L’educazione alla vita nella Lettera Enciclica “Evangelium vitae”

Maria Luisa Di Pietro – Associato di bioetica, Università Cattolica Sacro Cuore di Roma

1. “Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: Io sono venuto perché abbiano la vita (Gv. 10,10)… Egli si riferisce a quella vita nuova ed eterna, che consiste nella comunione con il Padre… Ma proprio in tale vita acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo” (EV, 1).

Con queste parole Giovanni Paolo II introduce la Lettera Enciclica Evangelium vitae, che rappresenta – come è noto – un compendio non solo del Suo insegnamento sulla vita, ma anche di quanto detto in precedenza dal Magistero, dalla Tradizione e dalla Sacra Scrittura.

Perché un’Enciclica sulla vita? La ragione di questa scelta sembra essere duplice:

a). la constatazione di un diffuso e ambivalente atteggiamento nei confronti della vita umana, che – da una parte – tende alla sua promozione e alla sua tutela grazie anche ad una sempre maggiore cura da parte della ricerca medica e della riflessione etico-giuridica, mentre – dall’altra – attenta ad essa con continue minacce (guerre, stragi, genocidi, violenza);

b). la consapevolezza che non si tratta solo di “minacce provenienti dall’esterno, di forze della natura o dei Caino che assassinano gli Abele”, ma anche “di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica” (EV, 17). Minacce che vengono agite contro la persona umana in tutte le fasi della vita, ma che tendono a colpire soprattutto i più deboli. Minacce “visibili” e “non visibili” perché mascherate talora da “diritto”: diritto ad una libertà incondizionata, a generare, a non generare, a non soffrire, a sperimentare. E se il ricorso ai prodotti ad azione abortiva, all’aborto chirurgico, all’eutanasia, sono già evidenti manifestazioni di questa congiura contro la vita umana, un attacco ulteriore – e forse più subdolo – è venuto dalla possibilità di “produrre” la vita umana. Ridotto alle sue cellule, ai suoi cromosomi, ai suoi geni, l’individuo umano può essere costruito in provetta, manipolato, clonato. Arrivato alle radici della vita, l’uomo può decidere del proprio simile: non più, allora, la relazione interpersonale come luogo dell’incontro, quanto piuttosto la relazione tra il soggetto che produce e l’oggetto che viene prodotto.

Ogni minaccia alla dignità e alla vita dell’uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro della propria fede nell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura. Alle antiche e dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti” (EV, 3).

Uno scenario preoccupante, che il trascorrere dell’ultimo decennio ha ulteriormente aggravato: ma ciò che è più preoccupante sono le cause che hanno portato a questo stato di fatto e che rendono complessi i tentativi di cambiamento. Le cause sono da rintracciare nell’antropologia di riferimento: la realtà “Uomo” viene, infatti, letta attraverso le lenti deformanti del soggettivismo, dell’utilitarismo e dell’edonismo. Anzi chi legge non ha neanche la percezione di una realtà falsata, avendo perso i punti di riferimento: il senso di Dio e il senso dell’uomo come l’Altro.

L’eclissi del senso di Dio e dell’uomo conduce al materialismo pratico nel quale proliferano l’individualismo, l’utilitarismo, l’edonismo. E i valori dell’essere sono sostituiti da quelli dell’avere […]” (EV, 23), e così “si smarrisce il senso di Dio e il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio” (EV, 21).

Il mancato riferimento ad una realtà trascendente porta, dunque, come inevitabile conseguenza alla perdita dell’uomo: “Si manifesta anche qui – si legge al . 23 della Lettera Enciclica Evangelium vitae – la perenne validità di quanto scrive l’Apostolo: Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno ”.(Rm 1,28) E così l’uomo non riesce più a percepire né se stesso né i propri simili come l’Altro: chiuso nello stretto orizzonte della fisicità, l’uomo perde la sua dimensione trascendente e viene considerato un semplice organismo biologico, solamente più evoluto. Ed in quanto tale, l’essere umano non può che soggiacere alle sole leggi biologiche delle altre specie viventi: l’agire umano, non più oggetto di scelta, diviene, allora, la risposta ad una serie di istinti comuni con gli animali; la riproduzione umana, enucleata dal suo contesto personale, viene portata a livello di quella di organismi inferiori dal punto di vista biologico. L’ondata riduzionista non colpisce, però, solo l’uomo, ma anche tutta la natura: non più “mater” ma “materiale” aperto ad ogni forma di manipolazione; non più ritmi naturali da conoscere e su i quali sintonizzarsi, ma una “natura” da controllare e su cui intervenire, spesso non per correggere, ma per deviare.

L’uomo “padrone” dei suoi simili – in particolare di coloro a cui non viene riconosciuto “l’essere Altro” – ha il pieno potere di decisione: in nome della libertà, dell’utilità, della selezione. In questa ottica, lo stesso bene “vita” non è il bene per ciascuno, ma solo per chi ha il potere; la tutela della vita e la promozione della salute sono appannaggio solo di alcuni, che ritengono di essere legittimati ad usare altri individui umani per il proprio benessere fisico e psichico.

