Il senso cristiano della sofferenza

Inigo Ortega

In questi ultimi anni, la parola della Chiesa sulle questioni che riguardano la vita umana, dall’aborto all’eutanasia, è stata piuttosto abbondante. La Chiesa ha realizzato una difesa profonda del principio dell’inviolabilità dinanzi alle aggressioni contro la vita, e ai nuovi problemi che sono sorti con lo sviluppo della medicina e l’evoluzione delle diverse tecniche mediche.
Facendo una citazione soltanto dei documenti più importanti, si dovrebbero almeno nominare le tre dichiarazioni pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: sull’aborto nel 1974, sull’eutanasia nel 1980, e sulla procreazione assistita e il rispetto all’embrione nel 1987; a queste si deve aggiungere la Carta degli Operatori Sanitari; la Dichiarazione sulla determinazione del momento della morte; i documenti della Pontificia Accademia per la Vita sulla clonazione, sull’eutanasia e su i xenotrapianti, e soprattutto, la prima enciclica sulla Bioetica, l’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II.

Sotto certi aspetti si potrebbe parlare di una super-produzione magisteriale, sia per la quantità sia per la qualità dei documenti. Ma, qual è il motivo di quest’intensa attività? Per il magistero della Chiesa, la prima preoccupazione sul piano morale non è il comportamento, non è quello che si fa; il punto centrale è quello che s’insegna (ad esempio: se l’adulterio diventasse mille volte più frequente, non sarebbe un problema magisteriale; ma se una persona autorevole affermasse che l’adulterio non è immorale, il Magistero avrebbe l’obbligo d’intervenire per chiarire la verità con la sua autorità). La causa dell’abbondante produzione non sarà perciò il diffondersi delle minacce contro la vita (non è la piaga dell’aborto, né la distruzione d’embrioni, né il diffondersi dell’eutanasia), ma il consolidarsi di una cultura che giustifica questi delitti contro la vita e pretende non solo l’impunità, ma il loro riconoscimento come diritti, che si possano praticare in libertà, ed anzi, con prestazioni gratuite da parte delle strutture sanitarie.

Il Magistero non si è limitato però a fornire giudizi circa la liceità o illiceità dei diversi comportamenti. Soprattutto nelle ultime decadi ha offerto argomenti, soluzioni e ragionamenti. È una forma nuova d’insegnamento, diversa a quella d’altre epoche, che non si limita a condannare ma offre risposte. Che poi questi argomenti siano stati più o meno convincenti è un altro problema: i fedeli devono considerare che il magistero della Chiesa interpreta con autorità il messaggio morale di Cristo, e quest’interpretazione autorevole non dipende esclusivamente dagli argomenti proposti, ma dal fatto che la Chiesa parla con l’autorità promessa da Cristo e garantita dall’assistenza dello Spirito Santo.

Ad esempio, gli argomenti magisteriali sulla fecondazione extra corporea e soprattutto sulla fecondazione omologa [erroneamente ritenuta da tanti come la “fivet cattolica”, mentre la Chiesa considera inaccettabile sia l’omologa sia l’eterologa; l’errore è forse nato dal fatto che un gruppo di parlamentari cattolici, vedendo impossibile impedire l’approvazione di una legge che permettesse la fecondazione in vitro omologa, si sono battuti per far sì che la legge non permettesse l’eterologa]. Ci sono tante persone, buone persone, per i quali questi argomenti, sulla fecondazione omologa, non sono concludenti.

Li possiamo ricordare: sulla base del principio fondamentale della morale sessuale che afferma che l’uomo non può rompere di sua iniziativa l’unione che c’è fra i due significati dell’atto coniugale, l’unitivo e il procreativo (cfr. Paolo VI, Humanae vitae, 12), la Chiesa considera che la procreazione artificiale sia dannosa sia per il bene della coppia sia per il bene dei bambini. I coniugi non diventano genitori uno attraverso l’altro, ma per mezzo dell’attività di un terzo (che in un certo modo ha anche una “paternità”). I figli sono originati non da un atto d’amore ma da un atto tecnico: sono “fabbricati”, non “generati”, sono un “prodotto” della tecnologia, e come tali ordinati, selezionati, misurati, scartati, immagazzinati, congelati, e ricevuti con dispiacere se il prodotto finale non è soddisfacente. Di conseguenza, per i gravissimi problemi morali che si sollevano in relazione al rispetto dovuto alla sessualità e alla dignità della persona, si devono considerare moralmente illecite.

