1. La sentenza della Corte Suprema americana Roe v. Wade

Nel decennio degli anni ’70 le Corti supreme degli Stati Uniti dell’Austria, della Francia, della Repubblica Federale tedesca, dell’Italia si pronunciarono sul tema dell’aborto, che era previsto in precedenza come illecito penale in tutti gli Stati di tradizione occidentale, sia di Common Law che di Civil Law. La Corte Suprema degli Stati Uniti nel procedimento Roe ed altri contro Wade, deciso con la sentenza 22 gennaio 1973 (estensore Giudice Harry Blackmun), dichiarò la contrarietà alla Costituzione degli statuti del Texas che vietavano l’aborto ad eccezione dei casi in cui si trattasse di “aborto procurato o tentato in seguito a consiglio medico allo scopo di salvare la vita della madre”. Con tale sentenza la Corte ha riconosciuto alla donna il «diritto» di abortire come contenuto del diritto alla privacy di cui al XIV emendamento della Costituzione. Invero, il diritto di privacy sarebbe abbastanza ampio da comprendere la decisione di abortire. Tale diritto, peraltro, non sarebbe assoluto e soggiacerebbe a talune limitazioni, sì che, almeno ad un certo punto, l’interesse statale alla protezione della salute, dei canoni medici e della vita prenatale, diverrebbe dominante. Nella motivazione della sentenza la Corte suprema ha ritenuto che tale diritto, che lo si voglia fondare sul concetto di libertà personale ovvero sulla limitazione dell’attività statale – opinione quest’ultima accolta dalla Corte Suprema – è talmente  ampio da comprendere la decisione di una donna di porre fine o no alla propria gravidanza. Infatti, ad avviso della Corte, sarebbe manifesto il detrimento che lo Stato imporrebbe alla donna gestante col negarle questa scelta. Potrebbe da ciò derivare “un danno specifico e diretto diagnosticabile in sede medica anche nel primo stadio della gravidanza. La maternità, o l’ulteriore prole, potrebbero costringere la donna ad accettare la vita ed un futuro penosi. Essa potrebbe riceverne un danno psicologico a breve scadenza. La cura del figlio potrebbe mettere alla prova la sua salute mentale e fisica. C’è inoltre la pena, per tutti gli interessati, che si accompagna al figlio non voluto, e c’è il problema di immettere il bambino in una famiglia già incapace, psicologicamente e sotto altri profili, di occuparsi di lui. In altri casi come in questo che ci occupa, possono essere coinvolte le difficoltà ulteriori e il marchio permanente della maternità in chi non è maritata”. Secondo la Corte americana, tuttavia, il «diritto» ad abortire, contro l’opinione della ricorrente, non è assoluto, in quanto lo Stato potrebbe affermare “importanti interessi a proteggere la salute, a mantenere determinati canoni medici, e a proteggere la vita potenziale”. Questi interessi, ad un certo punto della gravidanza, diventerebbero “abbastanza pressanti da giustificare la disciplina dei fattori che governano la decisione di abortire”.

Contro l’argomento dello Stato appellato (il Texas), secondo cui la vita comincia dal concepimento ed è presente durante la gravidanza, sì che lo Stato ha il dovere di proteggere quella vita a partire dal concepimento, la Corte suprema ha affermato: “Non abbiamo bisogno di risolvere il difficile problema di quando la vita comincia. Una volta che gli esperti nelle rispettive discipline della medicina, della filosofia e della teologia non sono in grado di raggiungere un accordo, il potere giudiziario, al punto odierno dello sviluppo delle conoscenze umane, non è in condizione di speculare intorno alla risposta”. In questo modo la Corte ha ribadito che lo Stato del Texas non può, “adottando una teoria della vita” “violare i diritti della donna incinta che sono in gioco”. Un interesse dello Stato può sorgere, sempre secondo la Corte Suprema “alla luce delle attuali conoscenze mediche…approssimativamente alla fine del primo trimestre”. Soltanto a far data da questo momento lo Stato potrebbe “regolare l’operazione di aborto fino al limite in cui la disciplina è ragionevolmente connessa con la preservazione e la protezione della salute materna”.  L’intervento statale potrebbe riguardare i requisiti relativi alla persona che deve effettuare l’aborto; all’abilitazione professionale di tale persona; all’istituto in cui l’operazione deve essere effettuata, se cioè debba essere un ospedale o possa essere una clinica o qualche altro istituto di rango inferiore all’ospedale; all’autorizzazione dell’istituto”.