Non riconoscendo la presenza di Dio, l’uomo si vive come Dio e “si illude di potersi impadronire della vita e della morte, perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza” (EV, 15), ritenendo di avere “il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia” (EV, 64).

Inoltre, in un contesto socio-culturale, ove si fa riferimento essenzialmente all’efficienza economica, al consumismo, alla bellezza e alla godibilità della vita fisica, l’unico fine da raggiungere è il proprio benessere materiale. In questa ottica la cosiddetta “qualità di vita” è interpretata in modo prevalente o esclusivo con parametri fisici, “dimenticando le dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza” (EV, 23); il corpo umano è ridotto ad oggetto di scambio; la sessualità è depersonalizzata e considerata un mezzo per affermare il proprio io e soddisfare i propri desideri e istinti; la procreazione – a meno che non attentamente programmata – è considerata un nemico da evitare con qualsiasi mezzo; la sofferenza viene respinta come inutile e, se non la si può evitare, nasce la tentazione di rivendicare il diritto a morire.

2. Si è di fronte ad una situazione irreversibile? A fronte di una coscienza etica resa atrofica dal disuso, si lascerà che la ragione strumentale continui a dettare legge?

Perché questa è la preoccupazione più grande: che l’assuefazione riduca gradualmente ogni resistenza, abbattendo qualsiasi capacità critica; che l’assuefazione porti ad indignarsi solo per gli episodi di violenza più efferati, per le sperimentazioni più aberranti; che l’assuefazione sia frutto della perdita di senso e di significato. E’ per questa ragione che Giovanni Paolo II ritiene necessaria

una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita…” (EV, 95).

Perché una cultura “nuova”? Perché i problemi che si pongono alla nostra riflessione sono in parte inediti; perché maggiore deve essere la consapevolezza da parte dei cristiani; perché forte deve essere l’impegno nella testimonianza.
Il “coraggio” della testimonianza: è proprio questo il grande esempio che Giovanni Paolo II ha dato nel corso del Suo Pontificato. Il coraggio di testimoniare, il coraggio di vivere fino in fondo una vita segnata dalla malattia e dal dolore, il coraggio di affrontare le intimidazioni. Quanta solitudine e quanta forza in un passaggio della Lettera alle Famiglie (n. 12), quando Giovanni Paolo II – parlando di procreazione responsabile e di regolazione naturale della fertilità – scrive:

La Chiesa insegna la verità morale circa la paternità e la maternità responsabili, difendendola dalle visioni e dalle tendenze erronee oggi diffuse. Perché la Chiesa fa questo? Forse perché non avverte le problematiche evocate da quanti consigliano in questo ambito cedimenti e cercano di convincerla anche con indebite pressioni, quando non addirittura con minacce?”.

Costruire, dunque, una cultura della vita, muovendo dalla consapevolezza – da una parte – del valore fondamentale della vita fisica e – dall’altra – del nesso inscindibile tra vita e libertà.

Nella gerarchia dei valori la vita fisica è, infatti, al primo posto in quanto fondamento di tutti gli altri valori (la libertà, l’utilità, etc.) ed esige il rispetto assoluto e incondizionato in qualunque fase del suo sviluppo essa si trovi e qualunque siano le sue condizioni.:

La vita è sempre un bene […] perché è nel mondo la manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria” (EV, 34).

Nella visione biblica, costantemente ripresa da Giovanni Paolo II, l’uomo è creatura di Dio, redenta da Cristo, è immagine vivente di Dio in Cristo; l’uomo è unità sostanziale di anima e di corpo: questi fatti gli conferiscono un “significato” nuovo e al di fuori delle logiche di potere e di dominio all’intervento dell’uomo sull’uomo e per l’uomo.

Questa attenzione nei confronti della persona non trova, però, la sua ragione d’essere solo nel dato di fede e nell’applicazione della legge divina al comportamento umano: è frutto anche di una riflessione razionale sulla vita umana e sulla liceità degli interventi su di essa. La vita umana è, innanzitutto, un valore naturale e razionalmente riconoscibile: certamente per il credente il valore della persona è impreziosito dalla Grazia e dal dono dello spirito Santo, ma la persona e la sua vita non cessano di essere per tutti – credenti e non – un valore intangibile. E’ d’altra parte contrario alla tradizione della Chiesa negare il valore della ragione e la legittimità di un’etica razionale: l’armonia, tra scienza e fede, tra ragione e rivelazione, è garantita dal fatto stesso di avere lo stesso autore, Dio.

La vita è, poi, strettamente connessa con la libertà: “Non c’è libertà vera dove la vita non è accolta e amata; e non c’è vita piena se non nella libertà” (EV, 96). Non una libertà da vincoli e costrizioni, quanto piuttosto una libertà per un progetto di vita, una libertà coniugata con la responsabilità, che – sostenuta dalla ragione – valuta i mezzi e i fini per un progetto liberamente perseguito. Una libertà che, per sua dinamica, è collegata con la verità.