Ma la Chiesa non si limita a riprovare questo comportamento. Ai coniugi che si trovano in questa situazione si raccomanda:

“per prima cosa di implorare Dio di concedere loro discendenza, di benedirli come benedisse i Patriarchi del Vecchio Testamento; e poi sarebbe buono ricorrere ad un buon medico, sia lei che lui. Se, nonostante tutto, il Signore non da loro dei figli, non devono vedere in questo alcuna frustrazione: devono essere contenti di scoprire in questo stesso fatto la volontà di Dio nei loro confronti. Molte volte il Signore non dà figli perché chiede di più. Chiede che lo stesso sforzo e la stessa delicata dedizione vengano posti al servizio del nostro prossimo, senza la legittima soddisfazione umana d’aver avuto figli; non c’è quindi motivo per sentirsi falliti e tristi” (Josemaría Escrivá, Colloqui, 96).

Al riguardo insegna Giovanni Paolo II che

“la sterilità fisica infatti può essere occasione per gli sposi di altri servizi importanti alla vita della persona umana, quale esempio l’adozione, le varie forme di opere educative, l’aiuto ad altre famiglie, ai bambini poveri o handicappati” (Familiaris consortio,14).

Ci sono fedeli, dicevamo, che considerano questi argomenti non convincenti, e perciò, pensano che non siano autorevoli. Forse dimenticano che il giudizio della Chiesa è quello autorevole e che per tanto richiede l’adesione d’ogni cristiano, indipendentemente della forza delle argomentazioni. Se uno non è d’accordo con gli argomenti, non c’è nessun problema, può esigere dai teologi una riflessione più profonda sul tema, ma non può dire che la Chiesa si è sbagliata.
Non possiamo perdere di vista la carica emotiva che comportano queste situazioni. Tante volte gli argomenti servono a poco davanti alla sofferenza, alla frustrazione. Non di rado tentiamo di convincere le persone con ragionamenti, dimenticando che, se non si sa gestire correttamente il dolore, gli argomenti non servono a nulla e che il dolore impedisce di pensare con correttezza. La frustrazione degli sposi che non possono avere figli, l’angoscia della madre che teme di mettere al mondo un figlio handicappato, il senso di inutilità del malato terminale: sono tutte situazioni accomunate dalla sofferenza. Ed è questa la sofferenza alla quale dare anzitutto un aiuto. Prima di andare avanti, bisogna dire che la sofferenza umana non solo desta compassione, ma desta anche rispetto. Questo particolare rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto all’inizio di quanto verrà espresso successivamente.
Nel principio del nostro discorso, dicevamo della diffusione di una cultura che giustifica i delitti contro la vita. Il Papa l’ha qualificata come cultura della morte. Alla sua radice troviamo un graduale oscuramento del valore assoluto d’ogni vita umana, una sostituzione del principio d’inviolabilità della vita con quello di una sempre crescente qualità di vita: la vita ha un valore solo se si è in possesso di certe condizioni di benessere, produttività ed efficienza, senza le quali la vita è priva di valore e di senso.
Di conseguenza, nel seno di questa cultura è del tutto impossibile trovare un senso ed un valore della sofferenza. Anzi, questa viene considerata come l’unico e vero male dell’uomo, il male assoluto, e perciò, tutto ciò che sia in grado di prevenirla o eliminarla risulta lecito. All’angoscia della madre che teme di aspettare un figlio handicappato, la cultura della morte offre la “soluzione” dell’aborto; e al malato in fase terminale, offre “l’uscita” dell’eutanasia. Vale a dire, questa cultura, reagisce di fronte al dolore cercando sempre di eliminarlo ad ogni costo, e quando non può eliminare la causa, tende ad eliminare il soggetto che soffre o fa soffrire.
Forse la causa di ciò è la convinzione che l’enorme progresso scientifico e tecnologico ha conferito all’uomo il potere di dominare tutto con la scienza, di essere in grado risolvere tutti i problemi. Ma la realtà non è questa. Non si può eliminare ogni sofferenza. Questa sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall’esistenza dell’uomo. Perciò il tentativo di eliminare ogni forma di dolore è un’utopia destinata all’insuccesso.
Indubbiamente, la sofferenza propria e altrui, la morte degli esseri amati, le grandi tragedie delle quali, in un modo o nell’altro, tutti siamo partecipi, suscitano domande inquietanti: perché? Perché ora? Perché a me? Perché pro¬prio il mio bambino deve nascere con malformazioni? Che significato ha l’agonia di un parente prossimo? Come affermare che Dio mi ama se ha reso infecondo il mio matrimonio? E il primo servizio che si dovrebbe prestare a chi soffre è l’aiuto nella ricerca del significato della sua sofferenza: altrimenti, si rischia di cadere nella ribellione. Sul senso della sofferenza la Parola della Chiesa ha tante cosa da dire.
La sofferenza non lascia indifferente nessuno. Come spiega Giovani Paolo II, a differenza degli animali, l’uomo si chiede il “perché” del soffrire “e soffre in modo ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta” (Salvifici doloris,10). Alcuni nella ricerca del senso della sofferenza si sono avvicinati a Dio: sono coloro che sanno ricevere la tribolazione con fede. Altri se ne sono allontanati, indotti a dubitare della bontà del Signore che – essendo onnipotente – permette la sofferenza; e arrivano perfino a portare quella dolorosa esperienza come prova per negare l’esistenza del Creatore.
Il problema è che il senso della sofferenza, del dolore e della morte non trova un’adeguata risposta sul piano meramente naturale. C’è bisogno di una risposta soddisfacente, anche se questa è sempre difficile, sia quando l’uomo la chiede ad un altro uomo, sia quando la chiede a Dio. E quando non si riceve una risposta adeguata alla domanda, si arriva a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio. Ma si può dire che forse l’apporto più importante della sofferenza per l’uomo è quello di risvegliarne la parte spirituale. Il grande scrittore inglese C.S. Lewis affermava in questo senso che “il dolore è il megafono che Dio utilizza per svegliare un mondo di sordi” (Il problema della sofferenza, VI).