Dalla motivazione della sentenza seguono le due seguenti regole di diritto e la conclusione conseguenziale che ha annullato la legge antiabortista del Texas.

Primo principio. Per il periodo di gestazione anteriore alla fine del primo trimestre della gravidanza, il medico curante, d’intesa con la paziente, è libero di stabilire, senza che lo Stato intervenga, che, secondo il suo giudizio, si debba por fine alla gestazione. Se questa decisione è raggiunta, il giudizio medico può avere attuazione mediante un aborto libero da interferenze statali.

Secondo principio. Rispetto all’interesse che lo Stato ha per la vita potenziale, il momento decisivo si ha con la vitalità. Ciò perché è da presumere che in questo momento il feto sia capace di vita «significativa» fuori dall’utero della madre. Le norme statali intese a proteggere la vita del feto dopo la comparsa della vitalità avrebbero quindi una giustificazione sia logica che biologica. Se lo Stato è interessato a proteggere la vita del feto dopo la vitalità, esso potrebbe spingersi fino a vietare l’aborto durante questo periodo, salvo che non sia necessario per preservare la vita o la salute della madre.

Conclusione sulla legge del Texas. Alla stregua di questi criteri, l’articolo 1196 del Codice Penale del Texas, limitando gli aborti legali a quelli “procurati o tentati su consiglio medico al fine di salvare la vita della madre” sarebbe troppo ampio. Lo statuto non fa distinzione tra gli aborti effettuati nello stadio iniziale della gravidanza e quelli effettuati più avanti e limita inoltre a un solo motivo, la «salvezza» della vita materna, la giustificazione legale del procedimento. Tale statuto quindi non potrebbe sopravvivere all’impugnativa costituzionale della quale è stato oggetto.  

 

2. Valutazione dei principi affermati dalla sentenza Roe v. Wade

Dopo aver letto i punti cruciali della sentenza Roe v. Wade possono svolgersi alcune considerazioni.

La prima riguarda la radicale contraddittorietà logica e l’assoluta falsità intrinseca del discorso contenuto nella premessa in punto di fatto. La Corte nega, infatti, sull’obiezione che la vita umana avrebbe inizio dal concepimento, che sia possibile conoscere il momento dal quale inizia la vita e sostiene che, comunque, non ci sarebbe alcuna necessità di risolvere il difficile quesito di quando la vita cominci al fine di decidere la corretta disciplina giuridica dell’aborto. Successivamente, quando la Corte tratta il tema relativo al momento in cui diverrebbe giuridicamente rilevante l’interesse dello Stato per la vita definita «potenziale», si dice che tale momento avrebbe inizio con la «vitalità», perché soltanto allora il feto sarebbe capace di vita significativa fuori dall’utero della madre.  Con questa affermazione la Corte esprime, in realtà, contraddittoriamente con la premessa agnostica sull’inizio della vita, il suo chiaro giudizio circa il momento in cui inizierebbe la vita. Anzitutto si dice che la vita dentro l’utero materno è «vita potenziale» dunque, non è ancora vita. In secondo luogo si dice che il momento «pressante» per la tutela della vita potenziale si avrebbe con la «vitalità», poiché soltanto allora il feto sarebbe “capace di vita significativa fuori dell’utero della madre”. Dunque, l’inizio della vita starebbe nel momento in cui il feto sarebbe capace di una vita significativa autonoma. Alla stregua di tali considerazioni è evidente che la Corte americana ha implicitamente, ma assai chiaramente, detto che l’inizio della vita sta nel momento in cui si ritenga di poter attribuire «significatività» alla vita fuori dall’utero della madre. 

