Dopo trent’anni di 194: La Cultura
I fondamenti filosofici delle riflessioni che farò sul disastro culturale che la 194 ha portato in questi trent’anni al Paese e su quelli che essa rischia ancora di portare sono stati illustrati assai bene, da filosofo del diritto qual è, da Mario Palmaro. Io mi limiterò, da semplice giornalista, vale a dire da osservatore e da lettore delle cose che succedono, a presentarvi una sorta di cronaca di ciò che questa terribile legge ha provocato nella cultura diffusa degli italiani. Parlo di cultura in senso sia accademico sia antropologico. Nel secondo dei due ambiti lo sfascio di un’antica cultura umana è avvenuto con la complicità del primo, giacché in sostanza tutto ciò che una mediazione demagogica da parte dei mass media aveva seminato e fatto radicare a livello popolare è stato presto assunto dagli accademici, aggravandolo con la loro autorità. Il che è già una prima illustrazione della gravità della situazione che ora, per quanto possibile, visiteremo nei suoi dettagli.
Prendo spunto dalla XLV Settimana Sociale dei cattolici italiani, quella del Centenario1, che sì è appena conclusa a Pistoia e a Pisa e durante la quale – possiamo dire “finalmente” – è stata posta con forza, nel quadro e al centro del tema del “Bene Comune”, la questione della vita come la nuova Questione Sociale. Se ciò è accaduto credo di poter affermare che il merito è stato anche del contributo che il Movimento per la vita ha dato ai lavori tanto con un elaborato distribuito a tutti i presenti quanto con l’intervento diretto del presidente Carlo Casini.
Come tutti ricordiamo, fu papa Giovanni Paolo II a porre come nuova questione sociale, nella “Evangelium Vitae”, la difesa della vita nascente: «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora […] un’altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita […] Ad essere calpestata è una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati» (n. 5).
Non si dica che questa oppressione esisteva prima della legge 194, perché allora l’aborto procurato era una scelta individuale, della cui immoralità esisteva, se non altro la vergogna, al punto che la stessa parola “aborto” era pronunciata sottovoce, quasi fosse un’espressione sconcia. Oggi, con la legalizzazione, ciò che eufemisticamente e con parola di Antilingua, viene definita “interruzione volontaria della gravidanza” e sbrigativamente ridotta a una sigla, IVG, è una scelta culturale pubblica, una scelta eminentemente politica, del Parlamento, trasformata in un diritto delle donne. Una scelta che, dal punto di vista giuridico e costituzionale, ha introdotto nel nostro ordinamento la piena disponibilità non di una parte del proprio corpo, come dicevano le femministe (“L’utero è mio e lo gestisco io”), ma del figlio nel grembo materno. Dal 1978 il seno della madre è diventato il luogo più rischioso al mondo: secondo i dati ufficiali, lontanissimi dalla realtà, e tenendo conto dei soli aborti legali, viene abortito un concepito su cinque. Se l’Istat tenesse conto anche degli aborti precoci provocati dalla “pillola del giorno dopo” e non percepiti come tali – tra 65mila e 550.000 – più quelli causati dalla spirale – un massimo di altri 600.000, tutti dati ricavati dal dott. Angelo Filardo da pubblicazioni scientifiche firmate da studiosi abortisti –, il rischio salirebbe a numeri non calcolabili.
Fosse anche solo per questo, dovremmo dire che l’aborto ha sostanzialmente escluso, fatto sparire il Bene Comune dall’orizzonte sociale, politico, culturale della società. Vedremo tra un momento che cos’è il Bene Comune. Se ne avessimo il tempo e lo spazio dovremmo andare lontano alla ricerca delle cause. Possiamo dire, tuttavia, che si tratta di un processo che nella 194 ha avuto la sua causa maggiore e il suo punto più alto (meglio: il più basso). Un processo che si è iniziato con la cosiddetta rivoluzione sessuale, che fu un’importante elemento del “Sessantotto”, insieme con il rifiuto del principio di autorità, con la caduta del valore della maternità e della paternità, anzi della “patrimaternità” (come a me piace chiamarla nel tentativo di esprimere con una sola parola l’indissolubilità dei due concetti, anzi l’intima necessaria fusione dell’una e dell’altra) e poi con la caduta del principio di educazione, un tempo patrimonio della scuola e, nei primi anni della sua vita, anche della televisione e poi ancora – vado per schemi sintetici e incompleti – con la legittimazione della contraccezione.