La tendenza a fare il salto al piano soprannaturale è pienamente logica, spontanea, anche nelle persone che non hanno fede. Benché esista sempre il rischio di un rinchiudersi su se stesso, l’esperienza mostra come, nella sofferenza, il cuore si apre con più facilità a Dio. Come afferma S. Agostino, Dio vuole darci qualcosa, ma non può perché le nostre mani sono piene. Non ha un posto dove lasciare i suoi doni (Esposizione sui Salmi 102,10). Per questo non è raro che nei momenti più duri della vita, quando “le nostre mani sono vuote”, l’uomo -abbia fede o no- cerchi in Dio un senso, una spiegazione, una risposta, una causa delle sue sofferenze.
Ma prima di imbarcarsi nello studio del senso soprannaturale della sofferenza mi sembra d’obbligo fare due precisazioni. La prima è che questo senso è un mistero. Ciò non vuole dire che sia dal tutto impossibile trovare una risposta, che sia un argomento inspiegabile, ma piuttosto che è una verità così profonda che non si potrà mai arrivare in fondo, esaurire l’argomento, abbracciarlo completamente o fare luce su ogni interrogativo.
La seconda precisazione è che mi propongo di affrontare lo studio del senso della sofferenza con l’aiuto della vita e dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. I motivi sono evidenti. È una persona che ha approfondito il mistero del dolore, non solo dal punto di vista teorico (come stiamo facendo noi adesso) ma che lo ha vissuto, e il suo modo di viverlo è un esempio ed una lezione continua sul senso cristiano della sofferenza umana.
Lo stesso Papa è l’autore di un documento molto importante sulla sofferenza, la Lettera Apostolica Salvifici doloris (il valore salvifico del dolore), una ricerca sul senso del dolore. Lo studio parte dalla lettura della Sacra Scrittura, “il grande libro sulla sofferenza” come lo chiama il Romano Pontefice.

