Mario Palmaro* – Filosofo del diritto
L’obiezione di coscienza: una nobile tradizione
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. Con queste parole inequivocabili gli apostoli – appena liberati miracolosamente di prigione dall’angelo – rispondono al sommo sacerdote che li ha appena minacciati, dicendo: “Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo”. Il sommo sacerdote dice proprio così: “avete riempito Gerusalemme”. Definisce involontariamente l’ampiezza e la profondità dell’atto imperativo con cui la coscienza degli apostoli sfida l’ordine ingiusto dell’autorità. Perché il gesto della ribellione, della reazione alla legge ingiusta non può essere sommesso, strisciante, compromissorio, sfumato, accomodante. E’ invece ostinato, evidente, espressione di una forza tranquilla. Può anche non essere espresso in modo clamoroso, come nel caso delle levatrici d’Egitto che si rifiutano segretamente di uccidere i primogeniti maschi d’Israele. Ma ciò nulla toglie al suo elemento fondamentale: l’obiezione della coscienza grida in faccia all’autorità che il diritto e la giustizia sono stati traditi dal potere costituito. Giustamente Francesco D’Agostino a proposito dell’obiezione di coscienza ricorda che il martire è testimone della verità del diritto contro l’ingiustizia di un comando o di una legge, e rappresenta l’obiezione di coscienza nella sua massima espressione, che giunge fino all’estremo sacrificio.
L’obiettore autentico non è infatti un rivoluzionario che vuole contestare la legittimità o la necessità del potere costituito. Il suo merito consiste piuttosto nella capacità di non far coincidere leggi e diritto. Per cui è possibile e necessario contestare una legge e non piegarsi ad essa se tale legge è contraria alla giustizia.
“L’obiezione fa perno sull’idea che la verità del diritto non sia un prodotto dell’attività politica del detentore del potere, quanto un suo presupposto”.
Perché è chiaro che non è la dialettica politica a generare la verità, ma è piuttosto la verità che dovrebbe illuminare l’azione politica. Tanto più nell’ambito delle questioni di bioetica, dove verità e vita conoscono un inscindibile connubio, che è stato giustamente scelto come denominazione di una nuova associazione pro life italiana che mi onoro di presiedere.
Questo riferimento alla verità chiama direttamente in causa il fondamento stesso della norma giuridica, che ci viene additato dalle ruvide ma appassionanti parole degli Apostoli: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. Qual è la radice dei diritti fondamentali dell’uomo? Ci risponde Sua Santità Benedetto XVI, nel messaggio inviato alla Fondazione Magna Carta nell’ottobre del 2005:
“Formulo poi l’auspicio che la riflessione che si farà sul tema “Libertà e laicità” tenga conto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali, che rappresentano valori previi a qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, ma sono inscritti nella natura stessa della persona umana, e sono pertanto rinviabili ultimamente al Creatore. Se, quindi, appare legittima e proficua una sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo“.
Questo potente richiamo offertoci dal Pontefice ci introduce sul terreno di una più sana e compiuta laicità, che non può pretendere di fondare un qualsiasi sistema giuridico esclusivamente su elementi convenzionali che afferiscono al cosiddetto “patto sociale”. Stiamo parlando di un problema che è si teologico, ma contemporaneamente anche antropologico e filosofico.
“O si ammette – scrive Cesare Cavalleri nell’editoriale al numero di ottobre 2005 della rivista Studi cattolici – l’esistenza di una natura umana, e quindi di una legge naturale, oppure viene meno tutta l’impalcatura dei diritti umani che così strenuamente vengono proclamati e difesi (a parole) da una scala che al gradino più basso ha Marco Pannella e al più alto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo”.