Una seconda osservazione può ora svolgersi. Se così stessero le cose – e così stanno secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti – la vita non inizia come un fatto di cui occorre riconoscere la rilevanza normativa, bensì con il sorgere di una significatività della vita al di fuori dell’utero della madre. Da qui la possibilità, non ancora esplicitata fino alle estreme conseguenze nella sentenza del 1973, ma implicita nelle sue premesse, che la vita inizierebbe nel momento in cui si possa attribuire alla stessa un significato. La strada per l’uccisione del neonato dopo la nascita, siccome incapace di vita significativa al di fuori dell’utero della madre, è stata così definitivamente aperta dalla Corte Suprema americana.

Una terza osservazione si impone con riferimento al quadro giuridico che la Corte ha delineato secondo una sequenzialità a tre fasi. Prima fase, fino al termine del primo trimestre: «diritto» di aborto, siccome ricompreso nel diritto alla privacy, secondo criteri di assoluta libertà decisionale e di autonomia esecutiva. Seconda fase: dalla fine del primo trimestre al momento in cui il feto diventa vitale, quindi suscettibile di vita autonoma (nel 1973 fino alla ventottesima settimana, oggi fino alla ventiquattresima o anche ventitreesima): in questa fase sarebbe consentito allo Stato fissare delle limitazioni all’aborto, ma non in vista della tutela del feto, bensì in vista della salute della madre. Di qui l’elencazione di eventuali requisiti relativi alla persona che deve effettuare l’aborto e alla sua abilitazione professionale, e così via. Terza fase: successiva al sorgere della «vitalità». Soltanto in questo stadio avrebbero “una giustificazione sia logica che biologica” “le norme statali intese a proteggere la vita del feto”.

La portata dirompente di questa sentenza non può essere trascurata, poiché in essa sono contenute le tesi più radicali circa il diritto di uccidere non soltanto il feto, ma anche il neonato, ove incapace di vita significativa. Taluno ha parlato di un processo – una volta reso lecito l’aborto in qualche caso – verso la sempre maggiore legalizzazione dell’abortività secondo la logica del piano inclinato. Nella realtà, se ben si considerano le cose, il piano inclinato sta soltanto nella esecuzione di un progetto, ma non nella sua esistenza, già completamente contenuto nella motivazione e nel dispositivo della Roe v. Wade. Aborto come «diritto» assolutamente libero nei primi tre mesi della gravidanza; aborto limitabile per l’attenzione alla salute della donna dai tre ai sei mesi della gravidanza; aborto limitabile anche nell’interesse del feto, soltanto quando esso sia suscettibile di una vita «significativa» fuori dall’utero materno. E’ evidente, a questo punto, che tutti gli sforzi delle case farmaceutiche vennero concentrati, dopo il riconoscimento del «diritto» all’aborto, al ritrovamento di sostanze tossiche che «liberassero» la donna, già liberata dal dovere morale di rispettare la vita che porta in grembo, dalla preoccupazione e dal rischio di ricorrere al medico per l’aborto chirurgico. Peraltro, la sentenza in esame, riconosce implicitamente la totale disponibilità dell’embrione umano, deprivandolo di ogni tutela. Tutte le operazioni, a fine di fecondazione artificiale, che conducono alla distruzione dell’embrione, nonché tutte le sperimentazioni sull’embrione divengono, dopo la Roe v. Wadre, «legali» sul piano del diritto positivo.

Come più sopra osservato, la Roe v. Wade, pronunciata dalla Corte del paese occidentale più influente, per decisione di giudici osannati da tutto l’universo giuridico mondiale di tendenza «liberal», toglie non soltanto al concepito, ma altresì al nato incapace di vita «significativa», il diritto alla vita. La Roe v. Wade non istituisce un compromesso, ma è una sentenza che statuisce un paradigma nuovo che contrasta radicalmente con il principio insito nella tradizione etica e giuridica dell’occidente cristiano, che ciascun individuo, anche se ancora non uscito dal grembo materno o anche se soltanto embrione umano, ha un diritto assoluto alla vita, per «diritto naturale», che si ricava dai dati forniti dalle scienze sperimentali secondo cui, alla fusione dei due gameti, un nuovo reale individuo umano incomincia la propria esistenza, o ciclo vitale, durante il quale, realizzate le varie condizioni necessarie e sufficienti, porterà a compimento autonomamente tutte le potenzialità di cui è intrinsecamente dotato. 