Nel corso dell’Antico Testamento si evoca molte volte l’idea che la sofferenza che percuote l’uomo è la conseguenza diretta dei peccati suoi o dei suoi famigliari. Il pensiero di una retribuzione terrena e immediata per il bene fatto, e di un castigo pure terreno e immediato per il peccato, offre una spiegazione causale della sofferenza, saldamente legata ad una stretta nozione di giustizia, che è piuttosto rassicurante: se io faccio il bene, Dio mi premierà in questa vita; ma se faccio del male, sarò punito e soffrirò ugualmente in questa vita.
Secondo questa visione, infatti, la sofferenza colpisce sempre l’uomo come pena per un reato; viene mandata da un Dio assolutamente giusto e trova la propria motivazione nell’ordine della giustizia. La riparazione dell’offesa fatta a Dio per il peccato avviene attraverso un sacrificio adeguato alla gravità dell’offesa e alla dignità dell’offeso. Troviamo così una prima risposta al senso del dolore: la retribuzione diretta, vale a dire, la sofferenza come conseguenza del peccato, come castigo del peccatore, come pena per la trasgressione della legge divina.
Questa idea racchiude un’indubbia verità, anche se la logica della retribuzione temporale diretta non spiega tutto. Anzi non riesce a fornire il senso soprattutto della sofferenza dell’innocente, che in molti uomini provoca scandalo o, almeno, una grande difficoltà di comprensione. Infatti, tante volte il dolore di una creatura senza colpa è più difficile da sopportare che il dolore proprio, per la difficoltà di trovarne il senso, per l’apparente ingiustizia che presuppone. Come non pensare, ad esempio, alla sofferenza di una madre davanti ad una grave malattia del suo figlio appena nato?
Questa crisi viene evidenziata già in diversi passi dell’Antico Testamento e, in particolare, quando si legge il Libro di Giobbe. La storia di questo uomo giusto, il quale senza colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze, è nota a tutti. Prima perde i beni, poi i figli, più tardi la salute, quando viene colpito da una grave malattia, e infine – forse lasciata per ultima per essere la prova più crudele – il rispetto della moglie. In questa situazione riceve la visita di tre vecchi conoscenti, che cercano di presentare le torture che lo affliggono come castigo per qualche grave peccato che lo stesso Giobbe non vuole riconoscere. La sofferenza, secondo il senso della logica della retribuzione, colpisce infatti sempre l’uomo come pena per i suoi peccati; e viene inviata da un Dio che è assolutamente giusto.
Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. Egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita e l’assenza di peccato. La sua, ripete insistentemente, è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza. Alla fine del racconto, Dio stesso smentisce le accuse degli amici e proclama l’innocenza di Giobbe. La logica della retribuzione non la si può “applicare in maniera esclusiva e superficiale. Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed abbia carattere di punizione, e la figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale” (Salvifici doloris,11).
Nel Libro di Giobbe la Rivelazione pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell’uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non era stato punito per i suoi peccati, non vi erano gli estremi per infliggergli una pena, anche se fu sottoposto ad una durissima prova. L’unica luce sull’argomento la troviamo nell’introduzione del Libro, dove risulta che Dio, per provocazione di Satana, acconsente a che Giobbe sia provato con la sofferenza, e, una volta superata la prova con successo, lo premia restituendogli il doppio di quello che aveva perso. La sofferenza appare qui con un secondo significato, un carattere di prova.