3. Per uscire dalle tenebre della cultura della morte è necessario andare verso la “luce” [“comportatevi come figli della luce… cercate ciò che è gradito al Signore e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre” (Ef 5,8, 10-11)]: la via da percorrere è la formazione della coscienza morale a cominciare dalle comunità cristiane. Non si può, d’altra parte, negare quanto sia profonda la dicotomia tra fede e morale anche nella riflessione cattolica e diffusa la convinzione che la Chiesa nulla possa dire in materia di morale e che ciascuno possa comportarsi secondo ciò che la propria coscienza detta senza cercare di illuminare la coscienza stessa.

La formazione della coscienza morale diviene, allora, il metodo da utilizzare, il fine da raggiungere e l’obiettivo primario di ogni opera educativa che aiuta

l’uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce sempre più profondamente nella verità, lo indirizza verso un crescente rispetto della vita, lo forma alle giuste relazioni tra le persone”(EV, n. 97).

Perché “educare” significa precisare le ragioni per cui un uomo per realizzare la propria essenza umana deve agire in un modo piuttosto che in un altro; “educare” significa aiutare l’altro ad acquisire consapevolezza del proprio agire, responsabilità e strumenti critici, criteri di valutazione e motivazioni, affinché possa operare una sintesi tra libertà e responsabilità; “educare” significa offrire criteri oggettivamente fondati e consapevolmente chiariti per l’agire: “La pedagogia scrive Giovanni Paolo II in un discorso del 1981 tende ad educare l’uomo, ponendo davanti a lui le esigenze, motivandole, ed indicando le vie che conducono alla loro realizzazione”.

E’ per questa ragione che l’educazione della persona è, innanzitutto, formazione della coscienza morale, sempre che per “morale” si intenda il “contenitore” e non il “contenuto” dell’educazione:

La morale – si legge sempre nello stesso discorso – non è un contenuto del processo educativo, ma ne è la forma costituzionale, perché l’uomo si educa in quanto si migliora, e confronta il suo essere con il dover essere realizzando le sue possibilità… L’educazione morale, quindi, pur non coincidendo con il processo educativo, ne costituisce la motivazione, perché l’uomo diventa uomo, merita di essere uomo, realizzando nella concretezza della sua situazione esistenziale l’ideale morale con cui progetta e giudica la sua vita. In fondo l’uomo è libero per meritare la sua libertà…”.

Nella sua finalità l’educazione morale è educazione alla libertà o, per meglio dire, alla gestione responsabile della libertà, affinché vi possa essere una completa adesione a quella verità, che inscritta nella natura di essenza di ogni uomo, ne svela configurazione, significazione e destinazione. Si tratta, in altre parole di aiutare ciascuno a raggiungere la libertà morale, in modo che possa aderire liberamente alla “legge dell’essere” ed essere determinato al bene al punto tale da non poter scegliere il male. Presupposto della libertà morale è la libertà di scelta o libero arbitrio: la possibilità reale di vivere la libertà di scelta non rappresenta, però, la completa realizzazione della persona; essa è solo un mezzo per raggiungere la libertà morale. Tra la libertà di scelta e la libertà morale si colloca, per l’appunto, l’educazione nel senso di favorire il passaggio dalla possibilità alla realtà della propria liberazione. La persona è libera di scegliere; l’educatore deve indicare la strada da percorrere affinché tale libertà si trasformi in una totale adesione alla propria natura umana: l’educazione si configura, così, come un processo e non solo un obiettivo perché educare non è dover arrivare, quanto piuttosto viaggiare in modo differente.

E’ proprio questa la ragione per cui l’uomo è libero: per poter aderire liberamente alla propria natura umana e non per fissare in modo arbitrario i contenuti della morale e creare se stesso e la propria natura. L’uomo non progetta la propria natura: cerca di realizzarla.

Alla luce di quanto ricordato si comprendono, allora, le parole di Giovanni Paolo II, che al n. 96 della Lettera Enciclica Evangelium vitae scrive:

Non meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla verità […] E’ essenziale che l’uomo riconosca l’originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l’essere e la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell’essere, l’uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona”.

Una formazione morale, che riguarda la sfera sia dei valori sia delle virtù. Infatti, se la formazione morale deve aiutare il soggetto nella strutturazione della propria identità, nell’acquisizione di valori valutati importanti per dichiarare a sé e agli altri il proprio esserci, nell’assicurare la capacità di resistere alle forze disgreganti interne ed esterne, nel garantire un’unità interiore coerente e duratura, non è né facile né sufficiente un semplice controllo selettivo dei valori senza una loro concomitante acquisizione. La persona è formata quando è riuscita a costruire un filtro attraverso il quale verificare e valutare cosa accogliere e cosa respingere: quando, in altre parole, è in grado di rispondere alla domanda “che persona dovrei essere?”. L’impegno deve essere, allora, quello di aiutare il soggetto a crescere come persona virtuosa, ovvero ad acquisire un habitus, una forza, un’attitudine permanente a compiere il bene e a compierlo bene. Da qui nasce un’ulteriore responsabilità da parte di chi educa: nella genesi delle virtù è necessaria la presenza di un principio estrinseco – l’educatore per l’appunto – che, in quanto già virtuoso, solleciti ed induca l’educando ad esercitare atti in modo che possano generare virtù.

