Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per avermi invitato a tenere questa relazione. E sono molto lieto ed insieme onorato perché, al di là della quantità, che costituisce pur sempre un fattore di cui tenere conto, è la qualità l’elemento principale, quello che conta di più. In questo caso sono le motivazioni alte e forti che animano le persone qui presenti e le spingono ad interessarsi e ad agire a favore di una causa così fondamentale come la difesa della vita umana, in qualunque stadio o condizione, quelle che arricchiscono di particolare valore un quotidiano impegno, molto meritorio, ancorché non sempre facile e agevole proprio per le incomprensioni da cui è circondato o per l’avversione ideologica con cui viene spesso combattuto.
La mia relazione si propone di offrire, per quanto mi sarà possibile, un’analisi delle condizioni culturali e filosofiche che costituiscono il contesto di quelle posizioni che, riguardo alla vita, oggi sono molto diffuse e condivise, fin quasi a divenire un comune sentire, veicolate sui giornali o diffuse attraverso la radio o le prese di posizione televisive. Esse attengono a tutte le fasi dell’umana esistenza, dalla nascita, che o si vuole talora impedire attraverso l’aborto o talaltra si vuole artificialmente produrre mediante la fecondazione extracorporea, sino alla morte, alla quale ci si vorrebbe avvicinare con il proposito di decidere in proprio, autonomamente, le condizioni e il momento. E, per arrivare a queste conclusioni, si fa frequentemente ricorso ai casi limite, che pure esistono, ma non devono venire eretti a regola, né vanno indebitamente generalizzati, per trarre da essi conseguenze indebite; tuttavia, questi casi sono molto sfruttati giacché suscitano immediatamente un senso di pietà, di commozione, quasi di solidarietà, prevalentemente giocata sulle emozioni. Partendo da questi casi, si cerca poi di proporre delle tesi che sono inizialmente opinioni teoriche e punti di vista, poi pian piano diventano proposte di legge e leggi approvate, per trasformarsi, alla fine, in diffuso senso comune. E allorché questo si afferma, diventa poi assai difficile pensare di revocare o modificare quella legge, sostenuta da un largo consenso di opinione pubblica, che spesso non ammette discussione o distinzioni. Si prenda, ad esempio il caso della pena di morte e quello dell’aborto: in entrambi i casi si ha la soppressione di una vita, non innocente nel primo caso, innocente nel secondo. Oggi la convinzione largamente condivisa, al punto da non dover essere neppure discussa o argomentata, è nettamente contraria alla pena di morte, e ha perciò condotto a una campagna vittoriosa, mirante a eliminare la pena di morte da gran parte delle legislazioni del mondo, mentre rimane favorevole, o simpliciter o ad alcune condizioni, all’aborto, interpretato come un diritto della madre nei confronti del feto, cosicché le leggi permissive dell’aborto ben difficilmente hanno incontrato restrizioni, ma, specie negli anni passati, ben più facilmente hanno subito modifiche tendenti ad ampliare i casi consentiti. Risulta decisivo, in molti casi, il clima culturale che si è riusciti a creare su un certo tema o su una questione avvertita in modo particolarmente vivace; e questo clima viene anche determinato (e non solo vagamente influenzato) da precise convinzioni di natura filosofica. Queste agiscono in modo lento e spesso inavvertito; procedono attraverso percorsi sottili e carsici; tuttavia, il fatto che passino inosservate, non implica che abbiano scarso peso, ma garantisce loro un’efficacia maggiore e un’influenza penetrante, tale da non incontrare particolari resistenze o antidoti mirati. Certamente le prospettive teoriche e astratte conseguono il loro successo, ricorrendo a fattori emotivi, richiamando, come si è accennato, casi limite e situazioni obiettivamente drammatiche, che possono anche toccarci molto da vicino; ma le sole emozioni facilmente si attenuerebbero e svanirebbero se, a loro sostegno, non ci fossero solide, più antiche e consolidate visioni del mondo filosofiche, etiche o antropologiche.
E’ su questa base più schiettamente filosofica che vorrei richiamare, nelle mie riflessioni, l’attenzione.