3. La sentenza del Tribunale costituzionale della Repubblica federale tedesca.

Le considerazioni svolte implicano che la difesa della vita nascente debba essere condotta sulla base di principi fermi e inconcutibili.

Tra le sentenze costituzionali menzionate in apertura l’unica che si sia pronunciata in tema di princìpi è la sentenza del Tribunale costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, che, per motivi opposti a quelli espressi dalla Roe v. Wade, ha dichiarato il 25 febbraio 1975 l’incompatibilità del paragrafo 218 a) c.p., nella forma della V legge di riforma del diritto penale, con l’art. 2 co. 2 alinea 1 in collegamento con l’art. 1 co. 1 Legge fondamentale, nella misura in cui escludeva la punibilità dell’interruzione della gravidanza anche quando non esistessero motivi che abbiano consistenza di fronte all’ordine costituzionale dei valori.

Importa osservare che la sentenza tedesca si richiama nella sua motivazione ad una forte esigenza di tutela dei diritti umani fondamentali che erano stati conculcati in modo aberrante nel periodo del totalitarismo nazionalsocialista. Vale la pena ricordare i seguenti passaggi contenuti nella motivazione della sentenza: “A fondamento della Costituzione si trovano princìpi della struttura statale che possono spiegarsi soltanto con l’esperienza storica e con il contrasto morale e spirituale rispetto al precedente sistema del nazionalsocialismo. Di fronte all’onnipotenza dello Stato totalitario che pretendeva per sé il dominio senza limiti su tutti i settori della vita sociale, e per il quale il rispetto anche per la vita del singolo, di principio, non significava niente in confronto al perseguimento dei suoi fini statali, la Costituzione ha costruito un ordinamento legato a un sistema di valori che pone il singolo uomo, nella sua dignità, al centro di tutte le sue norme. Come la corte costituzionale federale ha dichiarato fin dai primi tempi (BVerfGE 1, 1 [12]), a fondamento di questa concezione è l’idea che l’uomo, nell’ordine della creazione, possiede un valore proprio ed autonomo che esige costantemente il rispetto incondizionato della vita di ogni singolo, anche della vita di colui che può sembrare socialmente «senza valore»; e esclude quindi che si possa distruggere tale vita senza una ragione giustificatrice. Questa scelta fondamentale della Costituzione determina la struttura e l’interpretazione dell’intero ordinamento giuridico”.

Secondo il Tribunale costituzionale l’art. 2 comma 2 alinea 1 GG protegge come bene giuridico autonomo la vita che si sviluppa nel grembo materno. In una ulteriore fase il Tribunale riconosce che “L’espressa menzione, nella legge fondamentale – diversamente che nella Costituzione weimariana – del diritto, in sé ovvio, alla vita, si spiega principalmente come reazione all’ «annientamento della vita non degna di essere vissuta», alla «soluzione finale» e alle «liquidazioni», attuate dal regime nazionalsocialista come compiti dello Stato. L’art. 2 comma 2 alinea 1 GG [Grund Gesetz – Legge fondamentale] contiene, così come l’abolizione della pena di morte attraverso l’art. 102 GG, il riconoscimento di una concezione statale che si pone in accentuato contrasto con gli ideali di un regime politico in cui la vita umana aveva scarso significato: un regime politico che arrogatosi il diritto di vita e di morte sul cittadino ne abusava in modo illimitato».