Da qui un’ulteriore domanda: chi deve sentirsi impegnato nell’opera educativa?

Nessuno – scrive Giovanni Paolo II – si deve sentire escluso: tutti hanno un ruolo importante da svolgere: insieme con quello della famiglia, particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti e degli educatori […]” (EV, 98).

La prima agenzia educativa è, dunque, la famiglia e, nella famiglia, i genitori sono “i primi e i principali educatori dei propri figli ed hanno in questo campo una fondamentale competenza: sono educatori perché sono genitori” (Lettera alle Famiglie, 16). E’ anche vero, però, che la famiglia presenta spesso una scarsa valenza educativa a causa sia delle trasformazioni strutturali e culturali subite, sia di una talora involontaria incompetenza e incapacità di rispondere alle sollecitazioni provenienti dall’esterno: in questo caso è importante l’aiuto di altre agenzie educative tra cui la scuola, che deve concorrere con la famiglia nell’educazione, sostenendola quando essa è incapace di farlo. Ed ancora possono svolgere un importante ruolo formativo le Università, i centri di cultura, i mass media.

Giovanni Paolo II affida, però, la svolta culturale a favore della vita soprattutto alle donne, sia perché svolgono da sempre un ruolo fondamentale in ambito educativo, sia per l’importante compito di testimonianza che ricoprono: “Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell’amore autentico […]” (EV, 99). E di questo si rese conto anche Adamo, quando alla vista della donna esclamò: “Finalmente essa è osso delle mie ossa e carne della mia carne” (Gen 2,23), un’esclamazione di ammirazione e di incanto “che – scrive Giovanni Paolo II al n. 10 della Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem – attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra”. Adamo riconosce Eva come l’Altro, un altro, però, uguale a sé, il che non era stato possibile con le altre specie viventi.

La donna è l’Altro: ma chi è l’Altro per l’uomo? “L’Altro – scrive Angelo Scola – nel senso ultimo della parola è Dio stesso. Ed in qualche modo la donna ne è il segno più potente”. La donna è, dunque, segno dell’Amore di Dio per l’uomo e svelare quale sia il vero ordine dell’Amore costituisce l’intima vocazione della donna.

“Svelare il vero ordine dell’amore”. E’ per questo motivo che Dio affida l’uomo in modo speciale alla donna: tanto che già nelle Sacre Scritture la donna ha una grande familiarità con l’origine e con la fine della vita. Nella grotta di Betlemme e sul Calvario, ai piedi della Croce, Maria, la donna per eccellenza, ha un ruolo da protagonista. La figura più grande, più sconvolgente, più determinata: basti pensare a quel primo e totale “sì” pronunciato contro ogni logica e contro ogni usanza del tempo. La donna, ogni donna, orientata verso quanto è vivo e personale, portata spontaneamente a partecipare alla vita dell’altro in virtù anche dell’attitudine empatica e materna. La donna, ogni donna, a cui appartiene in modo peculiare – anche se non esclusivo – l’attitudine a proteggere, a custodire, a far crescere, ad adattarsi alle persone e alle difficoltà, a dialogare, a mediare.

Ogni educatore è, dunque, chiamato ad un grande e responsabile impegno: sono necessari il coraggio di andare anche controcorrente e la consapevolezza che dipenderà da ciascuno

se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società” (EV, 98).

4. Gli ambiti da privilegiare per ricreare una cultura della vita sono, secondo Giovanni Paolo II, tre:

  1. l’educazione alla sessualità e all’amore;
  2. l’educazione alla procreazione responsabile;
  3. l’educazione al senso della sofferenza e della morte.

Sessualità, ricchezza di tutta la persona: perché è necessario “educare al valore della vita cominciando dalle sue stesse radici. E’ un’illusione pensare di poter costruire una vera cultura della vita umana, se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere la sessualità, l’amore e l’intera esistenza secondo il loro vero significato e nella loro intima correlazione” (EV, 97). D’altra parte, come sottolinea Giovanni Paolo II nello stesso paragrafo, è proprio la “banalizzazione della sessualità” tra “i principali fattori che stanno all’origine del disprezzo della vita nascente: solo un amore vero sa custodire la vita” (EV, 97).

E non si tratta solo del legame banalizzazione della sessualità/rifiuto della vita nascente: ad un’analisi più attenta non può sfuggire che l’aumento della violenza e del disagio nel nostro tempo affonda le sue radici in sessualità vissuta a dimensione non umana. Anzi una dimensione profondamente disumana, perché volutamente ridotta alle sue dinamiche biologiche e istintive, è privata della sua dimensione personale: causa di sofferenza per la persona, per la coppia e per la famiglia.