Un’incoerenza di fondo
Un primo punto sul quale mi vorrei soffermare tende a mettere in luce un’incoerenza di fondo che affligge la nostra società, innanzi tutto quella occidentale, ma anche quella orientale, nelle sue varie forme e tradizioni, almeno per quel tanto che ha accolto le tecniche e lo stile di vita tipico del mondo occidentale. Da un lato, assistiamo a una difesa strenua della vita umana, della sua autonomia piena e quasi assoluta, della sua qualità che deve essere gratificante e totalmente appagante, della libertà cui si assegnano le decisioni fondamentali, ivi incluse quelle sulla stessa vita. Non si accetta più che la difesa della vita sia rivolta solo alla vita innocente, ma si pretende che tutta la vita, ogni vita, anche quella colpevole e apparentemente più abietta, vada assolutamente potenziata, recuperata e portata sempre alla sua massima fioritura. Giustamente, e con grande e lodevole sentimento di umanità, si è preoccupati della rieducazione di ogni reo, si propongono pene alternative al carcere, si vede nella limitazione della libertà una lesione incompatibile con la dignità di ogni essere umano, colpevole o innocente. Si diffonde così una posizione molto garantista sulla vita umana, mirante comunque a proteggerla e a difenderla anche quando, per altri aspetti, magari assai gravi, potrebbe apparire pesantemente colpevole. Questa posizione sembrerebbe implicare una volontà di tutela della vita umana dal suo concepimento alla sua fine naturale, senza la pretesa di manipolazioni artificiose o il desiderio di disporne a proprio arbitrario giudizio. Invece le cose stanno molto diversamente: e questo costituisce proprio l’altro lato della nostra riflessione. Infatti, si accetta l’aborto per salvaguardare la salute della madre, quasi applicando sempre e comunque un principio esteso ed eccessivo di legittima difesa, o si accoglie la possibilità di clonare e produrre embrioni, che poi sono persone, al fine di favorire la ricerca scientifica o di disporre di materiale organico per curare malattie di altre persone. Naturalmente si esclude di voler dar vita a nuovi esseri umani: ci si rifugia nella constatazione che si intenderebbe comunque interrompere il processo di crescita embrionale ai primi stadi oppure che si tratterebbe di utilizzare embrioni sovrannumerari, congelati e, quindi, destinati a sicura eliminazione; ma si dimentica che queste entità, variamente denominate, sono esseri umani e che, comunque, se ne prevederebbe tranquillamente un utilizzo strumentale a presunto vantaggio di altri uomini. In questo secondo caso, quella difesa a oltranza, prima delineata, viene del tutto meno e quasi non ci si pone neppure il problema, o lo si risolve subito in modo assai facile, se quel fenomeno vitale, alle prime fasi della sua esistenza, non sia già un essere umano, meritevole di assoluto rispetto. Neppure si adotta una posizione tuzioristica, consistente nel principio di precauzione, per cui, nel dubbio che di un essere umano veramente si tratti, ci si deve astenere da ogni intervento lesivo della sua integrità e della sua eventuale dignità.
Un analogo atteggiamento si assume nei confronti della vita al momento della sua conclusione: qui, al posto di richiamarsi all’utilità di certe pratiche al fine di raggiungere determinati scopi terapeutici, si invoca un altro concetto, quello di dignità, e si afferma che, quando un essere umano perde, appunto, la sua dignità, a causa di malattie croniche, particolarmente debilitanti, può essere legittimo provocarne la morte, al fine di esaudire un suo desiderio, eventualmente espresso in epoca antecedente, o anche allo scopo di meglio utilizzare le risorse pubbliche, sempre scarse, a favore di altri uomini in condizioni di salute comparativamente migliori. In che cosa consista questa dignità non sempre si dice con chiarezza: talvolta si fa riferimento alla qualità della vita, altre volte si vede nell’autonomia un ingrediente indispensabile, in mancanza del quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. In ogni caso, si dimentica troppo spesso che la vita può avere, in epoca diverse, differenti forme di qualità appetibile e che l’autonomia non è mai, comunque, assoluta e completa. La vita diventa allora un bene disponibile, del quale ogni essere umano può decidere la fine, provvedendovi in proprio o delegandone la realizzazione ad altri, i cosiddetti tutori o esecutori di un testamento di vita anticipato, ove si fosse incapacitati.
Quindi nella società attuale c’è sicuramente una forma di incoerenza di fondo, di schizofrenia antropologica o etica, che tuttavia viene percepita come qualcosa di assolutamente naturale, anzi come l’esercizio di un normale diritto.
Le condizioni culturali
A questo punto vorrei porre un quesito di fondo: quali sono le premesse teoriche più immediate che stanno dietro a questo duplice atteggiamento, secondo il quale sempre della dignità dell’uomo si tratterebbe, dell’uomo che, nonostante sia reo, va garantito e tutelato, e dell’uomo, la cui autonomia e la cui capacità di intervento potrebbe consentirgli sia le sperimentazioni più ardite sul fronte della procreazione, sia le decisioni eutanasiche più nette per anticipare la morte. All’accusa di incoerenza molti nostri contemporanei risponderebbero che in tutti i casi viene difesa la stessa dignità e la stessa autonomia: proprio perché sta a cuore la qualità della vita, questa va tutelata sempre, sia allorché si invoca la protezione da soprusi ed efferatezze, sia quando si accettano sperimentazioni anche ardite per prevenire malattie altamente debilitanti, sia quando si impedisce la nascita di chi sarebbe destinato a un’esistenza infelice, sia quando si prende atto che le condizioni minime per un’esistenza veramente umana sarebbero venute meno e si cerca l’eutanasia.