La Evangelium Vitae è in questo senso uno dei più straordinari doni che la Chiesa ha fatto al mondo moderno. La portata di questo documento è infatti epocale per la città degli uomini, al punto che a undici anni dalla sua promulgazione possiamo considerare ancora ampiamente inesplorata la miniera di ricchezze che essa contiene e che addita all’approfondimento degli studiosi di morale e di filosofia del diritto. Perché la riflessione di Giovanni Paolo
II può essere letta anche come un autorevolissima analisi dei temi più controversi che occupano da sempre la filosofia del diritto. In questa riflessione cercheremo di affrontare quattro questioni:
a. il ruolo che la EV assegna al diritto nell’ambito della tutela della vita umana
b. le dinamiche che originano una legge ingiusta
c. quale rapporto esiste fra democrazia, tutela della vita e verità
d. che cosa sia giusto fare di fronte a una legge ingiusta
L’Evangelium vitae e il diritto
Possiamo parlare, a proposito della EV, di un decisivo apporto al mondo del diritto e in particolare al tema del rapporto fra democrazia e verità. La dimensione giuridica occupa un ruolo di tutto rispetto nell’economia dell’enciclica. Anzi, si potrebbe parlare addirittura di una centralità del Diritto nell’ambito delle problematiche relative al rispetto della vita. (EV, n° 90). Questo passaggio dell’Enciclica suona come un monito assai severo ed esigente per tutti coloro che – pur muovendo da un giudizio etico-morale conforme al Magistero – teorizzano però la necessità di impegnarsi esclusivamente sul piano culturale, delle idee, considerando il diritto un mero fatto tecnico, tutto sommato impermeabile ai principi e insignificante per la promozione di quegli stessi principi. Si tratta, in soldoni, della cosiddetta “opzione spirituale”, secondo la quale
“le leggi cambieranno da sole quando, con il nostro apostolato, avremo cambiato il cuore della gente”.
Giovanni Paolo II dimostra – impegnando in ciò tutta l’autorità petrina – di non condividere questa impostazione, che assume talvolta i connotati di una comoda fuga dall’assunzione di posizioni scomode, coraggiose, minoritarie, integrali.
Il Papa, per altro, dimostra di farsi promotore del valore della vita umana in un senso non statico, ma dinamico. Le leggi umane – come i codici, le costituzioni, le dichiarazioni dei diritti dell’uomo – sono prive di un qualunque slancio verso l’altro, sono norme “difensive”, stabiliscono un minimum che funge da presidio per i diritti di ogni persona. Giovanni Paolo II, invece, sottolinea la necessità che la vita umana non solo sia difesa, ma che venga amata e promossa attraverso la donazione di sé agli altri.
La legge umana impone di rispettare il prossimo, di sopportare gli altri. Il Vangelo va molto più in là: esorta ad amare.
Tuttavia, il ruolo delle leggi umane è fondamentale: esse sono un punto di partenza irrinunciabile, tant’è vero che il Santo Padre ha parlato, a proposito dei giuristi, di “un apostolato e una missione particolare” perché “difendere i diritti dell’uomo, creare le condizioni che favoriscono lo sviluppo delle persone e della società significa collaborare con il Creatore”
Possiamo riassumere il contributo della EV alla filosofia del diritto nei seguenti aspetti essenziali:
- I delitti si sono mutati in diritti (n. 4, 11)
- Dio non lascia impunito il delitto (n. 9)
- La assoluta non negoziabilità del diritto alla vita in ambito politico e statale (n. 20)
- La responsabilità dei legislatori (n. 59)
- Si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (n . 68)
- La legge ridotta a espressione della volontà generale (n. 69)
- Democrazia o totalitarismo? (n. 70)
- Legge civile e legge morale. (n. 72)
- Le leggi gravemente ingiuste e la loro emendabilità (n. 73)
La diagnosi di Giovanni Paolo II: la situazione attuale.
Nell’analizzare il tema del diritto alla vita, Giovanni Paolo II elabora innanzitutto una diagnosi profondissima, straordinaria, non solo nel cogliere i sintomi della malattia, ma soprattutto nell’individuarne le cause.
Giovanni Paolo II ricorda che ci troviamo di fronte (EV, 28).
Non siamo semplici spettatori, dice il Papa, ma protagonisti di questo conflitto, nel quale scegliere, e scegliere la vita. Il corsivo del Papa – probabilmente sottolineato vigorosamente a penna nella prima stesura dell’enciclica, secondo l’abitudine che Giovanni Paolo II ha rivelato nelle bozze di Varcare le soglie della speranza – vuole scuotere i cristiani (e non solo loro) dal torpore e dall’indifferenza di fronte a svolte giuridiche epocali.
L’enciclica muove da una solida impalcatura antropologica: il valore incomparabile della persona umana. (cfr. EV n. 2). Perché l’uomo ha un valore incomparabile? Perché l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre la sua esistenza terrena (vocazione soprannaturale). Vocazione che sottolinea la “relatività” della vita terrena, realtà penultima e non ultima, ma comunque sacra. Ma allora, il valore della persona umana è verità di fede comprensibile solo con gli occhi di chi ha fede? No.