Il Libro di Giobbe non dà ancora la soluzione al problema, e il senso di prova non è del tutto soddisfacente. Forse per questo il libro finisce con l’avvertimento che noi uomini non dobbiamo pretendere di conoscere e giudicare gli occulti disegni della sapienza divina. Conclude offrendo sì una risposta, ma incompleta, e perciò fa appello a un atto di fede che sta al di là di ragioni meramente umane. Tuttavia, per quanto rimanga il mistero, appare un superamento del concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato.
Per superare i limiti del Vecchio Testamento, che non riesce a fornire una soluzione completa al perché della sofferenza -benché offra diverse spiegazioni-, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso il Nuovo Testamento, dove troviamo che Cristo soffre e muore per amore. Il mistero del dolore permane, ma viene collocato in un contesto, quello della compassione e dell’infinito amore di Dio, che offre, nel chiaroscuro della fede, la possibilità della fiducia. Cristo dà una risposta alla domanda del perché della sofferenza: soffre a causa dei peccati. Dio Padre, che ama il mondo infinitamente, “fa ricadere su di Lui i peccati di noi tutti” (Is 53,6). La sua passione, la sua sofferenza è il prezzo dei nostri peccati.

Cristo ha sofferto veramente, ha sperimentato un dolore vero e atroce. E ha sofferto con una profondità e intensità maggiore di quanto possano soffrire gli uomini. La sua è stata anche la sofferenza di un innocente. L’uomo era incapace di riparare l’offesa fatta a Dio col peccato, vista la gravità dell’offesa e la dignità dell’offeso, e perciò Cristo si è addossato i peccati di tutti gli uomini. La sua sofferenza ha una dimensione sostitutiva e, soprattutto, redentrice, perché nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati.
Il risultato dalla passione di Gesù non è stato l’abolizione del dolore o delle sofferenze temporali. Cristo ci ha liberato dalla sofferenza definitiva e fondamentale, dal male in senso più ampio: dal peccato e dalla morte eterna. Dio Padre ha inviato il Figlio al mondo per salvarlo: il contrario di salvezza non è quindi l’assenza della sofferenza temporale, ma l’assenza della sofferenza definitiva, cioè la perdita della vita eterna, la dannazione.
Cristo non nega l’esistenza del dolore e neppure pro¬mette di farlo scomparire in questa vita. Tutti sappiamo che guarì molti malati, che alleviò dolori e pene, e che condannò le ingiustizie che possono essere causa imme¬diata di tante sofferenze. Nulla è più proprio del cristiano che vuole imitare Cristo, quanto il mettere in atto i mezzi per eliminare o attenuare la sofferenza, sia quella personale sia quella degli altri, dato che il dolore che colpisce le per¬sone non ci deve mai lasciare indif¬ferenti. Alleviare il dolore non è soltanto una professione, è un’opera di carità, e quindi per i cristiani è un obbligo, nella misura del possibile. La cura del dolore, il suo controllo è anche una delle prime forme di prevenzione dell’eutanasia: è riconosciuto che le richieste di eutanasia da parte di persone che soffrono gravemente non sono altro che manifestazioni estreme di richiesta urgente di attenzione, di calore umano, una richiesta di dare un senso alla sofferenza, e non solo di cure adeguate.
Imitare Cristo comporta non solo attenuare la sofferenza altrui. Significa anche che il cristiano deve essere disposto ad accettare con senso soprannaturale i propri dolori, le sofferenze, le malattie e, alla fine, la morte con la stes¬sa disposizione alla donazione che ebbe Gesù; cioè, ad amare l’esistenza concreta che Dio vuole per lui, con le difficoltà e i brutti momenti che può comportare. Lo indica lo stesso Signore: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”(Lc 14,27).
Ogni uomo è chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. Ognuno è chiamato a partecipare alla redenzione. Ci invita San Paolo: “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo (Col 1,24)”. Colui che soffre in unione a Cristo “completa” con la sua sofferenza “ciò che manca…”. Questo vuole dire che la redenzione rimane aperta ad ogni amore che si esprima nell’umana sofferenza. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine, ma allo stesso tempo non l’ha chiusa, ci lascia l’opportunità di cooperare per far sì che questa redenzione arrivi a più uomini, con più forza.