A questo punto ci si deve chiedere che cosa si intenda, nella prospettiva che ora ho indicato, allorché si parla di utilità, di diritto e di vita in questo contesto? Credo che le premesse teoriche, a cui si fa riferimento siano queste: da un lato, l’affermazione dell’autonomia e della libertà dell’uomo più piena per quanto riguarda tutte le azioni cosiddette “private”, che cioè non coinvolgono altri, intendendosi per “altri” solo gli individui, a loro volta, consapevoli, autonomi, consenzienti, liberi e capaci di interagire in un determinato contesto sociale. In questo ambito le mie scelte non vanno giustificate, poiché sono esclusivamente oggetto di opzioni arbitrarie e, in ultima istanza, soggettive.
D’altro lato, si sostiene la tesi per cui – e qui il progresso della scienza certamente viene certamente sfruttato, anche se in modo incongruo – tutto ciò che scientificamente e tecnicamente è possibile, diventa moralmente lecito. Quindi se una tecnica, una pratica oggi è resa possibile dallo sviluppo della ricerca ed è utilizzabile per il miglioramento della mia esistenza, allora diventa lecito applicarla, sempre che non arrechi sofferenze o danno ad altri esseri umani miei simili. Quindi ciò che la scienza ha realizzato produce progresso; ciò che produce progresso o è frutto di progresso è utile alla mia vita; ciò che è utile o può essere utile alla mia vita, in particolare alla mia esistenza privata, è moralmente buono e accettabile. Questa equivalenza tante volte viene accolta e diffusa, quasi fosse un patrimonio della comune saggezza. Ad essa si connette la difesa dell’assoluta libertà della ricerca scientifica, cosicché questa non può incontrare alcun limite o venire sottoposta ad una valutazione di natura morale. Certamente va osservato che la libertà di ricercare è una delle libertà più grandi che un uomo abbia, perché è uno dei modi con cui si esplica la possibilità di conoscere, di ricercare, e di ricercare la verità. Tuttavia non va dimenticato che oggi, soprattutto quando ci si avvicina all’essere umano, la libertà ricerca scientifica implica sperimentazioni e manipolazioni, che non sono più così teoriche e neutre, come un tempo potevano essere gli esperimenti di un fisico agli inizi della scienza moderna; pertanto, al pari di tutte le attività umane, sono giudicabili moralmente. Del resto, anche se io, per una riflessione filosofica molto intensa e molto urgente, dimenticassi di aiutare un mio famigliare o una persona che ha urgente bisogno di me per sopravvivere, benché la ricerca filosofica sia nobile e abbia un valore intrinseco molto elevato, in questo caso io commetterei sicuramente un’azione moralmente scorretta. Invece, oggi, è diffusa la convinzione che non bisogna porre limiti alla ricerca scientifica, poiché essa godrebbe di un primato capace di trascendere ogni ulteriore valutazione morale.
Una terza convinzione, ben presente in molti manuali di bioetica oggi, consiste nella tesi per cui la persona da tutelare sarebbe solo colui che ha già una sua autonomia, una capacità di relazione, una chiara coscienza di sé. In questa prospettiva, la persona allo stadio embrionale sarebbe solo un progetto di vita e, al termine della sua esistenza o in presenza di gravi alterazioni patologiche, di natura permanente, non avrebbe più alcun valore per cui possa ancora meritare tutela, giacché sarebbe ormai incapace di futuro. Se, allora, in certi stadi della sua esistenza, l’essere umano non fosse più tale, certamente non si sarebbe incoerenti con le proprie idee di difesa della vita, qualora non lo si trattasse più da essere umano. Il problema però è un altro, e spesso viene ignorato o sottaciuto: è proprio vera l’affermazione che solo a certe condizioni e a un certo livello compare l’essere umano, cosicché ci sarebbe un momento in cui l’essere umano non è ancora e ci sarebbe un altro momento in cui egli non sarebbe più tale, o non si dovrebbe piuttosto dire che si ha, dal concepimento alla morte, una continuità di evoluzione e sviluppo coerente e graduale? L’uomo non è riducibile alle funzioni che, magari solo in certi momenti, è in grado di espletare, né la sua struttura ontologica di fondo non può essere ridotta alle condizioni in cui egli è chiamato a operare