Così per molti la legalità è diventata moralità, l’uccisione di una creatura tenera e innocente nel seno materno è diventata legale e, quindi moralmente giustificata e la stessa giustificazione etica è diventata valida a tutto quello che è seguito alla legge 194: la pillola abortiva RU-468, la fecondazione artificiale senza nemmeno i paletti posti per fortuna dalla Legge 40 e la sempre più insistente domanda di analisi preimpianto invasive e di legalizzazione anche delle manipolazioni genetiche, cioè della clonazione cosiddetta terapeutica.
C’è da temere che tra poco, in base al principio del diritto a morire, verrà legalizzata l’eutanasia mentre già i suicidi assistiti sono portati a esempio di dignità umana. Per fortuna non ancora in Italia, ma già in Inghilterra, a quarant’anni dalla promulgazione dell’Abortion Act (la legge sull’aborto del 1967) si sta sperimentando persino la realizzazione di una chimera uomo-bestia mentre si vanno ponendo le basi – sempre culturali, naturalmente – del capovolgimento delle “leggi restrittive” e delle “politiche pericolose, che violano i diritti umani delle donne”: in un recentissimo convegno celebrativo di quei 40 anni la questione è stata posta a Londra nei termini seguenti: “la vita e la salute sono diritti umani e. dal momento che di unsafe abortion, di aborto insicuro, si muore, il safe abortion, l’aborto sicuro è un diritto umano ed in quanto tale va promosso”. Ormai, caduto il principio universale del biblico “non uccidere”, tutto può diventare lecito. Tanto più che l’omicidio ha ormai quattro giustificazioni determinanti: il benessere della donna e la sua realizzazione in quanto tale; l’uso dell’uomo come terapia per altri uomini; l’uguaglianza tra ricchi e poveri nei “diritti” (se i ricchi hanno la possibilità di recarsi all’estero per ottenere ciò che in Italia non è concesso, è “giusto” che lo Stato offra a chi non ha le risorse economiche la possibilità di ottenere in Italia ciò che all’estero è già disponibile); infine la restituzione della dignità umana dei malati terminali o, in ogni caso, di quanti ritengono la propria vita non più degna di essere vissuta. Anche questo è Welfare.
Infatti, eliminato dalla prospettiva civile, il Bene Comune – impensabile in presenza di stragi di queste dimensioni – è stato sostituito dal Welfare, cioè dal benessere, anzi dallo Stato del benessere, della prosperità: niente di male in apparenza, si potrebbe dire, perché il benessere comprende anche molte cose giuste, ma quanto di questo tipo di società è illusorio? Tra Bene Comune e Welfare esiste una contrapposizione filosofica di fondo, la stessa che c’è tra natura e cultura, intesa qui quest’ultima non come contributo e cooperazione alla natura, ma come artificio che alla natura si contrappone. Di questo benessere, naturalmente, fa parte anche tutto ciò che abbiamo fin quei ricordato.
Già nella sua traduzione in italiano il Welfare si rivela assai lontano dall’idea cristiana di Bene Comune. Ben altra, infatti, è la sua ispirazione, fondamentalmente materialista, giacché che le sue principali preoccupazioni sono solamente economiche, riguardano il benessere materiale senza alcuna propensione per gli aspetti spirituali e antropologici della vita e dell’uomo. Si può dire, dunque, che ciò è l’effetto generale prodotto dalla crisi morale del Paese innescata principalmente dalla legalizzazione dell’aborto, che va considerato come il vulnus più grave al diritto, alla morale, alla vita familiare (almeno il 60-70 per cento degli aborti si pratica nell’ambito familiare, ma chi accusa la famiglia di essere la culla della violenza trascura deliberatamente questo dato. Si può aggiungere che, al di là delle valutazioni morali, giuridiche, religiose e umane sull’aborto in sé, la sparizione della nozione e dell’obiettivo del Bene Comune è forse il danno più grave che, sotto il profilo culturale, la 194 ha arrecato al Paese: la disponibilità della vita dell’uomo ha aperto una serie di conseguenze che non sappiamo quando e dove ci condurrà.