I fondatori della Costituzione della Repubblica federale tedesca del dopoguerra avevano ben nitido il ricordo, come rammenta il Tribunale costituzionale nella sentenza menzionata, della barbarie nazionalsocialista, che, per più di un decennio, aveva insanguinato la Germania e il mondo intero. Risuonava certamente nelle loro orecchie il grido del Vescovo di Münster e più tardi Cardinale Clemens August Graf von Galen che il 3 agosto 1941 aveva proclamato davanti ai fedeli della Diocesi di Münster: “Guai agli uomini, guai al nostro popolo tedesco, se il sacro comandamento «non uccidere», inscritto da Dio, nostro Creatore, fino dall’origine nella coscienza dell’uomo, che il Signore ha ribadito sul monte Sinai tra tuoni e fulmini, non soltanto è violato, ma addirittura è tollerato che venga violato e rimane impunito». Dietrich Bonhoeffer, il teologo assassinato dai nazionalsocialisti pochi giorni prima della fine della guerra, ha lasciato questo suo testamento a proposito dell’aborto: “L’uccisione del frutto nel ventre materno costituisce offesa del diritto alla vita che viene data da Dio. La risposta alla questione, se si tratti o meno già di un uomo, confonde soltanto la semplice realtà che Dio già qui in ogni caso voleva l’esistenza di un uomo e che a questo uomo in divenire è stato tolta volontariamente la vita. E ciò non costituisce altro che un assassinio. Che i motivi, conducenti a un tale fatto possano essere tra loro molto differenti e che, là ove si tratta di un fatto provocato da disperazione in una situazione umana ed economica di abbandono e di necessità, la colpa ricada più sulla società che sul singolo…, tutto questo concerne indubbiamente l’aspetto personale e interiore della responsabilità di colui che decide, ma non modifica in nulla la realtà che si tratta di assassinio”.

Le «indicazioni» sociali o eugenetiche che compaiono nella legge italiana del 1978, che giustificherebbero la decisione di uccidere il feto nel grembo materno, sono del tutto simili alle indicazioni che, a partire dal 1939, il Führer dettò ai medici tedeschi per procedere all’eutanasia di coloro che furono definiti, già nel famoso scritto pro/eutanasia di Karl Binding e Alfred Hoche, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (1920), portatori di vite senza valore. Ed è straordinariamente sintomatico che la prima depenalizzazione nell’Europa centro occidentale del delitto di aborto avvenne nella Germania nazista con il § 8 dell’Ordinanza per la protezione del matrimonio, della famiglia o della maternità del 9 marzo 1943, alla cui stregua: “le persone, che non sono cittadini tedeschi di etnia germanica sono esentati dall’applicazione delle prescrizioni che concernono la punizione dell’aborto”. Come ha notato Hans Ris nel suo scritto “Das Lebensrecht des ungeborenen Kindes als Verfassungsproblem“ (1984) “il cinismo che viene allo scoperto in questa disposizione mette in luce una evidente convergenza tra il biologismo repressivo dei governanti nazionalsocialisti e l’edonismo permissivo dei sostenitori liberalsocialisti di una umanità felice”.

Contro la deriva negatrice del diritto alla vita umana il Tribunale costituzionale tedesco, nella citata sentenza del 1975, ha statuito che l’obbligo dello Stato di tutelare ogni vita umana può dedursi direttamente dell’art. 2 comma 2 alinea 1 della Legge fondamentale. Tale obbligo si ricava – così continua la sentenza tedesca – espressamente dalla norma dell’art. 1 comma 1 alinea 2 Legge fondamentale: “infatti la vita in sviluppo è ricompresa nella tutela che l’art. 1 comma 1 GG concede alla dignità umana. Ad ogni esistenza umana spetta dignità, non è importante se il titolare è consapevole di questa dignità e se sappia tutelarla da sé. Le capacità potenziali implicite fin dall’inizio nell’essere umano  sono sufficienti a fondare la dignità umana”. Né la mancanza di capacità giuridica esclude che si possa parlare a riguardo del nascituro di «diritti fondamentali». Infatti, secondo il Tribunale costituzionale federale, “i diritti fondamentali non contengono soltanto diritti soggettivi di difesa contro lo Stato, bensì incorporano contemporaneamente un ordinamento oggettivo di valori che ha vigore di decisione giuridico-costituzionale fondamentale per tutte le branche del diritto e che dà direttive ed impulsi alla legislazione, all’amministrazione e alla giurisdizione”. L’obbligo dello Stato di tutelare la vita in sviluppo esiste, in via di principio, secondo il Tribunale, anche nei confronti della madre: “Il diritto della donna di libero sviluppo della sua personalità” è limitato dal “diritto degli altri” “dall’ordinamento costituzionale” e dalla “legge morale”. Non può mai “comprendere il potere di intaccare la sfera giuridica protetta di un altro …. o addirittura di distruggerlo togliendogli la vita stessa, e tanto meno quando secondo la natura dell’oggetto, esiste una particolare responsabilità proprio per questa vita”.