Un ulteriore atteggiamento, oggi molto condiviso, contrappone la sacralità della vita alla qualità della vita. La vita cioè sarebbe meritevole di tutela solo se realizza un livello ottimale o almeno accettabile. Indubbiamente nessuno di noi vuole negare che la vita abbia una qualità e una dignità intrinseca; però oggi, quando si parla di qualità della vita, che cosa si intende? Per lo più si pensa a certi parametri di riferimento, come l’efficienza, la bellezza, la salute, l’autonomia, il controllo del proprio corpo, che forse in un certo periodo dell’esistenza ciascuno attua, ma probabilmente senza raggiungere mai il livello massimo e ottimale. Spesso tali modelli sono indotti da una certa cultura vittima della pubblicità e dimenticano che le diverse età della vita hanno, come già si è detto, forme di qualità differenti, e tutte diversamente apprezzabili. Ma tali atteggiamenti sono così abilmente e sottilmente indotti, che riescono a far sì che lo stesso interessato si senta come non più idoneo alla vita, cosicché egli sembra quasi invocare una fine, appunto, dignitosa. Invece il tema della qualità della vita va integrato e correttamente affrontato. La qualità della vita non è affatto in antitesi con la sacralità della vita: la vita deve essere valorizzata e rispettata in tutte le sue molteplici, varie, irriducibili dimensioni. C’è più valore in ciascuna dimensione della vita umana, così come si manifesta, che non nelle nostre possibili catalogazioni dettate dalle mode del momento. Occorre, cioè, sottolineare la qualità della vita in tutta la sua più ampia gamma di possibilità, di tonalità, di aspetti: quasi fosse una sinfonia molto varia e molto bella. Se si esalta unilateralmente la qualità della vita, si corre il rischio di isolare solo un aspetto, che magari si realizza in un solo momento della nostra esistenza, quando si è giovani, ma forse neppure in quel caso, perché ci sono giovani che soffrono, giovani che pur non soffrendo non realizzano tutti quei parametri e i canoni che certi modelli propongono; e, isolatolo e ipostatizzatolo, affermare che in quell’aspetto è concentrato tutto il senso dell’essere umano. Chi non potesse realizzarlo, non potesse ancora o non più, sarebbe escluso dalla tutela, poiché deprivato di una vita degna. Peggio: sarebbe lui stesso a sentirsi inutile, di peso, e quasi a invocare l’eutanasia. Si tratta di un processo ideologico del tutto analogo a quello che Nietzsche descrive, allorché, in un contesto del tutto diverso e con finalità addirittura opposte alle nostre, tratta del risentimento come radice della costruzione delle morali. Il risultato consisterà nel vedere un gesto di amore in un gesto che dà la morte; attraverso un processo lento di avvelenamento dell’animo, di cui si è fatti oggetto mediante una propaganda intensa, si è portati a invocare, alla fine, un atto di amore che coinciderebbe con un dono di morte. E quindi si ha il paradosso che, per altruismo e per amore, veniamo indotti a chiedere misure o procedure che con l’amore o l’altruismo non hanno nulla a che fare; cosicché si arriva persino a usare espressioni come queste: “l’eutanasìa è un gesto d’amore” oppure “è un atto estremo di un amore esigente, che spinge in direzioni che non sono usuali”.
Condizioni filosofiche
Una prima condizione filosofica di quanto precedentemente detto è posta dal sostanziale relativismo diffuso nella nostra cultura occidentale. Spesso oggi leggiamo che la società contemporanea è caratterizzata dalla presenza in essa di un politeismo dei valori: i punti di vista valoriali sono molti, sono spesso in conflitto, non formano una sinfonia, né si verifica una convergenza verso un unico fine. Questo è un dato di fatto; però, dietro a questa affermazione che sembra puramente descrittiva, c’è un’altra convinzione: il politeismo dei valori porterebbe a dire che tra questi valori, che si escludono e sono in conflitto fra di loro, fra queste gerarchie di valori irriducibili e contrapposte, non si può stabilire alcuna gerarchia o alcuna esclusione; essi alla fine sarebbero tutti equivalenti.
Detto in altri termini, si afferma non tanto un politeismo di valori, cioè una pluralità di punti di vista, ma una forma di relativismo; se per ciascuno il suo punto di vista è quello valido, decisivo, allora non si cerca di argomentare quale sia più giusto, quale sia meno inadeguato, quale sia più aderente alla natura umana, alla verità delle cose. Rinunciando alla verità, si cerca solo di trovare il modo con cui queste contrapposte gerarchie di valori possano convivere tra loro senza esercitare oppressione o violenza le une sulle altre. Invece di chiedersi quale sia la prospettiva vera e giusta, ci si domanda come i diversi punti di vista possano convivere senza generare una guerra di tutti contro tutti, ma producendo semmai una competizione degna di un mercato delle idee. Alcune correnti della filosofia del diritto contemporanea affrontano proprio questo tema: come in una società con molte concezioni del bene, diverse, contrapposte e irriducibili, si possa vivere senza che tale società viva in perenne guerra civile.
Quando oggi, ad esempio, si affronta il tema del multiculturalismo, spesso lo si vede già in questa prospettiva. In Europa convivono etnie, culture diverse, che sono tutte equivalenti; quindi non si può scegliere, non se ne può proporre una come modello, perché questo equivarrebbe a privilegiarne una contro un’altra. Dalla tesi, del tutto corretta, per cui nessuna cultura deve essere oppressa si passa alla tesi, per nulla equivalente, secondo cui esse sarebbero tutte equivalenti, quindi tutte egualmente valide ed egualmente vere.
