Categoria: 2008 – Diritti proclamati, Diritti negati

2008 – Diritti proclamati – Diritti negati

Era il 10 dicembre 1948, quando l’Assemblea Generale dell’ONU stilava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Sono trascorsi sessant’anni e se ne sono viste di tutti i colori. Ma la prima osservazione che ci viene è proprio sul 1° articolo del testo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.”
Ora, a parte le tante smentite venute da ogni parte, già partire dalla nascita significa dimenticare nove preziosissimi mesi della vita di ogni essere umano. A meno che non si voglia accettare l’affermazione di S. Agostino che recita: “prima si nasce nelle viscere, perché si possa nascere dalle viscere” (Enarrationes in Psalmos 57,5). È chiaro che ogni uomo è tale perché concepito e se non lo si rispetta quando è più debole ed indifeso, prevarrà sempre la forza contro la debolezza.
Ci piace qui citare un brano dell’enciclica di Giovanni Paolo II ‘Evangelium Vitae’:
“Dall’altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell’affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d’accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell’anziano, dell’appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di «con-viventi», le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi.” (EV 18)

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I diritti naturali nella dichiarazione: contesto storico giuridico – Mauro Ronco

Nel decennio degli anni ’70 le Corti supreme degli Stati Uniti dell’Austria, della Francia, della Repubblica Federale tedesca, dell’Italia si pronunciarono sul tema dell’aborto, che era previsto in precedenza come illecito penale in tutti gli Stati di tradizione occidentale, sia di Common Law che di Civil Law. La Corte Suprema degli Stati Uniti nel procedimento Roe ed altri contro Wade, deciso con la sentenza 22 gennaio 1973 (estensore Giudice Harry Blackmun), dichiarò la contrarietà alla Costituzione degli statuti del Texas che vietavano l’aborto ad eccezione dei casi in cui si trattasse di “aborto procurato o tentato in seguito a consiglio medico allo scopo di salvare la vita della madre”. Con tale sentenza la Corte ha riconosciuto alla donna il «diritto» di abortire come contenuto del diritto alla privacy di cui al XIV emendamento della Costituzione. Invero, il diritto di privacy sarebbe abbastanza ampio da comprendere la decisione di abortire. Tale diritto, peraltro, non sarebbe assoluto e soggiacerebbe a talune limitazioni, sì che, almeno ad un certo punto, l’interesse statale alla protezione della salute, dei canoni medici e della vita prenatale, diverrebbe dominante. Nella motivazione della sentenza la Corte suprema ha ritenuto che tale diritto, che lo si voglia fondare sul concetto di libertà personale ovvero sulla limitazione dell’attività statale – opinione quest’ultima accolta dalla Corte Suprema – è talmente  ampio da comprendere la decisione di una donna di porre fine o no alla propria gravidanza. Infatti, ad avviso della Corte, sarebbe manifesto il detrimento che lo Stato imporrebbe alla donna gestante col negarle questa scelta. Potrebbe da ciò derivare “un danno specifico e diretto diagnosticabile in sede medica anche nel primo stadio della gravidanza. La maternità, o l’ulteriore prole, potrebbero costringere la donna ad accettare la vita ed un futuro penosi. Essa potrebbe riceverne un danno psicologico a breve scadenza. La cura del figlio potrebbe mettere alla prova la sua salute mentale e fisica. C’è inoltre la pena, per tutti gli interessati, che si accompagna al figlio non voluto, e c’è il problema di immettere il bambino in una famiglia già incapace, psicologicamente e sotto altri profili, di occuparsi di lui. In altri casi come in questo che ci occupa, possono essere coinvolte le difficoltà ulteriori e il marchio permanente della maternità in chi non è maritata”. Secondo la Corte americana, tuttavia, il «diritto» ad abortire, contro l’opinione della ricorrente, non è assoluto, in quanto lo Stato potrebbe affermare “importanti interessi a proteggere la salute, a mantenere determinati canoni medici, e a proteggere la vita potenziale”. Questi interessi, ad un certo punto della gravidanza, diventerebbero “abbastanza pressanti da giustificare la disciplina dei fattori che governano la decisione di abortire”.

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