L’educazione della sessualità richiede, innanzitutto, di ridarle significato e valore: questo comporta la necessità di comprendere cosa la sessualità rappresenta per la persona. La sessualità è – riprendendo le parole di Giovanni Paolo II – “ricchezza di tutta la persona” (EV, n. 97), ma anche energia vitale, capacità di entrare in relazione, realtà originaria e originante la vita.

Questa lettura del rapporto sessualità/persona e, previamente, del rapporto corpo/persona è propria del personalismo ontologicamente fondato: la persona è considerata una totalità unificata di corpo e di spirito, da cui l’impossibilità di pensare ad un corpo umano, senza pensarlo anche come un corpo personale. E dal momento che il corpo umano non esiste se non nella differenziazione maschile o femminile, anche la realtà di ogni persona risulta segnata fin nella sua profondità dall’appartenenza al sesso maschile o al sesso femminile: si tratta, infatti, di una differenza non solo biologica e fisiologica, ma che riguarda tutta l’esperienza e l’autocoscienza dell’individuo.
Per arrivare alla conclusione che la sessualità umana non è solo energia dirompente e istintuale, è già sufficiente l’evidenza empirica, non offuscata da interferenze ideologiche, che consente di evidenziare che la sessualità è: energia complessa che investe l’esistenza e le attività umane; modalità con cui ogni individuo entra in relazione e in comunicazione con gli altri; segno e luogo dell’apertura, dell’incontro, del dialogo, della comunicazione e dell’unità delle persone tra di loro; dimensione strutturale della persona, una dimensione originaria (fin dall’origine la fecondazione si è maschi o femmine) e originale (essere uomo o donna è diverso da essere maschio o femmina).

Da quanto detto, ne consegue che la sessualità è più della sua dimensione genitale e che la genitalità acquista valore umano solo e nella misura in cui è integrata nella unitotalità della persona, e che il rapporto persona/corpo sessuato rientra nella categoria dell’essere e non dell’avere, per cui ciò che non si possiede non si può né usare né far usare.

Dire che la sessualità è dimensione strutturale della persona non equivale, però, ad affermare che essa sia l’unica dignità dell’uomo:

La corporeità e la sessualità – scrive Giovanni Paolo II in un discorso del 1979 – non si identificano completamente. Sebbene il corpo umano, nella sua normale costituzione, porti in sé i segni del sesso e sia, per sua natura, maschile e femminile, tuttavia il fatto che l’uomo si fa corpo appartiene alla struttura del soggetto personale, più profondamente del fatto che egli sia nella sua costituzione somatica anche maschio e femmina”.

E così come ripugna istintivamente l’idea di considerare il corpo umano come semplice oggetto di scambio, allo stesso modo si deve esigere rispetto per la propria mascolinità e femminilità. Riconoscere il significato valoriale dell’essere sessuati vuol dire comprendere che l’unica modalità di “scambio” deve essere quella del “dono”, totale, reciproco, esclusivo. E, se la sessualità è dimensione originante, l’uomo e la donna non possono vivere la propria esperienza terrena, se non accettando di essere sessuati: pensare di manipolare la propria conformazione fisica per adeguarla, ad esempio, ad un disorientamento psichico (vedi, la richiesta di modificazione del sesso da parte della persona transessuale) è contrario non solo alla legge biologica, ma anche all’ordine morale della persona.

Ma la sessualità ha anche un significato interpersonale: questo vuol dire che la diversità maschile e femminile è una diversità relazionale, con una duplice funzione, personalizzante e socializzante. La sessualità ha una funzione personalizzante sia per il bambino, che attraverso il confronto dialogo con il genitore sessualmente diverso e con il genitore sessualmente non diverso arriva a strutturare la propria personalità e ad assumere un’identità sessuale, sia per l’adulto. La sessualità ha una funzione socializzante perché è spinta ad uscire da se stessi per entrare in comunicazione e, successivamente, in comune unione con gli altri. In tal senso, la sessualità umana esprime e realizza il “bisogno” della persona di uscire dalla propria solitudine e di comunicare con gli altri: e tale bisogno è insieme segno e frutto della povertà e della ricchezza della persona, chiamata ad amare ed a essere amata, a donare ed a ricevere.

Ed è attraverso la comunicazione e il dialogo, che l’uomo e la donna percepiscono la propria differenza e si sentono attratti, spinti e orientati verso l’altro sesso. Dell’altro sesso si vorrebbero scoprire e comprendere anche i più reconditi misteri: ma tra l’uomo e la donna rimane sempre una differenza, un abisso incolmabile che neanche l’imitazione di comportamenti o di atteggiamenti propri dell’altro sesso riescono a superare.