“La Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole dal suo Signore, ha un’eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente… Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (Rm 2. 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l’umana convivenza e la stessa comunità politica”. (EV, n.2)
Questo passo fondamentale, dopo sole due pagine dell’enciclica, ci dà alcune chiavi di interpretazione di tutta la materia:
- Riconoscimento della legge naturale come elemento comune costitutivo della natura umana
- il Vangelo della vita non è “proprietà segreta” dei cristiani, ma esige di essere annunciato a tutti gli uomini
- l’accoglimento di questo Vangelo passa attraverso “difficoltà e incertezze”, ma può essere colto dalla ragione orientata dalla volontà verso il vero e il bene
- il diritto alla vita come fondamento della convivenza umana (civiltà)
- il diritto alla vita come fondamento del diritto (lo Stato)
Non ci sono dunque dubbi sulla rilevanza sociale-giuridica dei contenuti del Vangelo della vita, rilevanza che può essere perfettamente accettata da uno stato laico. Tanto è vero che la EV ci fornisce alcune importanti annotazioni di carattere antropologico e filosofico-giuridico in materia di colpa, responsabilità e pena (cfr. n. 7, 8, 9 della EV):
a. le azioni umane sono regolate dal libero arbitrio
b. ogni omicidio viola la parentela tra uomini (spirituale e – talvolta – del sangue)
c. ogni atto omicida esprime un cedimento alla logica del maligno: tutti siamo esposti a questa tentazione
d. G. K. Chesterton: “Nessun uomo è buono, finchè non sa quanto possa essere cattivo” (Il segreto di Padre Brown)
e. Dio vendica l’ucciso con una pena (l’esilio), l’omicida mente e si “deresponsabilizza”
f. l’omicidio è fra i peccati che “grida vendetta al cospetto di Dio.”
g. Eppure, nemmeno l’omicida perde dignità personale (cfr. Sant’Ambrogio, n. 9)
Il concetto di reato e le questioni di bioetica: il ruolo della norma giuridica nelle questioni di bioetica
La norma penale, che definisce i fatti che costituiscono reato e ne stabilisce la relativa sanzione, rappresenta lo strumento giuridico più classico (anche se non l’unico) di tutela del bene della vita umana . Attraverso la qualificazione di un fatto come reato, lo Stato esercita la più radicale, la più drastica presa di posizione contro la liceità di una determinata condotta umana. Non solo. La catalogazione delle condotte criminose risponde sempre alla necessità primaria – che precede anche da un punto di vista logico nell’attività tipica del legislatore – di tutelare un determinato bene. Un bene di così eminente rilevanza da indurre l’autorità costituita a reagire con lo strumento più temibile di cui dispone: la sanzione penale.
Uno degli aspetti salienti del moderno dibattito intorno alle questioni di bioetica riguarda il ruolo che il concetto di reato deve giocare di fronte alle più drammatiche e laceranti provocazioni che questo medesimo dibattito suggerisce. Pensiamo, ad esempio, ad alcune classiche questioni di bioetica che sono storicamente anche classiche questioni giuridiche, e più precisamente penalistiche, non meno che filosofico-giuridiche: l’aborto procurato; l’omicidio del consenziente; la cosiddetta uccisione per motivi pietosi, nota anche come eutanasia; l’infanticidio; la selezione eugenetica nelle sue multiformi, inquietanti, applicazioni.
Restando per il momento su di un piano meramente descrittivo, e dunque a prescindere da qualsiasi giudizio di merito, non occorre andare troppo indietro nel tempo per riconoscere che, nella quasi totalità degli ordinamenti positivi, fino a qualche decennio fa le condotte appena citate erano considerate senza esitazioni come reati. L’aborto procurato era ad esempio inserito nel catalogo dei reati, all’interno di una lunga tradizione giuridica che, pur in ambiti culturali, religiosi e politici anche assai diversi, si ritrovava sostanzialmente concorde nella determinazione dei fatti di rilevanza penale. Giova ricordare che nella nostra penisola il reato d’aborto era contemplato nella totalità dei codici penali dei piccoli stati e dei ducati preunitari, quasi sempre all’interno dei titoli dedicati alla tutela del bene della vita. Sarebbe difficile, per non dire impossibile, ravvisare in questo dato storico una indebita confusione di piani, una anacronistica “confessionalizzazione” del diritto penale, che impediva di giudicare il problema con occhi laicamente disincantati. Anche nella tradizione giuridica statunitense dello stesso periodo, infatti, è ampiamente diffusa la valutazione della soppressione intenzionale del concepito come fatto penalmente rilevante, in considerazione della violazione del bene giuridico fondamentale della vita, e per giunta di una vita intrinsecamente innocente.