Occorre, a questo punto chiarire che cos’è il Bene Comune. Non si tratta di un bene indiviso, come nelle eredità o nella comunione dei beni, né della somma dei beni individuali. Il Concilio, nella Gaudium et Spes intende «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (n. 26). E il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa: «Una società che, a tutti i livelli, vuole intenzionalmente rimanere al servizio dell’essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune, in quanto bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo» (n. 1912). A sua volta il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa specifica: «Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune: il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale».
Dunque il Bene Comune ha soprattutto una dimensione etica che, come tale, ci consente di impostare la vita personale e della comunità e ci impone di ricercarlo e di realizzarlo. Possiamo affermare, con papa Paolo VI, che esso è la traduzione in termini sociali e politici della “Civiltà dell’amore”. Non per nulla esso ha al suo centro, al centro di quello che possiamo chiamare il “sistema” del Bene Comune, la persona, di cui l’aborto volontario è, invece, la negazione. La persona costituisce il primo Bene Comune. Ha detto a Pisa il vescovo, mons. Plotti: «Il primo bene comune è la persona» e il presidente della Cei Bagnasco, prossimo cardinale, ha precisato: «L’ordine delle cose deve essere subordinato all’ordine delle persone e non l’inverso».
E invece la 194 – con tutto quel che, a cascata, le è seguito – avendo spostato la persona dal centro all’estrema periferia del Bene Comune, va considerata come la ferita più profonda e più dolorosa inferta al corpo sociale e quindi non solo alle sue vittime (i figli non nati, le madri e i padri automutilatisi della maternità e della paternità, di quella patrimaternità di cui parlavamo poco fa), ma a tutti singoli cittadini.
Che cosa si sta cercando di realizzare al posto del Bene Comune? Alla sua nozione è stato sostituito, nella cultura diffusa degli Italiani il complesso – il pacchetto, si direbbe oggi – dell’artificiosa costruzione dei “beni” individuali indicati come “diritti”, come “nuovi diritti” o, infine meglio, come “diritti civili”. È questa una delle parole più usate dell’Antilingua (di cui qui non abbiamo lo spazio per occuparci2), ma di cui è possibile affermare, almeno, che è il principale strumento di trasformazione culturale e di diffusione della cultura della morte, di cui tra poco diremo3.
Con i cosiddetti “diritti civili”, infatti, dal riconoscimento dei diritti dell’uomo, che sono innati, cioè naturali (infatti lo precedono: il diritto alla vita, alla libertà, all’identità eccetera… Cfr l’art. 2 della Costituzione: «La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo») si passa alla costruzione artificiosa di diritti e di etiche nuovi (anche questa una costruzione “culturale”) che riguardano i medesimi ambiti dei diritti dell’uomo, ma li annullano o comunque vi si contrappongono.
I “diritti civili” sono, infatti, un prodotto della «filosofia del desiderio e del piacere» (Sergio Cotta: «Una forma di neogiusnaturalismo libertino […] che identifica la natura con il proprio personale modo di pensare e di sentire, anzi con la propria spontaneità ab-soluta, cioè svincolata da ogni limite»); un prodotto dell’evoluzione culturale tipica della società dell’evoluzionismo ateo-radical-darwinista, che nella propria logica ammette anche un evoluzionismo morale, un’evoluzione dell’etica; e trasforma i desideri, le facoltà, le possibilità in “diritti” su di sé e sugli altri. Sono i casi del diritto all’aborto volontario, alla fecondazione artificiale ed extracorporea umana, del “diritto a morire” sbandierato da Umberto Veronesi, cioè all’eutanasia. Ci si dimentica che i diritti sulle persone non possono esistere, giacché ridurrebbero l’uomo alla mercé altrui, fosse pure dei genitori, cioè in schiavitù, trasformandolo in oggetto.
I “diritti civili” si affacciano all’arena culturale e politica, in forma progressiva, nelle stagioni di crisi della morale e della cultura come giustificativi non della libertà, ma della licenza e dell’egoismo: di essi il primo proclamato come tale è stato, dopo il divorzio, l’aborto con la legge 194. A questo poi tutti gli altri hanno fatto seguito, unificati o contenuti nel diritto alla propria etica personale, nel principio del pluralismo etico e del relativismo che annulla ogni morale: pensiamo alla droga, all’eutanasia, alla clonazione terapeutica, al figlio sano, all’omologazione dell’omosessualità e quindi al diritto al diritto di scegliere il proprio sesso (il gender), ovvero alla negazione della propria identità e dell’essenzialità e necessità ontologiche della differenza sessuale. Si è maschio o femmina non più per nascita, ma per libera e mutabile scelta, che comprende anche le possibili (e impossibili) varianti (sempre definite “culturali”) dei due generi classici: gay, lesbiche, bisessuali, transessuali (da maschio a femmina e da femmina a maschio, con tanto di possibilità di sedere come tali in Parlamento), infine queer ovvero “bizzarri”, ultima possibilità di scelta quanto mai indeterminata. Una sigla li definisce tutti: GLBTQ.