La relazione tra l’uomo e la donna diviene segno di dualità e reciprocità, ma anche di complementarità: l’uomo e la donna sono simili e differenti nello stesso tempo; non sono identici, ma hanno una uguale dignità, che deriva dall’essere persone e che è necessaria affinché tra di loro ci sia una possibilità di incontro e di intesa. Dal momento che la sessualità umana ha un significato interpersonale, ne consegue che il fine a cui essa è intrinsecamente orientata e, pertanto, il messaggio che esprime, è l’amore nel senso di donare e ricevere: questa vocazione all’amore si realizza attraverso il corpo sessuato testimone così del dono reciproco, dell’essere e dell’esistere come dono con e per qualcuno; un corpo che ha un significato sponsale in quanto capace di esprimere amore.

Ed anche se è vero che nessuno può rifiutarsi di essere uomo o donna, ciò non significa né che il sesso esprima tutta la persona né che ogni persona sia necessitata ad esprimere la totalità delle proprie capacità sessuali, anche quelle fisiche. Bisogna, infatti, fare differenza tra relazione sessuata e relazione sessuale genitale. La relazione sessuata è la comune relazione tra persone di sesso diverso, improntata a stima, rispetto, amicizia e affettività, senza il coinvolgimento del corpo sessuato, la genitalità fisica: infatti, l’incontro, il dialogo o il conflitto tra due persone di sesso diverso, non possono non essere sempre segnate dalle caratteristiche e tratti tipici dell’essere uomo o donna. La relazione sessuale genitale ha, invece, come caratteristica peculiare la totalità delle componenti della persona, che danno vita all’apertura, all’incontro, al dialogo, alla comunione ed all’unità: si tratta di una reciproca donazione personale e totale, espressione di tutta la persona, che genera e alimenta una relazione unica ed esclusiva, irrevocabile e definitiva, ordinata all’integrazione reciproca dell’uomo e della donna. Nel momento in cui la relazione sessuale-genitale è inserita in un contesto di amore e di dono totale e totalizzante tra un uomo e una donna, essa acquista un valore positivo e fa da completamento di un’unione che, resa indissolubile dallo stato di coniugalità, si apre per sua intrinseca dinamica alla fecondità.

Alla luce di queste considerazioni risulta evidente come un intervento educativo che non tenga presente la complessa realtà fisico psico spirituale dell’uomo non può che essere frammentario e riduttivo: l’educazione deve guardare a tutto l’uomo. Ne consegue che l’educazione della sessualità deve necessariamente superare i limiti angusti di una preparazione alla vita sessuale, per indicare e motivare il bambino, il fanciullo e l’adolescente, al raggiungimento di grandi mete: l’accettazione del proprio essere sessuati e il riconoscimento del valore della mascolinità e della femminilità (educazione all’identità sessuata); il rafforzamento dell’Io, della stima di sé, del senso della propria dignità, della capacità di autopossesso e di autodominio (educazione alla castità), dell’apertura progettuale, della coerenza ed equilibrio interiore; l’acquisizione di una grande attenzione ai valori della procreazione, della vita e della famiglia (educazione alla vita).

Anzi l’educazione alla castità è parte fondamentale della formazione della coscienza morale, poiché consente di acquisire la capacità di orientare l’istinto sessuale al servizio dell’amore e di integrarlo nello sviluppo personale. E’, però, necessario chiarire il significato di castità, spesso collegata ad un’immagine di sessualità, o per meglio dire di genitalità, negata e frustrata, tanto da essere considerata nociva per l’amore: questo equivoco, perché di un equivoco si tratta, è frutto di una lettura liberal-radicale della sessualità.

La castità non è, infatti, rifiuto della sessualità, altrimenti si negherebbe una realtà la sessualità , che è dimensione strutturale della persona umana; non è neanche rifiuto o disistima dei valori e delle esigenze della sessualità: i valori in quanto tali sono da amare, e le esigenze, se autentiche, sono da accogliere. La castità è energia spirituale in grado di difendere l’Amore dai pericoli dell’egoismo e dell’aggressività, promuovendolo verso la sua piena promozione, ed è disposizione ad armonizzare tutte le dimensioni della persona (fisica, pischica, spirituale). Questa disposizione viene definita “integrazione” e il suo obiettivo è il raggiungimento dell’integrum, ovvero della totalità unificata di più parti tra di loro ordinate in modo gerarchico. Per poter raggiungere l’integrum è necessario, però, autopossedersi e autodominarsi, ovvero essere capaci di dominare e temperare le reazioni immediate della sensualità e dell’affettività: in un imprescindibile contesto, quello del vero “Amore”, quell’amore maturo che è capace di riconoscere il valore personale dell’altro, di volere il bene dell’altro in quanto bene per l’altro, di non subordinare la disposizione ad amare al desiderio di godere. Una manifestazione di questa capacità di integrazione è la continenza, ovvero l’attitudine a controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale e le loro conseguenze. Essere continenti non significa, però, esercitare un cieco controllo della concupiscenza e delle reazioni sensuali, quanto piuttosto agire alla luce della comprensione dei fini della sessualità: da una parte, l’apertura ai più profondi valori della femminilità e della mascolinità nella sponsalità e, dall’altra, l’autentica libertà del dono reciproco delle persone

Il procreare umano tra natura e artificio. Quando si parla del procreare umano si completa il termine “procreazione” con l’aggettivo “responsabile”, e si sottolinea che si tratta di una responsabilità più grande di quella che viene chiamata in causa nel resto dell’agire umano, dal momento che non si tratta solo di rispondere dell’eventuale alterazione dell’esistenza di altri, ma della stessa possibilità di farli esistere.