Giova altresì ricordare che lo storico Codice Penale Zanardelli, espressione dell’Italia sabauda e liberale, alternativa (quando non ostile) alla Chiesa cattolica, considera senza esitazioni la condotta abortiva come penalmente rilevante. Il Codice – promulgato il 30 giugno 1889 – prende il nome dal Ministro della Giustizia dell’epoca, il parlamentare della Sinistra storica Giuseppe Zanardelli, e considera l’aborto procurato un delitto contro la persona umana. Soltanto in seguito, con la promulgazione del Codice Rocco durante il regime fascista, il reato d’aborto verrà mantenuto ma trasferito nella categoria dei delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Ciò non toglie che il bene principale protetto dalle disposizioni che vietavano l’aborto è sempre stato considerato – dalla dottrina e dalla giurisprudenza – il bene della vita, a dispetto dalla erronea e ideologica collocazione adottata dal Codice Rocco.
Rispetto a un altro tema attualissimo in ambito bioetica, come quello della c.d. eutanasia, si coglie con analoga evidenza la centralità degli elementi cui sin qui abbiamo fatto riferimento: di fronte a un reato contemplato dal codice che sanziona seriamente, se non severamente, la condotta in discussione, si fa strada un’azione giuridico-politica volta a depenalizzare l’uccisione per motivi pietosi, di solito nei casi in cui vi sia una richiesta del paziente. Ma non mancano le istanze di depenalizzazione anche la per la soppressione di pazienti che siano totalmente incapaci di esprimere una qualsiasi decisione, in base al criterio ambiguo e metagiuridico di “qualità della vita”.
In ogni caso, si può osservare con una certa chiarezza che il dibattito bioetico tocca in genere queste tappe fondamentali:
a. esiste un reato che ha per oggetto una determinata condotta
b. la condotta è giudicata severamente dall’ordinamento (e dalla società), in quanto violazione di un bene giuridico tutelato, e tutelato proprio perché reputato di notevole rilevanza
c. si fa progressivamente largo un movimento d’opinione che contesta la normativa esistente, di solito appoggiandosi su motivazioni di carattere statistico-sociologico. Ad esempio la reale o presunta ampia diffusione della c.d. clandestinità del fenomeno; l’elevato dark number dei delitti contestati; il mutamento della sensibilità sociale e dei costumi; e così via.
d. In questa fase iniziale, la critica del reato fa appello soprattutto a una serie di situazioni estreme – i cosiddetti casi pietosi – che costituiscono eccezioni alle quali la norma penale non offrirebbe una risposta umanamente accettabile, perché colpirebbe senza clemenza condotte maturate in contesti assai penosi, apparendo manifestamente iniqua secondo criteri morali e metagiuridici di giustizia. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi della violenza carnale, per l’aborto procurato; e al caso di Stato Vegetativo Persistente per quanto riguarda il fronte dell’eutanasia.
e. L’azione di contestazione alla normativa, ritenuta superata e anacronistica, si accompagna quasi sempre alla implicita o esplicita erosione della fondatezza del bene giuridico tutelato dalla figura di reato che si vorrebbe eliminare: nel caso dell’aborto procurato, si mette in discussione che il nascituro possa godere di una qualche forma di diritto alla vita; nel caso dell’eutanasia, si contesta l’esistenza del principio di indisponibilità della vita umana, affermando invece la validità di un presunto “diritto alla propria morte”, speculare al diritto alla vita.
f. Si enfatizza con particolare insistenza la negatività dello strumento penalistico, descritto come illiberale, oppressivo e moralistico. Il reato è qui assunto in quella chiave esclusivamente sanzionatoria, che tende a disconoscere la dimensione di tutela e di garanzia dei diritti. In questa operazione, viene privilegiato il punto di vista di uno dei soggetti in gioco – la madre, nel caso dell’aborto; il malato, o i parenti più stretti, nel caso dell’eutanasia – che quindi denunciano il divieto originato dal reato come insopportabile limitazione dei propri “diritti civili”. E viene al contempo occultato il punto di vista di altri soggetti in gioco – il nascituro, nell’aborto procurato; il medico o il giurista contrari alla “dolce morte” nel caso dell’eutanasia – con l’effetto di far evaporare completamente il contenuto del bene giuridico tutelato. Che è, appunto, la vita umana innocente.