Una seconda condizione rilevante è data dalla la secolarizzazione, e cioè una cultura che sempre di più ha fatto a meno di ogni riferimento, ontologico ed etico, alla trascendenza, a una dimensione non empirica, non diveniente, divina; e addirittura ne prescinde, nell’intento di governare la società come se Dio non ci fosse. Si afferma la convinzione per cui l’uomo in tanto vive, in quanto muore ogni dimensione trascendente e divina. Iddio viene visto non come creatore e finalizzatore dell’uomo e del mondo, condizione affinché l’uomo realizzi sé stesso in pienezza, ma colui che è in concorrenza con l’uomo, e nemico dell’uomo. Se l’uomo si afferma, allora Dio deve morire. E anche qui assistiamo alla conclusione di una storia che dura da molti secoli, da quando si è pensato che il riferire l’uomo a Dio e il vedere in Dio il fine della vita umana, quindi l’origine dei valori e dei doveri che l’uomo deve rispettare, volesse dire violare l’autonomia dell’uomo. Si è dimenticato quell’insegnamento che ci veniva dalla filosofia medioevale, da san Tommaso , per cui il rinvio dell’uomo a Dio non è la dipendenza dello schiavo dal padrone, che gli è estraneo e nemico, ma è il ritorno della creatura a quel Creatore, che l’ha creata secondo un progetto di amore, cosicché la creatura realizzando quel progetto non fa solo la volontà del suo padrone, ma realizza se stessa. Questa dimensione di autonomia all’interno del disegno creaturale e salvifico è stata dimenticata da una filosofia, che considera l’autonomia dell’uomo come antitetica a Dio. Quando si dice ‘sia fatta la volontà di Dio’, non si dice ‘sia fatta la volontà di colui i cui disegni non conosco e che mi snaturano’, ma di Colui i cui disegni non conosco fino in fondo, ma – lo so per fede – sono disegni che mi realizzano pienamente nella mia più intima natura.
Dalle precedenti premesse segue che la vita viene apprezzata solo nella misura in cui sia portatrice di benessere, di piacere, di successo, cosicché il benessere, il piacere, il successo diventano i beni supremi, quelli che contribuiscono a costituire quel parametro di dignità, di qualità di cui parlavo prima. La sofferenza, il limite, la morte, sono il male assoluto da evitare a tutti i costi e da nascondere; ci si vergogna delle malattie, e non tanto perché, come forse avveniva un tempo, si riteneva che fossero un castigo divino, per cui uno, nascondendole, voleva quasi nascondere una inadempienza; quanto perché si ha a che fare con qualcosa, il proprio limite, che non si accetta e con cui non si vuole fare i conti. Ma si dimentica che il limite connota fin dall’inizio la natura umana, nonostante i grandi progressi e le grandi illusioni. Certo, ottimi sono e meritevoli gli sforzi di scienziati e di medici per togliere il dolore, attenuarlo, allungare la vita; non si intende dire che il dolore vada ricercato e le sofferenze godute; ma questo non vuol dire che il limite non ci appartenga, che la sofferenza prima o poi non arrivi. La vita umana è fatta di molti aspetti; il limite e il dolore ne costituiscono uno dei più ricorrenti, perché anche gli aspetti positivi sono sempre limitati; non riusciamo mai ad essere ricchi all’infinito, essere in salute al massimo grado; la vita umana è un chiaroscuro, e in esso anche i momenti meno brillanti e chiari conservano un intrinseco senso e valore.
Le condizioni precedenti trovano poi il loro terreno di coltura nella forte diffidenza verso ogni prospettiva metafisica, ogni prospettiva in cui la ragione in qualche modo, senza ergersi a misura della fede, sia vista come una facoltà valida per offrire sostegno e plausibilità alla fede, per far vedere che la fede non è qualcosa di assurdo che snatura l’uomo, ma qualcosa che viceversa lo realizza e lo completa. Tale diffidenza purtroppo è condivisa anche da molti credenti, i quali pensano che, in tal modo, la ragione non abbia più pretese indebite, non cerchi più di controllare la fede, ma lasci libero spazio alla volontà di credere. In effetti, non ci si accorge che questa è una vittoria di Pirro, perché si corre seriamente il rischio è la fede diventi uno dei tanti gusti che si possono avere, una delle superstizioni che si possono coltivare in privato, ma delle quali poi, di fronte alla razionalità pubblica, sia meglio vergognarsi. I vecchi ‘preambula fidei’, quegli argomenti che rendevano plausibile l’atto di fede, in quanto facevano vedere che la fede non era contro la ragione, ma profondamente razionali, erano molto validi perché mostravano che le indicazioni della fede non sono le indicazioni a cui dà ascolto chi abdica alla propria natura, ma indicazioni che segue proprio chi vuole realizzare pienamente se stesso.