Per comprendere la portata di questa responsabilità, si rende, allora, necessario descrivere quali sono le caratteristiche del procreare umano e dell’atto coniugale. Non si tratta di un’attività vegetativa, come il digerire o il respirare; non è un atto solamente biologico; non è una mera sommatoria di gameti. E’ un atto che parte da una scelta libera e volontaria del soggetto, ma che non è finalizzato al fare, al costruire, al trasformare. E’ un atto che, partendo dalla persona, coinvolge nella totalità e nella reciprocità l’altra persona: e nell’ambito di questa relazione, di questa comunione di anime e di corpi, in questo abbraccio d’amore, può realizzarsi la chiamata all’esistenza di una nuova vita umana. Dal dono delle persone scaturisce il dono della vita: un dono che trascende e trasfigura il fatto biologico, pur presente. Un atto che chiama in causa, come già detto, una grande responsabilità: la responsabilità delle scelte nella consapevolezza delle conseguenze; la responsabilità del farsi carico delle conseguenze di queste scelte.

Si può, allora, manipolare questo atto con il ricorso alla contraccezione o sostituirlo con le tecniche di fecondazione artificiale?

In entrambi i casi si cancellerebbe la totalità della coniugalità: si elimina la dimensione procreativa nel caso della contraccezione; si elimina l’atto coniugale nel caso della fecondazione artificiale. Perché l’unione coniugale porta con sé il significato della donazione personale, una donazione non solo fisica, ma che coinvolge la totalità della persona, e l’apertura alla procreazione, ovvero al dono della vita nel dono delle persone. Non si tratta, però, di un’interpretazione biologista o fissista dell’atto coniugale? Come mai – si dice – pur criticando la riduzione della sessualità alla sola genitalità, si sostiene poi che l’atto coniugale va rispettato nelle sue dimensioni unitiva e procreativa, che sono dimensioni meramente biologiche?

La risposta potrebbe essere formulata come segue: non è la natura biologica quella a cui si fa riferimento, ma la natura ontologica; la natura intesa non tanto come insieme di fatti empirici, quanto come caratteristica strutturale per cui ogni persona è un’intrinseca unione di spirito e corpo. Nel corpo si incarna e si manifesta lo spirito; lo spirito informa, struttura e vivifica la corporeità”.

Intrinseca unione tra spirito e corpo: accanto alla precisazione del significato del concetto di natura, è necessario anche dare la giusta lettura dei significati del corpo. Non è un corpo che si possiede, come se si trattasse di un oggetto distinto dalla persona, ma un corpo spiritualizzato che acquista dignità e significato trascendente in virtù dell’unità della persona. E’ a questa unità che si fa riferimento quando si parla di natura umana e su di essa si misura la liceità o l’illiceità di un atto. Perché, se si partisse da una visione dualista del rapporto corpo persona, si potrebbe correre il rischio di assoggettare i comportamenti umani alle leggi della biologia: e si ricadrebbe veramente in una sorta di biologismo, una grande offesa alla libertà dello spirito.

E’ in questa dimensione terrena ma nel contempo trascendente di natura, che l’uomo cerca la via per la sua realizzazione come uomo; è questa dimensione terrena, ma nel contempo trascendente che è carica di significato, un significato non conferitole dall’uomo, ma datole, per chi è credente, dal suo Creatore.

[La procreazione responsabile], nel suo vero significato esige che gli sposi siano docili alla chiamata del Signore e agiscano come fedeli interpreti del suo disegno: ciò avviene con l’aprire generosamente la famiglia a nuove vite, e, comunque, rimanendo in atteggiamento di apertura e di servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel rispetto della legge morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o a tempo indeterminato una nuova nascita” (EV, 97).

L’uomo e la donna esercitano, dunque, la loro libertà di scelta: ma l’orizzonte o, per meglio dire, la guida al proprio agire la ritrovano in sé, nell’essere natura umana. Anche i limiti: perché è contrario alla natura umana ciò che va contro i suoi contenuti e le sue finalità intrinseche.