g. Questa fase del dibattito incontra spesso ampi consensi, perché si avvantaggia della “cattiva letteratura” che da decenni colpisce la categoria del reato. Per cui, anche intellettuali, giuristi, politici che in linea di principio non sono favorevoli al “viraggio permissivo” – cioè a dichiarare lecita una pratica tradizionalmente considerata inaccettabile – si lasciano ammaliare dall’idea che, in fondo, non sia poi così grave eliminare la fattispecie criminosa. Prevale un fattore psicologico per il quale, umanamente, non è mai piacevole mandare qualcuno in prigione; e dunque, tanto meglio se chi commette un fatto anche grave, come la soppressione di una vita innocente, ma all’interno di una situazione complessa e valutata con indulgenza dalla società, non è più colpito dalla sanzione tipica dei reati.
h. Il percorso di demolizione della fattispecie penale avviene in genere secondo questa progressione: la riduzione della pena edittale; la disapplicazione della norma da parte degli organi giurisdizionali; la riduzione delle ipotesi che rientrano fra i reati; la eliminazione della fattispecie nel suo complesso dai fatti considerati reato; la legalizzazione della stessa pratica con una nuova normativa che mira a proclamarne la piena liceità, eventualmente a certe condizioni (c.d. regolarizzazione).
i. Alla fine di questo percorso sociale – che può durare pochi mesi ma più spesso alcuni anni, e perfino decenni – ciò che era considerato reato contro la persona umana, e dunque un delitto grave, è completamente rimosso dai fatti censurati dall’ordinamento giuridico. Nella società si osserva anche una significativa trasformazione nella percezione morale della condotta un tempo incriminata. Ciò che è divenuto legale tende a essere assunto sempre di più come morale. Confermandosi in questo modo la dimensione inevitabilmente educativa (o diseducativa) della norma giuridica, in particolare penalistica. Nell’ambito delle questioni di Bioetica, il reato opera come presidio alla tutela di un determinato bene giuridico. Una volta eliminato il reato, viene meno anche la percezione del bene fondamentale che la norma tentava di difendere. L’individuazione del bene giuridico tutelato nell’ambito della interpretazione della norma penale è così rilevante che, a nostro parere, non è possibile procedere a un’autentica interpretazione della norma medesima se non vi è adeguata chiarezza circa il bene che il legislatore ha inteso proteggere.
Quali fatti costituiscono reato?
Il dibattito bioetico, e il suo incrocio con la dimensione penalistica, ha il merito di obbligarci a riscoprire una domanda fondamentale per il giurista. Anzi, una domanda fondamentale per l’uomo in quanto tale: quali fatti costituiscono reato?
Si tratta di una questione densa di implicazioni non soltanto tecnico-giuridiche, ma anche morali, filosofiche, antropologiche. Osserviamo che alla domanda in esame è possibile rispondere in uno dei seguenti modi:
a. Costituiscono reato i fatti che sono contemplati dalla legge come tali
b. Costituiscono reato i fatti che, secondo l’opinione dei più e in base alla sensibilità del momento, sono percepiti come delitti
c. Costituiscono reato i fatti che provocano una danno rilevante al benessere della maggior parte dei consociati
d. Costituiscono reato i fatti che violano un bene fondamentale connaturale alla persona umana: la vita, la libertà e in generale i beni strumentali alla realizzazione completa dell’individuo.
a. Se si prende per buona la risposta del punto “a”, si ottiene il risultato di circoscrivere la nostra riflessione al diritto così come esso è. E’ un’ottima risposta per l’operatore del diritto, che deve misurarsi con il diritto vigente (anche se in realtà il diritto posto non gli basta mai, come dimostra con arguzia Lombardi Vallauri). Ma se sposto il problema sul terreno dell’attività legislativa, mi accorgo della inadeguatezza di questa risposta. Infatti, potrei riformulare la domanda: se fossi il legislatore, intento a scrivere un nuovo Codice penale, con quali criteri sceglierei le fattispecie da inserire tra i reati? La dimensione positivistica non mi è di alcun aiuto. Genera anzi un cortocircuito logico che non soddisfa la ragione umana. In sostanza, sarebbe come dire: quella condotta è delitto perché la legge ha deciso che è un delitto.