Inoltre, connesso con il precedente è il rifiuto, assai diffuso e condiviso, di una natura umana. Questa implica plasticità e creatività, giacché l’uomo non è un animale governato solo dall’istinto e dalle esigenze della specie, ma è consapevole, libero, responsabile; tuttavia, sono alcuni punti, alcuni paletti, che nessuna plasticità e nessuna libertà può toccare, o meglio se li tocca fa male e pecca. Detto in altri termini, c’è una natura umana sulla quale si fondano doveri, valori, divieti, che non dipendono dal mio gusto, dalla situazione culturale di una certa epoca, ma hanno un valore oggettivo e quindi una validità, indipendente dai gusti o dal fatto che uno l’apprezzi, la conosca o meno. Il riferimento alla natura umana è in grado di fondare la dignità della persona su parametri non mutevoli, ma oggettivi, sui quali è possibile anche basare l’oggettivo e non mutevole rispetto per ogni essere umano, così come è possibile porre il netto confine tra ciò che è illecito e ciò che è consentito, indipendentemente da quanto poi sia anche tecnicamente possibile.
Da molti si ritiene che ci sia un’etica senza verità, anzi, che l’etica sia senza verità, giacché la verità riguarderebbe le questioni di cui si occupa la scienza, descrittive, in cui si dice il vero o il falso. Si potrebbe forse parlare di verità per quanto riguarda le questioni pubbliche, riguardanti i rapporti tra individui, tra persone, fra soggetti, fra istituzioni, poiché anche qui si potrebbero formulare affermazioni argomentate, quindi tendenzialmente vere o false, ma per quanto riguarda l’etica, cioè le scelte mie, private, che non coinvolgono necessariamente gli altri o le istituzioni, qui saremmo affidati unicamente gusti. Al massimo, potremmo ricorrere a un discorso di utilità, cosicché ogni azione sarebbe buona o cattiva solo in considerazione delle sue conseguenze prevedibili, soprattutto nei riguardi degli altri. Se io faccio un’azione che danneggia qualcuno, allora la mia azione non è buona. Quando si dice qualcosa è utile a me o agli altri perché non lo danneggia, vuol dire non gli propone dolore. Alla fine l’unico parametro per dire se un’azione è lecita o no è dato dal fatto che procuri o non procuri dolore fisico. Ma anche l’utilità potrebbe portare a un discorso avente valore di verità: per cui, chi sostiene che l’etica non ha verità, sull’etica non si possono fondare divieti o prescrizioni.
Da questo rifiuto di una prospettiva metafisica e di una concezione oggettiva del valore segue allora che la tolleranza, il rispetto dell’altro siano visti come sinonimo o effetto del relativismo. Solo se io sono un relativista, solo se io rifiuto ogni giudizio di valore assoluto, posso veramente tollerare l’altro e dialogare con lui. Anche qui si assiste a uno snaturamento del concetto di tolleranza rispetto alla sua istituzione originaria. La tolleranza non è più il rispetto riconosciuto a ciascun uomo come ente responsabile e razionale per il cammino che egli intraprende nella ricerca della verità, ma pone nel relativismo la sua prima condizione di possibilità; se non c’è alcuna verità assoluta, nessuno può pretendere di possederla e di imporla. Allora, in questa prospettiva, la condizione della tolleranza e del rispetto starebbe proprio nel rifiuto della verità, e alla fine nel rifiuto di una delle condizioni stesse della tolleranza.
Infine, una posizione filosofica che sta un po’ alla base di tutte queste tesi è un certo dualismo nella concezione dell’uomo, qualche volta condiviso anche da noi cristiani, tanto più quando vogliamo essere più nettamente spiritualisti. L’uomo avrebbe una dimensione spirituale, quella autentica, quella vera, più profonda, quella che ci porta fare le cose più belle, e poi, purtroppo, anche la dimensione corporea. Il rischio di questa posizione, che sembrerebbe gratificare, garantire, cautelare lo spirito contro l’inquinamento della materia, è proprio quella prospettiva che poi consente che al corpo – che poi è quello che vediamo di più e quindi siamo tentati di vedere come quello veramente esistente – si possa fare tutto quello che si vuole. Questa prospettiva dualistica – la mente da una parte, il corpo dall’altra – porta a esiti non accettabili.