Ed allora, se sono più che comprensibili, da una parte il desiderio di maternità e di paternità e dall’altra la necessità di rimandare o evitare per gravi motivi una gravidanza, quali sono i modi per realizzare l’essere una natura umana?
In presenza di una situazione di sterilità, è più che legittimo ricorrere alle terapie propriamente dette o a forme di assistenza all’atto coniugale, mentre ben diverso è il caso in cui l’intervento del medico e del biologo cancelli la presenza dei coniugi. Certamente, potrà anche accadere che nessuno degli interventi terapeutici possa essere di aiuto alla coppia sterile nel realizzare la legittima aspirazione alla maternità o alla paternità: ma anche in questo caso la risposta non può passare attraverso la violazione del diritto alla vita e alla salute del nascituro e/o a conoscere le proprie origini. Si deve, invece, aiutare la coppia a riscoprirsi feconda nella sterilità: la sterilità è, infatti, un fatto biologico, mentre la fecondità è un fatto che trascende i limiti del biologico: maternità e paternità sono situazioni affettivo dinamiche e comportamentali, ricche di affetti, energie, fantasie, sogni, pensieri, che trovano realizzazione in diversi contesti e progetti di vita, contesti e progetti che superano il pur importante ambito della famiglia.

Ed ancora, il rispetto della natura dell’atto coniugale si realizza nel ricorso alla regolazione naturale della fertilità: i metodi diagnostici della fertilità non impediscono un concepimento né che una vita concepita si sviluppi, ma consentono alla donna, e alla coppia, di individuare i periodi non fertili, potenzialmente fertili o altamente fertili del ciclo mestruale. Una “ricchezza” in mano dei coniugi, che consente loro di conoscersi e di condividere pienamente la responsabilità procreativa. Si interpella, in altre parole, la persona, la coppia; i coniugi non subiscono il dominio di uno sull’altro e della contraccezione su entrambi e non si rendono responsabili dell’uccisione di un innocente: è questa la vera scelta di libertà e non quella della contraccezione o dell’aborto. D’altra parte come non evidenziare che la contraccezione-sterilizzazione-aborto hanno reso la donna “schiava”, facendo ricadere su lei sola la decisione se avere o non avere un figlio o le conseguenze traumatiche di una eventuale scelta abortiva. Ma anche la coppia può divenire “schiava” se oggetto di una politica demografica: la vera libertà sta nella presa di coscienza della propria dignità personale, quella dignità che si incarna in un corpo sessuato, di cui la fertilità è dimensione fondamentale e irrinunciabile.

L’educazione al senso della sofferenza e della morte.

Rientra nella missione educativa dei genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell’ambito familiare” (EV, 92).

Educare alla solidarietà verso chi soffre: l’anziano, il malato grave, il morente hanno bisogno di ascolto, considerazione e vicinanza. E ancora più a monte è necessario educare alla sacralità naturale della vita: l’uomo non è padrone assoluto di se stesso, del proprio corpo e del proprio spirito. La vita del singolo è un bene personale, ma anche un bene sociale che la comunità deve difendere.

In questa opera educativa “remota” vanno coinvolte – accanto alla famiglia – anche le altre agenzie educative:

L’opera educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la morte. In realtà esse fanno parte dell’esperienza umana ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle e di rimuoverle. Ciascuno, invece, deve essere aiutato a coglierne, nella concreata e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono vissuti in stretta connessione con l’amore ricevuto e donato […] e la morte è tutt’altro che un’avventura senza speranza: è la porta dell’esistenza che si spalanca sull’eternità” (EV, 97).

L’educazione alla sofferenza e alla morte deve avere come necessario supporto l’accettazione della sofferenza e della morte e, quindi, del sofferente e del malato, e da un punto di vista culturale l’evidenziazione della faziosa opposizione tra eutanasia e accanimento terapeutico. Tra l’uccidersi e l’accanirsi terapeuticamente vi è la strada dell’assistenza: e questa strada va percorsa al fine di rimuovere la tentazione della persona malata o della società di “esigere” la morte. Una strada con due corsie parallele: la prima corsia è quella della cura, ovvero di tutti quegli interventi finalizzati a rendere più sopportabile la sofferenza e ad assicurare al paziente un accompagnamento umano; la seconda corsia è quella dell’assistenza e della testimonianza accanto alla persona che soffre e ai suoi familiari. Ed è proprio in un’ottica di educazione prossima, che è fondamentale l’accompagnamento del malato lungo la difficile strada della comprensione del dolore e della sofferenza.

5. L’opera formativa va rivolta sia alla società, per rimuovere tutti quei pregiudizi e quelle falsità che sono causa di minaccia alla vita umana e per promuovere quest’ultima su tutti i fronti, sia alla singola persona, perché assuma “un nuovo stile di vita”. Ed i passaggi chiave di questo stile di vita vengono ancora una volta sintetizzati da Giovanni Paolo II al n. 96 della Lettera Enciclica “Evangelium vitae”: il primato dell’essere sull’avere; il primato della persona sulle cose; il passaggio dall’indifferenza all’interessamento per l’altro e dal rifiuto all’accoglienza. Le vie da percorrere, i contenuti, le strategie, sono chiare: manca, solo, il coraggio della testimonianza.