Questo darwinismo etico, questa invasione di nuove concezioni di vita e di umanità delineano la “laicità (post)moderna”4 o “liberale”: in parole povere, ma più sincere, il laicismo, del quale la variante “moderata” cerca cinicamente e ipocritamente di “salvarsi l’anima” giustificandosi così: “Io non obbligo nessuno, ammetto che si possa essere contrari a queste scelte, ma da liberale, da “laico” ritengo che si possa, anzi si debba dare a chi la pensa diversamente la possibilità di abortire, di farsi uccidere, di generare in provetta eccetera.”
Anticipando la nozione di “Nuova Questione Antropologica”, di cui dirò tra poco, potremmo parlare di “antropologia dei desideri”: tutti “leciti”, tutti “legittimi” e “legali”, tutti “diritti”. Sennonché la laicità non può essere indifferenza. Essa è, piuttosto, attenzione, considerazione, rispetto. La giuridificazione dei desideri e l’indifferenza della cultura e della politica rispetto a qualsiasi ipotesi valoriale comportano, infatti, che lo Stato che si autodefinisce laico si riduce non già a promuovere il Bene Comune, che sarebbe, anzi è il suo fine principale, ma semplicemente a registrare quello che avviene. Uno Stato, insomma, che finge di legiferare, lascia questa funzione all’attivismo dei fermenti – chiamiamoli così – culturali e politici, di solito di ispirazione radicale, e si limita a farne il notaio. Come nel caso dei Cus, i Contratti di unione solidale, nati dall’aborto dei Dico e suggeriti dal senatore Cesare Salvi, presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Uno stato che registra e dà sanzione legale ai desideri che si autocostituiscono diritti.
Invece lo Stato dovrebbe essere, in qualche modo, come l’anima, l’intelligenza e, insieme, il “servo utile” della società. La quale, come l’umanità, non è una somma di individui senza rapporti gli uni con gli altri; è piuttosto un corpo unico, solidale, in cui gli uni dipendono dagli altri, gli uni influiscono sugli altri o ne subiscono l’influsso, in cui il bene e il male degli uni sono partecipati dagli altri. In termini di fede, i peccati o le buone opere degli uni pesano o sollevano gli altri
Per cui anche se nessuno mi obbliga a divorziare, abortire ecc., non c’è dubbio che vivere in una società permissiva e lassista, che del pluralismo etico e del relativismo fa altrettanti idoli (una società multicaotica) non è la stessa cosa che vivere in società ordinata al Bene Comune. Se ciascun individuo può dettarsi la propria etica, la società non si arricchisce, ma al contrario s’impoverisce, perché la stessa convivenza diventa impossibile, Molte etiche significano nessuna etica, nessuna possibilità di un’intesa sulle cose che contano, l’impossibilità di legiferare. Una società può essere multietnica, multiculturale, multireligiosa, come è già la nostra, se esiste un sentire comune sulle cose fondamentali: la vita, la morte, l’idea di uomo, il rispetto della verità (almeno di quella razionalmente conoscibile). Invece una società multietica è innanzitutto irrazionale e diventa una società multicaotica5 che impedisce di ragionare insieme, che blocca il dialogo tra le sue componenti. Se tutto è relativo non ci si comprende più. I sedicenti “laici” invocano a ogni piè sospinto la forza e la virtù della ragione (naturalmente anche contro la fede), ma in una situazione come quella che si è qui descritta e verso la quale ci si sta sempre più avviando, perché non dovrebbe essere riconosciuta anche la multirazionalità? Se l’etica è plurale, perché non dovrebbe esserlo, a maggior ragione (Tot capita tot sententiae, tante teste tante opinioni) anche la ragione?