Allora in questi contesti quali prospettive costruttive possono delinearsi? Uno potrebbe dire: ma se la cultura che ci circonda è solo questo, ci sono poche speranze. E se questa cultura alimenta un senso comune, un’opinione diffusa che poi aiuta certe scelte legislative, le nostre azioni sarebbero sì meritorie, ma destinate a pochi risultati. Io credo che invece molte possibilità ci siano per un motivo: certamente questa cultura è molto forte, sostenuta, anche da mezzi di diffusione e quindi ha effetti rilevanti, che spesso si insinuano senza volerlo e con le migliori intenzioni anche fra cattolici, che in perfetta buona fede condividono l’aria che respirano. Io credo che la forza per reagire stia proprio nelle motivazioni di persone che credendo e vivendo certi valori, possono costituire un esempio contrario, costruttivo e positivo come eccezione che può produrre e che sa produrre frutti evidenti. Io non credo che a una cultura di morte si possa opporre solo una confutazione teorica. Questa è necessaria, certo, perché la consapevolezza teorica aiuta, alimenta, in qualche modo sostiene una motivazione, un’ideale, un amore. Però credo che la semplice confutazione teorica non ponga mai gesti di positività, non credo che due negazioni affermino dal punto di vista della vita effettiva. Occorre insieme alla presa di coscienza dei limiti di una certa cultura, che si realizzino, ci siano, si diffondano posizioni positive, perché soltanto dalla positività che già c’è può nascere una consapevolezza, una conoscenza anche teorica che può diffondersi. Posizioni condivise non soltanto a livello teorico, ma vissute. Parlo a persone che questa attività fanno, e non soltanto dicono o predicano. Perché molte volte il limite di tante nostre posizioni è dato dal fatto che si tratta di difese teoriche, che rischiano di scontrarsi con i casi limite: questi sono teoricamente spiegabili, perché si può benissimo chiarire come l’unico esito possibile di quei casi limite non sia quello che l’abortista o il difensore dell’eutanasia propone; tuttavia, molte volte le nostre argomentazioni non hanno quella forza trascinatrice che l’esempio, anche sul piano emotivo, comporta. La convinzione teorica è necessaria e vale moltissimo, ma vale come la filosofia, che offre la comprensione concettuale di qualcosa che c’è, non produce qualcosa di nuovo. Solo atti di amore effettivo, di pratica effettiva, di convinzione vissuta e motivata, positivi, di cui poi si è consapevoli, producono esempi che anche sul piano emotivo, reale, trascinano. Le convinzioni e i mutamenti di convinzioni possono avvenire in molti modi: uno si può convincere anche con un bel ragionamento. Il più delle volte però la convinzione, la conversione avviene perché ci sono esempi che trascinano. La testimonianza importante che si può dare oggi – rispetto a questa cultura – consiste anche in una consapevolezza maggiore; è giusto che ci siano libri, nei quali si scriva che la vita umana non comincia solo in un certo momento, che la dignità della persona non dipenda soltanto dall’essere ricco ecc., che l’autonomia, la bellezza e così via sono solo alcuni degli aspetti per cui la vita umana è degna. Tutto questo va fatto perché ci chiarisce le idee – e la chiarezza delle idee è sempre importante, perché sostiene l’azione; però questo solo lavoro, senza una forte testimonianza motivata e pratica, rischierebbe di offrire solo una parte, ma non tutto. E soprattutto rimarremmo esposti a quelle invocazioni di aiuto, di accoglienza, di accompagnamento, rispetto alle quali l’aborto e l’eutanasia sono risposte pratiche, indebite, ma sentite come le uniche possibili. Io credo che alle provocazioni teoriche della cultura della morte si debba rispondere sul piano teorico certamente, ma nei molti casi concreti, in molte situazioni dalle quali viene fuori questa invocazione, come se fosse di liberazione, non si può rispondere con un trattato. Sarebbe una risposta inadeguata e non cristiana. Si risponde con atti di amore concreto e di testimonianza vera e vissuta. Certo, sostenuti anche dalla consapevolezza teorica, ma animati da un amore e da una grazia che quella componente teorica soltanto non può da sola giustificare. E questo lo dico proprio come filosofo; sono sicuro che in questo modo non diminuisco il valore della filosofia, della riflessione filosofica, che è necessaria per capire ciò che si fa; essa, però, è una condizione necessaria ma non sufficiente, soprattutto non sufficiente per affrontare quei casi concreti, a cui quelle argomentazioni in maniera spesso scorretta si appellano per trovare un appiglio concreto.
Rispetto a quella cultura la cui diagnosi ci scoraggiarebbe – per la diffusione, per l’imponenza dei mezzi che ha – la risposta sia duplice: da un lato, una prospettiva di maggiore conoscenza, consapevolezza, cultura, filosofia; ma, insieme, una vita più motivata, più dedita agli altri, in cui la predica dell’altruismo non sia il modo per nascondere una pratica che quell’altruismo tradisce. Credo che unire la dimensione conoscitiva alla testimonianza concreta sia il modo migliore, più vero, ma anche più capace di agire e di convincere, per affrontare una cultura che altrimenti scoraggerebbe. Ma naturalmente al fondo di tutto, quando si parla di amore e di grazia, sappiamo che non c’è solo l’azione umana; c’è, inizialmente, una iniziativa divina, ed è su questa che si poggia la nostra forza, e anche il nostro ottimismo.
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1. Alcuni caratteri della situazione attuale riguardo alla vita umana e alla sua difesa:
a) incoerenze tra la difesa assoluta della vita umana, anche non innocente (lotta contro la pena di morte) e il consenso dato a forme di eliminazione della vita umana;
b) accettazione dell’aborto, della possibilità di eliminare embrioni, cioè persone umano allo stadio embrionale, o di utilizzarli e manipolarli ai fini della ricerca, per la fecondazione artificiale o clonazione, sia pure intesa solo a scopi terapeutici di determinate malattie;
c) accettazione che, in taluni casi, la vita umana sia priva di intrinseca dignità, non sia più sopportabile, così da diventare disponibile per chi potrebbe decidere di porre fine alla propria esistenza o, nel caso di incapacitazione, di delegare altri a farlo.