Secondo il Tribunale costituzionale tedesco: “ Un compromesso che garantisca la tutela della vita del nascituro e insieme conceda alla gestante la libertà dell’interruzione della gravidanza non è possibile, poiché l’interruzione della gravidanza significa sempre annientamento della vita anteriore alla nascita. Nel confronto che si rende così necessario: “si deve tener conto dei due valori costituzionali nel loro rapporto con la dignità umana come punto centrale del sistema di valori della Costituzione. Orientandosi in conformità all’art. 1 co. 1 GG la decisione deve essere a favore della preferenza della tutela della vita dell’embrione piuttosto che del diritto di autodeterminazione della gestante. Costei può vedersi pregiudicata dalla gravidanza, dalla nascita e dall’educazione del bambino in alcune possibilità di sviluppo della propria personalità. Il nascituro al contrario con l’interruzione della gravidanza viene annientato. In base al principio del bilanciamento più riguardoso fra posizioni concorrenti tutelate dalla Costituzione …deve essere pertanto data la precedenza alla tutela della vita del nascituro. Questa preferenza vale di principio per tutta la durata della gravidanza e non può essere messa in discussione per un determinato periodo”. 

4. La sentenza italiana del 18 febbraio 1975, n. 27 e la legge nr. 194/1978.

Quando la Corte costituzionale italiana intervenne con la sua pronuncia la riflessione giuridico-costituzionale era già esauriente, perché i princìpi opposti, quelli rispettivamente proclamanti il «diritto» di aborto e il diritto alla vita dell’embrione e del feto, erano già stati esposti con ricchezza di argomentazioni giuridiche.

La sentenza italiana pretese di seguire una via di compromesso tra le due posizioni, ma in realtà fu inclinata decisamente a favore della posizione favorevole alla libertà dell’aborto. Richiamo al riguardo i princìpi di diritto statuiti dalla Corte italiana. Il primo suona così: “Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute della madre che è già persona, e quello dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Il secondo è così formulato: “La liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarlo; ed è obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l’interruzione della gravidanza venga effettuata senza seri accertamenti sulla realtà e sulla gravità del danno che potrebbe derivare al benessere fisico ed all’equilibrio psichico della madre dal proseguimento della gestazione”.

