poi ad un progressivo sbracamento, un allargamento delle maglie come in Olanda dove il rapporto redatto da un parlamentare favorevole a quella legge, dimostrò che ogni anno esistono migliaia di casi di eutanasia, nelle cui cartelle cliniche non si trova traccia della domanda del paziente. Sapete, può succedere che una pratica si perda. Ma evidentemente qualche cosa non funziona in alcune migliaia di casi.

  • Le cure palliative e il principio del duplice effetto: questo è un discorso complesso ma che rimanda all’elemento della volontarietà di colui che agisce ed ha il compito di curare.
  • No all’accanimento terapeutico –
  • Coessenzialità del dolore all’esperienza umana: ne abbiamo già parlato
  • La dignità del morire ha contenuti più ricchi e diversi del voler morire. –

Ecco, io mi fermo qui perché ho già parlato tantissimo e ovviamente nel dibattito potremo ritornare sulle cose che ho già detto forse troppo di corsa. Grazie della vostra attenzione.

i) Adolf Jost, Il diritto alla propria morte. Uno studio sociale, Gottingen 1895.
ii) Le Monde del 12 gennaio 1973