2. Premesse teoriche immediate:
a) tutto ciò che scientificamente e tecnicamente è possibile, è anche moralmente lecito;
b) primato della libertà di ricerca scientifica, cui si attribuisce spesso un primato quasi assoluto;
c) convinzione che persona umana inizi dopo un certo periodo dal concepimento o sia l’esito di un processo abbastanza lungo e complesso, implicante lo sviluppo di certe strutture cerebrali, forme di interazione con gli altri, ecc.;
d) spesso tale opinione viene giustificata solo allo scopo, esplicitamente ammesso, di permettere forme di manipolazione o sperimentazione scientifica;
e) contrapposizione tra sacralità e qualità della vita e interpretazione della qualità secondo parametri di salute, bellezza, efficienza, propri, forse, di un certo periodo dell’esistenza, e forse neppure di quello per tutti;
f) convinzione della disponibilità della vita umana e dell’assoluta autonomia dell’uomo nelle decisioni riguardanti la sua esistenza, che sono, in tal modo, arbitrarie, senza che si debba rendere ragione delle proprie scelte “private”.
3. Contesto e sfondo culturale di riferimento:
a) politeismo dei valori, nel senso che molteplici e conflittuali sono i punti di riferimento valoriale, senza che si possa istituire una gerarchia oggettivamente vera e universalmente valida;
b) secolarizzazione e cultura che astrae dalla trascendenza, ne prescinde o la nega esplicitamente;
c) la tendenza ad apprezzare la vita personale, solo nella misura in cui sia portatrice di ricchezza e di piaceri;
d) la valutazione del benessere materiale e del piacere come beni supremi, e, di conseguenza, il concetto di sofferenza come male assoluto, da evitare a tutti i costi e con ogni mezzo,
e) la difficoltà a fare i conti con la morte, intesa come fine assurda di una vita, che poteva dare ancora godimenti o come liberazione da una vita ritenuta ormai “priva di senso”, poiché destinata a continuare solo nel dolore.
4. Contesto e sfondo filosofico di riferimento:
a) rifiuto o diffidenza verso ogni prospettiva metafisica argomentabile attraverso prove razionali e preferenza per un approccio fideista ai problemi fondamentali della realtà, della vita e dell’esistenza;
b) rifiuto di ammettere una natura umana, avente un senso e una vocazione non suscettibili di decisioni arbitrarie, sulla quale si possono fondare valori e divieti oggettivi, e quindi avente una capacità normativa universale; si sottolinea, invece, la totale plasticità della natura umana, frutto delle decisioni creative e arbitrarie di ciascuna persona;
c) convinzione che l’etica sia senza verità, ossia che le valutazioni morali dipendano da scelte private, sottratte ad ogni possibilità argomentativa, mirante a difenderle come vere;
d) prospettiva utilitaristica in etica, in base alla quale un’azione è ammissibile solo in considerazione dell’utilità, per l’individuo o per la società, recata dalle sue conseguenze prevedibili, senza che si dia un bene e un male intrinseco;
e) concezione formalista della società, del diritto e della democrazia;
f) convinzione che la tolleranza e il rispetto dell’altro implichino almeno un certo relativismo morale e, comunque, escludano ogni forma di verità assoluta, conseguibile anche razionalmente;
g) dualismo nella concezione dell’uomo, tra una componente spirituale/mentale e una componente corporea, senza rapporto tra loro, cosicché la seconda può essere considerata e trattata in modo del tutto autonomo, alla mercé di ogni forma di manipolazione e di arbitraria disponibilità.
5. Prospettive costruttive:
a) impegno concreto e fattivo, affinché i pretesti dei casi cosiddetti pietosi scompaiano e si mostri che il rispetto per la vita è praticabile ed è compatibile con un’esistenza densa di significato;
b) far comprendere la varietà e la pluralità delle dimensioni dell’esistenza umana e mettere i luce come l’accettazione del dolore e della morte nell’esistenza umana (scorgendone il senso e il valore), non implica l’esaltazione masochista della sofferenza per se stessa o il rifiuto di terapie palliative;
c) comprendere l’importanza del richiamo alla ragione e la necessità di esercitare un pensiero critico, capace di mettere in questione le mode e i pregiudizi di un certo tempo;
d) diffondere una concezione unitaria ed olistica della persona, in cui la componente spirituale, quella psichica e quella corporea della persona sono profondamente compenetrate;
e) far vedere le incoerenze in cui certi sostenitori di aborto ed eutanasia cadono, smentendo le loro stesse convinzioni in difesa dell’uomo e dei suoi diritti.
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