Purtroppo il “vento del relativismo” (di cui Benedetto XVI parlò nel suo ultimo discorso da cardinale prima del conclave in cui fu eletto Papa) soffia ormai su tutti e su tutto e mette a nudo la crisi culturale che papa Giovanni Paolo II ha così ben descritto nella “Evangelium Vitæ”: «Sullo sfondo» dell’attuale società «c’è una profonda crisi della cultura che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell’etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell’uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri», tanto che «si tende a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di delitto» di certe azioni (aborto ecc.) «e ad assumere paradossalmente quello del diritto» (n. 11). È chiaro il riferimento all’Antilingua quale strumento per la realizzazione di questo nuovo quadro culturale. Il Papa la indica con precisione: c’è una «eclissi» del valore della vita, perché «con una terminologia ambigua» (n. 58) «si tende a coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all’esistenza di una concreta persona umana» (n. 11).
Anche l’Antilingua è nata con l’aborto (l’“interruzione volontaria della gravidanza” è un aborto della lingua) ed è una conseguenza culturale gravissima della 194 e, insieme lo strumento per raggiungere gli obiettivi dei nemici della vita, dei sostenitori della “cultura della morte”. Un concetto quest’ultimo cui in qualche modo ci siamo assuefatti e che ormai ci appare persino insufficiente a descrivere ciò che indica. Se si pensa alle creature buttate nel lavandino o tra i rifiuti speciali ospedalieri o agli embrione sezionati per l’analisi preimpianto o per la clonazione “terapeutica”, che è la grande illusione di questi tempi, o ai malati abbandonati alla fame e alla sete per farli morire in nome del diritto a morire (vedi Terry Schiavo ed Eluana), dovremmo sostituire questo lemma con “cultura dello scarto”, giacché lo scarto è, forse, peggiore della morte.
Infatti, se io uccido chi è vivo, lo riconosco per un vivente, cioè per un uomo: ricordate Sant’Ireneo di Lione (II sec.)? «Gloria Dei homo vivens», diceva. Ma, se colui che vive io lo scarto, significa che non prendo in considerazione la sua umanità e la sua vita, lo considero un rifiuto, qualcosa che non ha neppure un nome oppure ha quello di un oggetto disprezzabile, che fa ribrezzo, che vale meno di nulla: che si butta, come quell’assassino che, a Roma, ha letteralmente buttato via, in un fosso di scarico, la donna moribonda che lui aveva stuprato e massacrato. Non gli serviva più. È terribile il risultato cui può portare la cultura che nasce dall’aborto. Del resto, se ci guardiamo intorno – a volte anche nei nostri stessi ambienti – ci accorgiamo di una assuefazione diffusa e che, ormai, il tema della vita è scartato perfino come problema, tanto che è necessario che i Vescovi ricordino (come hanno fatto con il tema della prossima Giornata per la Vita del 3 febbraio 2008) che bisogna tornare a “Servire la vita”.
Ed ecco un’altra conseguenza della cultura dello scarto prodotta dalla 194: la perdita della capacità di progettare. Dicono i difensori legge che il concepito non è un essere umano, bensì, tutt’al più, che è soltanto un progetto, una speranza d’uomo. Supponiamo, però solo per un istante, che sia vero, ma questa definizione serve a chi la propone per distruggere, per uccidere anche quel progetto di uomo. E che c’è di più prezioso di un progetto di uomo? di più bello, di più importante da realizzare? di più aperto alla speranza? No: quel “progetto” di altissimo livello non vale niente. Quella speranza che ci fa vivere nel futuro (chi ha un figlio sogna sempre quello che sarà, progetta per lui un futuro migliore del proprio e lavora per realizzarlo) va buttata anch’essa. La società, la cultura abortista hanno perduto anche la capacità di sperare. E se, dopo la cultura, è la politica quella che propone e sostiene la legge 194 e consente e finanzia la realizzazione dell’aborto come un bene di tutti, questo spiega perché la società politica è oggi concentrata sul presente e ci fa comprendere i motivi della pressoché totale mancanza di progetto e di speranza del nostro panorama politico.
Un momento fa, nella citazione che facevo della Evangelium Vitae, si sarà notato che il Papa parlava del «senso dell’uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri». Era un modo per riferirsi alla questione antropologica, che mi sembra l’ora di affrontare anche qui. Che cos’è l’antropologia? Lo sappiamo: è il pensiero su cui si basa la visione, il concetto dell’uomo e, quindi, della cultura; è la ricerca della risposta a una domanda antica: chi è l’uomo?