Giovanni Paolo II è un esempio continuo di come vivere questa dottrina. Ha trasmesso un’idea molto chiara del valore ineguagliabile della sofferenza come contributo necessario per portare la grazia di Cristo a tutti gli uomini. Già all’indomani della sua elezione alla Cattedra di Pietro, Giovanni Paolo II si recò all’ospedale Agostino Gemelli, dove spiegò ai malati d’avere bisogno della loro sofferenza, e quale grande valore essa rivestisse per lui. E nell’anno 1981, poco dopo l’attentato a Piazza San Pietro, commentò che già gli era stato annunciato di essere stato scelto per portare la Chiesa nel terzo millennio. Dopo l’incidente aveva capito che doveva portare avanti la Chiesa non solo con la parola e la preghiera, ma anche con la sofferenza. E si è mostrato più che disponibile a patire tutto ciò che Dio gli avrebbe chiesto, disposto totalmente a “completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo”, per il bene della Chiesa; a prendere su di sé i nostri peccati.

Fare un elenco di tutto ciò che Giovanni Paolo II ha sofferto non è possibile: non è soltanto l’attentato, il tumore al colon, la frattura del femore, gli interventi chirurgici, così frequenti –fino a cinque– che, per i suoi ripetuti ricoveri in ospedale, lo hanno portato a definire con gaiezza il Gemelli come il Vaticano III; non è soltanto l’artrite, il Parkinson, o il peso della Chiesa che lo fanno soffrire. A questi si aggiunge il lavoro continuo, i lunghi viaggi, la mancanza di riposo, le penitenze severe –come i digiuni rigorosi–, ed altri problemi che, pur potendo evitarli, ha accettato volentieri. Agli inviti ad un maggiore riposo replica: “mi riposerò nell’altra vita”. Alle pretese di un po’ più di moderazione risponde: “Gesù non è sceso dalla Croce. Io lo stesso” e fino in fondo.
Giovanni Paolo II ha offerto un contributo validissimo alla nostra cultura sul valore della sofferenza, sull’accettazione serena del dolore. Si può affermare che alla fine, privato com’era della facilità di parola, ha trasmesso al mondo un’enciclica, un’enciclica che non sarà mai scritta, fatta non da parole ma da gesti.

Non possiamo concludere senza indicare come nella sofferenza si nasconda una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti Santi, come ad esempio San Francesco d’Assisi, o Sant’Ignazio di Loyola. Ogni volta che si pone a Cristo la domanda del “perché” della sofferenza, egli fa notare che lui stesso soffre, e risponde dalla Croce. Come ha scritto San Josemaría Escrivá, davanti alla sofferenza, davanti alla malattia e alla morte,

“solamente il cristiano ha una risposta autentica, una risposta definitiva, ed è questa: Cristo crocifisso, Dio che soffre e che muore”.

Davanti all’innegabile realtà del dolore “il rimedio è guardare Cristo” (È Gesù che passa, 168).

E Cristo risponde benché la risposta abbia bisogno di tempo perché cominci ad essere internamente percepibile. L’uomo ode la sua risposta man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. La risposta è qualcosa di più della semplice risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. È una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: “Seguimi!”. Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di salvezza.

Così l’uomo può trovare nella sofferenza pace interiore e perfino gioia. Di tale gioia parla San Paolo ai Colossesi: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi (Col 1,24)”. Fonte di gioia diventa il superamento del senso d’inutilità, sensazione che consuma l’uomo dentro se stesso e sembra renderlo un peso per gli altri, quando si sente condannato a ricevere aiuto ed assistenza e, nel medesimo tempo, sembra a se stesso inutile.
È interessante ricordare che questi ultimi sono proprio i motivi che spingono con più forza i malati a chiedere l’eutanasia. In Oregon (USA), dove esiste una legge che autorizza il suicidio medicalmente assistito, si è visto con chiarezza che solo una minoranza dei malati (intorno al 10%) chiedevano l’assistenza al suicidio per l’incapacità di sopportare il dolore; il motivo principale è stato la mancanza d’autonomia (il 94% dei casi nel 2001), l’incapacità di avere un ruolo sociale importante o la perdita del controllo delle proprie funzioni.

La scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma questa sensazione deprimente. La fede porta in sé la certezza interiore che l’uomo sofferente nella dimensione spirituale serve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi è utile agli altri, ma, per di più, adempie un servizio insostituibile.