Ora, con il primo principio, la Corte sfugge alla cogenza del dato biologico/naturalistico, che impone il riconoscimento nell’embrione  di un individuo umano autonomo, e si rifugia nel sofisma pseudo/filosofico che l’embrione non sarebbe «persona», allo scopo di istituire una differenza di valore tra la donna, già persona, e l’embrione, non ancora persona. Sta di fatto che, con questo trapasso a una considerazione storico/culturale (implicante la determinazione filosofica del concetto di persona), la Corte misconosce all’embrione umano il diritto fondamentale alla vita. Con ciò, sia pure senza proclamare che l’aborto sia un «diritto» della donna, depriva l’embrione della indispensabile tutela giuridica. Con il secondo principio la Corte áncora la «liceità» dell’aborto alla seria verifica della gravità del danno che potrebbe derivare alla salute fisica e al benessere psichico della donna dal proseguimento della gravidanza. Dichiara con ciò come costituzionalmente legittimo un sistema di indicazioni imperniato sulla salute fisica e psichica della madre. La legge n. 194/1978 va oltre, rispetto alla pronuncia della Corte costituzionale, presentando accentuati aspetti di incostituzionalità rispetto allo stesso enunciato della sentenza n. 27/1975, che dovrebbe costituire – qui si dichiara comunque la sua radicale ingiustizia – il diritto costituzionale vigente. Infatti, a parte le enunciazioni meramente verbalistiche – tali poiché non si traducono in disposizioni prescrittive – di cui all’art. 1, la disciplina effettiva ricalca perfettamente quella suggerita dalla Corte Suprema americana secondo un sistema a tre fasi: libertà assoluta di aborto nei primi tre mesi della gravidanza; controllo medico sull’aborto fino a sei mesi; tutela del concepito quando esso sia suscettibile di vita autonoma. L’incostituzionalità della disciplina, si intende, rispetto allo stesso enunciato filo abortista della Corte costituzionale, sta in ciò, che essa non áncora, per tutto il periodo della gravidanza, dunque, anche per il primo trimestre, la «liceità» dell’aborto alla verifica seria della gravità del danno alla salute, fisico o psichica, derivante dal proseguimento della gravidanza.

La Corte costituzionale, pur sollecitata in molteplici guise negli anni successivi al 1978, sia a riguardo delle decisioni circa l’ammissibilità dei referendum abrogativi proposti, secondo varie intenzioni e direzioni, sia nei procedimenti provocati da eccezioni di sospetta incostituzionalità della legge da parte dei giudici ordinari, non ha mai inteso discostarsi dai princìpi enunciati con la sentenza del 1975, confermando implicitamente, ma chiaramente, la pretesa conformità alla Costituzione della legge n. 194/1978. 

5. Le Dichiarazioni internazionali sui diritti umani.

Occorre ora domandarsi se il diritto alla vita del concepito trovi riconoscimento nelle Dichiarazioni internazionali sui diritti umani.

L’attenzione deve essere rivolta anzitutto alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, fatta dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, di cui ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario.

Sul piano strettamente testuale la Dichiarazione del 1948 non contempla espressamente il diritto alla vita del nascituro. Essa, però, fondata su una concezione dignitaria dell’uomo, contiene disposizioni preziose che possono essere interpretativamente  valorizzate anche per la tutela del nascituro. Ciò è sicuramente possibile in quanto la Dichiarazione del 1948 sfugge al postulato legalistico che inficia altre Dichiarazioni sui Diritti, riconoscendo i diritti di ogni individuo umano come dato giuridico inerente a ogni essere umano, in quanto tale, indipendentemente dalla legge degli Stati. I diritti fondamentali, tra cui, in primis, il diritto alla vita, sono precedenti alla legge degli Stati, di cui questi debbono tenere obbligatoriamente conto, ma che sussistono anche senza l’espresso riconoscimento delle leggi positive. In questa prospettiva, che – come reazione al totalitarismo e alle aberrazioni  dei decenni precedenti, secondo cui la legge dello Stato sarebbe stato il criterio ultimo ed esclusivo di giustizia degli atti umani – ripropone la vigenza universale del diritto naturale, come inerente alla natura e alle inclinazioni al bene di ciascun essere umano – debbano pure essere valorizzati, anche con riferimento alla tutela del concepito, tanto l’art. 1 della Dichiarazione, che proclama il principio secondo cui: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, quanto l’art. 25, 2° co., alla cui stregua: “La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza”, quanto l’art. 29, che proclama al primo comma che: “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità” e, al secondo comma, che: “Nell’esecuzione dei suoi diritti e della sua libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica”.