Più di mille anni prima di Cristo già Davide cantava a Dio: «Chi è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8). La sua era una domanda palesemente retorica, perché Davide conosceva la risposta di Dio: «L’uomo è nostra immagine e somiglianza». Dunque l’uomo, come tale, è soprattutto libero: il suo compito è di signoreggiare la terra, di dare il nome alle cose, quindi di conoscere e di determinare la realtà. E, se libero, l’uomo è anche responsabile: “Non mangerai dell’albero, pena la morte”, gli aveva detto Dio. L’uomo capì e, ubriaco di libertà, volle subito superare i limiti tentando di “divenire come Dio”. Ahimè: ne stiamo ancora pagando tutte le conseguenze, legge 194 compresa.
Vedremo tra poco che l’uomo ha ancora oggi la stessa voglia di farsi Dio e si pone tuttora la stessa domanda: «Chi è l’uomo oggi?», ma l’interrogativo non è più retorico, è sostanziale. Se non è più immagine e somiglianza di Dio e perciò sacro e inviolabile, allora ne possiamo fare quello che vogliamo: farlo nascere o farlo morire, farlo nascere su progetto o modificarlo geneticamente, fabbricarlo o selezionarlo, clonarlo o lasciarlo morire, usarlo per la sperimentazione o stabilire se la sua qualità di vita è buona o no, se giustifica la sua vita; possiamo decidere chi debba vivere e chi morire, chi nascere e chi no, destinarlo alla ricerca scientifica, riconoscergli o negargli il nome stesso di uomo.
Attenzione a quest’ultima negazione: non è retorica, ma reale. I bambini abortiti sono tali anche concettualmente: non esistono, non hanno un nome, nessuno glielo dà, non sono identificabili, gli sono rifiutati persino quelli di uomo e di figlio. L’uomo, che aveva cominciato a parlare con il dare il nome alla sua compagna («Si chiamerà donna», Gn 2,23), oggi invece di parlare manda messaggini e non dà più il nome alle realtà o gli dà un nome falso per paura di pronunciare quello vero: è la “filosofia” dell’Antilingua.
Le trasformazioni culturali del nostro tempo stanno demolendo, in questo modo, una cultura antropologica che ha almeno 3000 anni (dalla Genesi e dal Decalogo a oggi), che è cresciuta sulle radici giudaico-cristiane e greche dell’Occidente e che, soprattutto, è stata definita nel Nuovo Testamento, con Gesù il Cristo, colui che «svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22).
Come non considerare l’odierno laicismo (la “laicità della modernità”) un nuovo tentativo, dopo quello di Giuliano l’Apostata, ultimo imperatore romano, di paganizzazione della società? Forse peggio ancora, perché mai nel paganesimo l’uomo aveva manifestato la pretesa di essere egli stesso, in qualche modo, il proprio autore. Il mutamento radicale dell’idea di uomo che noi stiamo vivendo va oltre gli effetti materiali e limitati di ogni singolo episodio (l’aborto, l’eutanasia, la clonazione…) e arriva – la cosa più grave, più pericolosa – all’uomo autopoietico: l’uomo-che-si-fa-da-sé, così negando la propria somiglianza a Dio e, dunque, negando Dio stesso (se Dio non somiglia all’uomo sua immagine, vuol dire che non esiste).
Oggi il Grande Tentatore cerca di vincere, dopo quella di Eva e Adamo, la sua seconda battaglia – forse quella finale, dell’Armagheddo (Ap 16, 16) – e torna a dirci: puoi diventare “come Dio”. Con non pochi successi, in verità, perché ormai questa è una pretesa esplicita: James Watson e Francis Crick, i due scopritori del Dna, Premi Nobel per la medicina nel 1962, in una intervista a La Stampa (2 febbraio 2003) hanno esplicitamente affermato: «Niente più ordini dal Paradiso».
E Craig Venter, il “mago del genoma”, colui che ha per primo realizzato la mappatura del DNA umano e, più recentemente, ha fatto credere di aver creato la vita artificiale, ha detto la stessa cosa: «Lasciateci fare la parte di Dio» (La Stampa, 2 settembre 2007). Infine il medico nucleare Andrew Newberg, assistente al Dipartimento di studi religiosi della University of Pennsylvania, ha pubblicato nell’aprile del 2001 un libro dal titolo “Why God won’t go away?”, perché Dio non se ne andrà? Davvero non è comprensibile come uomini scientificamente così preparati dimostrino di non capire il senso dello loro stesse scoperte. Diremo allora con Gesù: «Ti ringrazio, o Padre perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agl’intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21).