b. Se si accetta la risposta del punto “b”, si opera la sostituzione della recta ratio con le categorie del consenso popolare, dell’indagine demoscopia, della sensibilità mutevole e capricciosa dei più. Si tratta di una tendenza diffusissima nelle democrazie contemporanee, che decreta il trionfo dei filodossi. Ma essa orienta il sistema delle leggi, e quindi il catalogo dei reati, verso una pericolosa deriva emozionale, nella quale la capacità di manipolazione mediatica delle masse, l’assenza di punti di riferimento sicuri, la potenza delle lobby e dei potentati economici diventano le leve capaci di manipolare e incanalare i gusti della gente. Plasmando così a piacimento il diritto. La deportazione di un popolo, la tortura di un indagato, l’uso di un embrione come cavia di laboratorio diventa fatti in sé stessi in-significanti moralmente e giuridicamente: sarà l’opinione pubblica di quel luogo e di quel momento storico a rivestire di un senso – positivo o negativo: dipende dalla sensibilità e dalle circostanze – quel gesto.
c. Questa risposta è una possibile traduzione della visione utilitarista. Essa gode di crescente approvazione nell’opinione pubblica moderna, anche se spesso in maniera inconsapevole. E contraddittoria: la stessa persona è portata a ritenere delittuoso un sistema sanitario che, per risparmiare risorse scarse, taglia i fondi per categorie marginali e costose, come ad esempio vecchi “inutili”; ma nello stesso tempo quella persona giudica perfettamente lecito – e dunque non un reato – che un parente sopprima un congiunto “per il suo bene e per il bene di tutta la famiglia e la società, che hanno finito di soffrire”.
d. Questa risposta ci pare ragionevole e adeguata alla delicatezza del problema. Dovrebbero costituire reato tutte e soltanto quelle condotte che costituiscono l’effettiva lesione di un diritto soggettivo individuale altrui, e non quelle che urtano contro la volontà – eventualmente arbitraria – del legislatore. Per usare le espressioni di Francesco Carrara, devono essere mala in sé, e non semplicemente mala quia proibita. Questa idea presuppone il riconoscimento della legge naturale, cioè di un insieme di verità metagiuridiche, che trascendono il sistema positivo, e che sono patrimonio di ogni uomo. E’ evidente che questa risposta è destinata a non lasciare tranquillo il giurista, né tanto meno l’uomo della strada. Perché obbliga a mettersi talvolta in conflitto con il diritto vigente, quando esso omette di qualificare come reati atti umani che sono oggettivamente dei mala in se.
Il ruolo della democrazia: gli equivoci dei moderni sofisti tra diritto, verità e giustizia
A proposito della democrazia, varrebbe sempre la pena ricordare due massime paradossali che tuttavia ci potrebbero aiutare a non trasformare la democrazia stessa in un idolo vuoto. La modernità infatti ha generato una vera e propria religione, la religione democratica , che ha i suoi riti, i suoi sacerdoti, e il suo magistero. Che si fonda su un’idea essenziale: la maggioranza è l’unica fonte di ogni legge e di ogni diritto. La prima massima è di Aristotele, il quale raccontava: “Aristippo disprezzava la matematica, perché non faceva riferimento né al bene né al male”. La seconda è di J. L. Borges:
“So che sono del tutto indegno di opinare in materia politica, ma forse mi si perdonerà se aggiungo che non credo nella democrazia, quel curioso abuso della statistica”.
Queste provocazioni non hanno tanto lo scopo di delegittimare lo strumento democratico, quanto di avvertirci del pericolo di fare di esso un “vitello d’oro”, sovraccaricando di valore dei semplici numeri, in una maniera del tutto simile al matematico che si “innamorasse” del numero 9.
In verità noi tutti sappiamo che la democrazia tende a misurare il consenso. E che i numeri eleggono gli uomini. Ma non possono decretare la verità di un fatto. Il declino relativista delle democrazie si esprime invece proprio in questo fenomeno: basta trovare una base maggioritaria per trasformare un delitto come l’aborto, o come la fecondazione artificiale, o come l’eutanasia, in un diritto. E’ precisamente contro questo errore che si scaglia la EV:
“In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l’opinione secondo la quale l’ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l’autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l’ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico”. (60)
“Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. (…) È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della « verità ». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del « relativismo etico ». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione « tirannica » nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l’umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?” (70)
“In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un « ordinamento » e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere « morale » non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo « segno dei tempi », come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato. Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del « bene comune » come fine e criterio regolativo della vita politica. Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli « maggioranze » di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto « legge naturale » iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi”. (70)
“Urge dunque, per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere. Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell’umanità. Certamente, il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale. Però
« in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza », (90)
che è quella di assicurare il bene comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità. Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire un’ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti
« possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1 Tm 2, 2).
Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l’inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l’offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale dell’aborto o dell’eutanasia non può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto della libertà. (71)
“In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come appare, ancora una volta, dall’enciclica citata di Giovanni XXIII:
«L’autorità è postulata dall’ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza…; in tal caso, anzi, chiaramente l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso».95
È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d’Aquino, che tra l’altro scrive:
«La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza».96
E ancora:
“Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante.”. (72)
Non occorre aggiungere nulla alle parole di Giovanni Paolo II. Esse spiegano molto bene perché, all’interno del positivismo giuridico, un illustre filosofo del diritto del ‘900 come Hans Kelsen poteva concludere senza imbarazzo che l’esito del processo a Gesù è da considerarsi un perfetto prodotto della democrazia, perché Pilato fece la cosa giusta – nell’incertezza su cosa fosse vero – ad affidare all’arbitrio della maggioranza la scelta fra Barabba e nostro Signore. Ben sapendo – aggiunge Kelsen – che Barabba era effetivamente un malfattore.
La coscienza di fronte alla legge ingiusta
Una volta riconosciuta l’esistenza di leggi intrinsecamente e gravemente ingiuste; e una volta compreso che la giustizia di una legge non si misura a colpi di maggioranza, rimane da chiarire quale sia il dovere di ogni coscienza di fronte a una legge contraria al diritto naturale. La EV (n. 73, 74 e 89) è al riguardo molto chiara
- L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza.
- Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, « né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto ».
- quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.
- I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12).
- Rifiutarsi di partecipare a commettere un’ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Chi ricorre all’obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.
- Il « far morire » non può mai essere considerato come una cura medica, neppure quando l’intenzione fosse solo quella di assecondare una richiesta del paziente: è, piuttosto, la negazione della professione sanitaria che si qualifica come un appassionato e tenace « sì » alla vita. Anche la ricerca biomedica, campo affascinante e promettente di nuovi grandi benefici per l’umanità, deve sempre rifiutare sperimentazioni, ricerche o applicazioni che, misconoscendo l’inviolabile dignità dell’essere umano, cessano di essere a servizio degli uomini e si trasformano in realtà che, mentre sembrano soccorrerli, li opprimono.
Alla luce di queste parole, la strada è tracciata con decisione: non c’è spazio per comode scorciatoie che consentano di convivere con il mostro: il medico, il politico, l’ostetrica, il ricercatore, il giurista, l’uomo della strada non possono collaborare alla eliminazione di vite umani innocenti, pretendendo di eluderne la gravissima responsabilità. Se una legge comporta l’uccisione di figli innocenti – come la legge 194, o come la legge 40 sulla fecondazione artificiale – a questa legge è dovuta pubblica e irremovibile obiezione di coscienza. A maggior ragione sono chiamati a questa testimonianza tutti coloro che si sforzano di essere impegnati a favore della vita umana, i cosiddetti pro life, in una società che vede prevalere nella mentalità corrente la cultura della morte. Come scriveva – con evidente eco manzoniana – il cardinale arcivescovo di Milano Giovanni Colombo: “Rispettate la vostra coscienza e non traditela mai, perché viene poi il momento in cui bisognerà rendere conto di tutto.” Nessuno pretende di contrabbandare questo impegno come cosa facile: è al contrario fatica quotidiana, espressione di un vero e proprio martirio feriale.
Noi però amiamo pensare che ancora oggi, a distanza di cinque secoli, sia possibile affermare ciò che Tommaso Moro scrisse nel 1535, prima di essere messo a morte per il suo rifiuto di aderire allo scisma d’Inghilterra:
“Un uomo può essere decapitato senza gran danno, anzi con suo indicibile bene e felicità per l’eternità”.
*Filosofo del diritto
Perfezionato in Bioetica presso l’Istituto ISSR di Milano
Docente presso la Facoltà di bioetica UPRA di Roma
Docente di Filosofia Teoretica, Università Europea di Roma
Membro Comitato Etico Asl Milano 3
Presidente Comitato Verità e Vita
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