Come si può intravedere dalle citazioni fatte, la Dichiarazione Universale, pur risultando il frutto di un compromesso tra diverse impostazioni filosofiche, è basata sul principio della «dignità» dell’essere umano, implicando una struttura normativa che, riconoscendo la sua centralità nell’ordinamento, contempla diritti individuali, ma anche diritti sociali ed economici, e stabilisce la limitazione della libertà individuale in funzione delle esigenze del bene comune e della morale. Quindi, all’interno di questa struttura dignitaria dell’essere umano, estranea alla deriva individualistica che la teoria dei diritti umani ha assunto in molta parte della successiva giurisprudenza costituzionale dei vari Stati e dell’Unione Europea, può essere riproposto in maniera giuridicamente solida il principio della tutela anche del concepito, come autonomo soggetto appartenente all’umanità e, in quanto tale, dotato di una dignità inconcutibile per il solo fatto della sua esistenza.

Una notevole rilevanza assumono altresì le Dichiarazioni pronunciate dalle Nazioni Unite nel 1959 sui Diritti del fanciullo e, da ultimo, il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con Legge 27 maggio 1991, n. 176. La Dichiarazione del 1959 contiene nel suo preambolo una importante affermazione, valida per fondare il diritto alla tutela giuridica del concepito, del seguente testuale tenore:

Considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita”.

Il principio quarto della Dichiarazione poi espressamente proclama:

Il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e le protezioni sociali adeguate, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il fanciullo ha diritto ad una alimentazione, ad un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguate”.

La Convenzione sui Diritti dell’infanzia del 1989, infine, contiene nel suo preambolo due importanti princìpi. Il primo, relativo alla famiglia, indicata come unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri, in particolare dei fanciulli: per questi motivi essa deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività. Il secondo principio, indicato come sviluppo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, afferma che:

il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale approfondita, sia prima che dopo la nascita”. 

6. Conclusione.

Affinché questi principi si traducano in prescrizioni concrete e operative sul piano giuridico occorre compiere una immensa opera culturale – sul piano filosofico e giuridico, ma anche di carità sociale – per rovesciare la deriva individualistica e relativistica che hanno preso, almeno fin dall’inizio degli anni ’60, la teoria e la pratica giudiziaria dei diritti umani. Mary Ann Glendon ha di recente delineato il carattere cruciale che assumono le sfide contemporanee alla sfera dei diritti umani poste dal relativismo etico e sollecitate prepotentemente da specifici gruppi di persone e di interesse. Due aspetti rilevanti della sfida sono costituite dalla selettività con cui il tema dei diritti umani viene presentato e dal tema del loro fondamento. Quanto al primo aspetto, per quanto la Dichiarazione di Vienna del 1993 delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Uomo abbia espressamente affermato che essi sono “universali, indivisibili ed interdipendenti“, molte agenzie delle Nazioni Unite, dell’Unione europea e vari governi, per non menzionare gruppi nutriti di organizzazioni non governative, sono coinvolte nella pratica di estrapolare certi diritti dal loro contesto, ignorando la loro relazione con gli altri diritti. La risposta a questa sfida sta nel mettere in relazione tutti i diritti individuali con i doveri dell’uomo verso il creato, verso se stesso, verso gli altri e verso Dio. Dunque, la risposta fondamentale alla sfida sta nel rimettere al centro dell’universo giuridico il diritto alla tutela dell’essere umano più fragile e povero che vi sia, cioè l’essere umano concepito ma non ancora nato.

Il secondo aspetto della sfida consiste nella riscoperta del fondamento dei diritti umani. Su questo punto, se i diritti umani appartengono realmente a tutti gli uomini indistintamente, occorre ammettere che vi è una facoltà dell’uomo – la sua ragione – che è in grado di riconoscere le verità essenziali circa la natura e il fine dell’uomo, essere creato da Dio, che porta inscritta nella sua coscienza la traccia di una legge eterna, nel rispetto della quale egli realizza il bene proprio e del suo prossimo, non soltanto nel tempo, ma anche per la vita oltre la morte. Soltanto sul riconoscimento, prima filosofico e culturale e poi giuridico, di questi princìpi, è possibile avviare una ri-fondazione dei percorsi dei popoli verso la tranquillità e serenità di un ordine di pace. Prima di tutto occorre riacquistare il senso del nostro limite di creatura nel ricordo dell’ammonimento del Profeta Isaia (5,20):

Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”.