Ed ecco un altro dato culturale (anticulturale!) da tenere presente: l’aborto, la fecondazione artificiale, l’uso delle staminali embrionali, l’eutanasia sono stati ridotti a una questione religiosa, anzi cattolica: sei contro l’aborto, perché sei cattolico; a chi non crede, a chi non è cattolico l’aborto non fa problema, anzi per lui è un diritto (abbiamo visto, poco fa, come a Londra si stia cercando di collocare i diritti sessuali, primo tra i quali quello di aborto, tra i diritti umani). Questa convinzione è ormai molto diffusa, tanto che si tenta continuamente di formalizzare l’esistenza di due schieramenti culturali opposti: quello cattolico antiabortista e quello “laico pro choice” (per la scelta), pro fecondazione extracorporea, pro staminali embrionali… Se ne debbono ricavare almeno tre considerazioni importanti.
La prima: “cattolico” è divenuta una parola che ha perso il proprio significato. Da parola “universale” si è ristretta a concetto residuale, di minoranza, indica qualcosa di arretrato, di “integralista” o “fondamentalista. Si tenta di ghettizzare, di escludere i credenti dal dibattito politico, di togliere dignità politica ai cattolici considerati dei minus habentes, capaci soltanto di eseguire gli ordini del Vaticano. Questo, però, dovrebbe costituire un problema anche per i “laici, almeno quelli veri, perché sconvolge il panorama culturale e democratico del Paese.
La seconda: questa autentica discriminazione dei cattolici per motivi religiosi, è attuata proprio in nome della laicità: dunque non solo è una palese contraddictio in terminis, ma manda a farsi benedire anche l’articolo 2 della Costituzione.
Infine la terza considerazione: lo Stato non può più dirsi laico, perché ha preso non una, ma due decisioni di tipo etico e di grande portata: si può, anzi si ha diritto di uccidere e si sono istituite due categorie – A e B – di cittadini, i “laici” e i “cattolici”. L’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, frutto del cristianesimo, è ormai un’idea lontana: nel grembo materno ci sono due tipi di nascituri: i babies for burning, come dicono gli inglesi (bambini da bruciare) perché non graditi, perché malformati e i bambini graditi; in società i cittadini a pieno titolo (i ”laici”) e i cittadini tollerati (i “cattolici”).
Purtroppo il mondo laicista non si rende conto che una simile cultura, al cui centro è la negazione della persona e della personalità dell’uomo nascente, malato, morente, ma anche del vivente (si veda l’esaltazione dell’omosessualità e l’istituzione, a questa connessa, del gender, vale a dire del genere determinato non più dalla natura e dalla nascita, ma – come dicono loro – dalla cultura, cioè dalla scelta individuale, che può mutare nel tempo e nelle situazioni e in cui la persona sparisce nella incertezza, nella inconsistenza e nella variabilità del suo stesso genere) una simile cultura, si diceva, non solo produce valori rovesciati, ma ha come esito un processo di incrudelimento della società, l’introduzione nella vita civile di una crudezza mai vista: il sacrificio umano dei più deboli e dei più piccoli.
Dovremmo cancellare lo scandalo per i sacrifici umani degli antichi popoli (i Maja, gli Aztechi, gli abitanti della Mesopotamia…), che erano, per lo meno, offerti a Dio e dunque costituivano, paradossalmente, un riconoscimento della divinità. Oggi con l’aborto, le manipolazioni genetiche, l’eutanasia, gli esseri umani sono sacrificati a se stessi.
Dicevamo della preferenza di Dio (evidente in tutta la Bibbia) per i piccoli, ai quali Egli riserva un trattamento privilegiato nella conoscenza del mistero dell’uomo. Anche noi, per grazia di Dio, siamo piccoli e sappiamo che Dio ci ama assai più dei grandi e potenti. Dice Isaia: «Fin dal grembo di mia madre [Egli] ha pronunziato il mio nome […] L’ha inciso sul palmo delle sue mani» (49,1;16). Madre Teresa lo ricordava in ogni occasione, anche davanti al Re e alla Regina di Norvegia, ai dignitari, ai rappresentanti di tutto il mondo politico e scientifico: «Penso – disse alla cerimonia per il suo Nobel – che la pace sia minacciata oggi anche dall’aborto, che è una guerra diretta, una uccisione precisa, compiuta dalla stessa madre». Per questo suo amore per la vera pace ha ricevuto, fra i tanti, anche il Premio Nobel per la pace. Oggi, invece, lo stesso Nobel di Madre Teresa è assegnato ad Al Gore, l’ex vicepresidente di Bill Clinton, sostenitore dell’aborto e del controllo delle nascite, che molti, poi, accusano anche di razzismo, perché difende l’eugenetica e promuove il “controllo demografico”, che, come è noto, è soprattutto indirizzato a colpire le popolazioni povere. Ma ormai il Premio Nobel, dopo Dario Fo…
Ammetto che il panorama che vi ho descritto sia sconfortante. Per questo vorrei concludere questa mia elencazione dei danni – e non ho parlato dei numeri dei bambini morti, delle povere madri snaturate, dei padri incoscienti o emarginati – con una dose di speranza. Torno un’altra volta alla somiglianza dell’uomo a Dio, perché è quella che all’uomo conferisce la sua dignità e la sua «altissima vocazione». Se Dio (vedi la Genesi) al termine di ogni “giorno” contemplava il frutto della sua creazione (“E vide che era cosa buona”), anche l’uomo dovrebbe essere capace di contemplare la sua pro-creazione, l’opera sua che ha in sé qualcosa di divino, che lo avvicina a Dio. Purtroppo, però, con la Legge 194 la nostra società sembra non essere più capace di vedere i più piccoli dei suoi figli: così, oltre alla capacità di progettazione e di speranza, sta perdendo anche la capacità di vedere e di stupirsi, di cogliere le meraviglie del creato, capacità che è condizione per poter amare
Voglio dire che la nostra società sta diventando cieca, ma della cecità più grave, quella che le impedisce perfino la contemplazione del mistero e della meraviglia dell’uomo. Più volte, qualche anno fa, l’indimenticabile Giovanni Paolo II, il Papa della vita, aveva contrapposto lo «sguardo possessivo» dell’uomo (così tante volte quello del maschio sulla donna, quello della donna sul figlio, quello dei figli sui genitori morenti) allo «sguardo gratuito, contemplativo»6. Vorrei citare, perché tutti ne possiamo godere la bellezza, ciò che, nel 1995, scriveva nella “Evangelium Vitae”: «Urge anzitutto coltivare, in noi e negli altri, uno sguardo contemplativo. Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio. È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende d’impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente. Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà.
È tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci, con l’animo colmo di religioso stupore, di venerare e onorare ogni uomo […] Animato da questo sguardo contemplativo, il popolo nuovo dei redenti non può non prorompere in inni di gioia, di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile della vita, per il mistero della chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di grazia e a un’esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e Padre» (n. 83).
Parliamo allora della contemplazione. Che cos’è? «Non è facile dire che cos’è la contemplazione» disse una volta, oltre vent’anni fa, un filosofo del diritto allora amico del Movimento, ma che ora procede su altre strade. È una citazione che ho usato più volte e se qualcuno la conosce, mi perdonerà. Permettete che citi anche questa: «Contemplazione è uno sguardo che, chiusi gli occhi per meglio vedere, attivando un. misterioso potere di messa a fuoco interiore, fa apparire l’essenza di un oggetto insieme con il suo significato profondo […] Quella minima struttura ipercomplessa, goccia impalpabile in fondo all’universo, da cui è destinato a formarsi, e in ogni istante si viene già formando, colui che sarà una cifra – unica insostituibile – dell’universo intero, non può come tale essere vista, e quindi ultimamente non può essere protetta, che dalla contemplazione. Le occorre dunque un diritto che sia radicato nella contemplazione. Le occorre, ma non le basterà se gli atti di applicazione del diritto non verranno posti come altrettanti rinnovati atti di contemplazione[…]
Se è vero che la vita umana embrionale non si salva senza contemplazione, e se è ugualmente vero che l’uomo senza capacità di contemplazione non è un vero uomo(«dallo sguardo che io poso sull’altro dipende la mia umanità», disse Ratzinger a un convegno a Roma dei giovani del MpV su “Il diritto alla vita e l’Europa”», nel 1987) allora di fronte all’embrione l’atto contemplativo è per entrambi – il contemplato e il contemplante –questione di vita o di morte».
Facciamo che sia questione di vita: è possibile.
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