Giovanni Zaninetta, hospice Domus Salutis, Brescia
Credo sia opportuno collocare il mio intervento all’interno del percorso di questo convegno, senza neppure tentare di affrontare (non ne sarei capace) il tema della sofferenza nel suo orizzonte più ampio, in tutti i suoi significati teologici, psicologici ed in definitiva esistenziali, per concentrare l’attenzione sulla quotidianità della mia esperienza, in un hospice, un reparto di cure palliative, a contatto con la fase finale della vita di molti pazienti.
Il riferimento più usuale (e più sopportabile) alla sofferenza passa attraverso il binomio sofferenza-recupero della salute, sia essa fisica o spirituale, mentre l’accostamento sofferenza-fine della vita si carica di un forte significato di frustrazione, di inutilità di ogni sforzo e di ogni progetto tale da condurre, in senso letterale, alla disperazione, al desiderio di darsi la morte o, meglio, una eutanasia, che alcuni pretendono di chiamare buona morte.
In questa ricerca la medicina viene coinvolta impropriamente, quale strumento della morte ricercata, quasi che, per farsi perdonare il suo insuccesso terapeutico, essa debba prestarsi a compiti aberranti.
Qual è invece, in questi frangenti, il compito della medicina, o più propriamente degli operatori sanitari che la incarnano? Forse quello di dispensare false speranze, o vere e proprie illusioni, per ingannare il malato e fargli credere l’incredibile? O forse il suo dovere è quello di vigilare sulla salute, per quanto precaria e fragile, di questi pazienti, perché la vita che rimane sia almeno sopportabile e possa cercare di aprirsi, anche in circostanze così difficili, alla speranza limitata delle piccole conquiste quotidiane, se non anche, in una prospettiva escatologica, alla Speranza quale virtù teologale?
Scegliendo questa seconda ipotesi come l’unica rispettosa della persona malata e della sua dignità, dobbiamo trarre alcune conseguenze che ci conducono a considerazioni fortemente unificanti: da un lato la necessità di curare con competenza tecnica il malato sofferente e dall’altro di offrirgli uno spazio per la ricerca di un significato.
In questo difficile percorso, pensare di proporre alternative al rifiuto di una vita che sembra priva di senso e di prospettive rende necessario offrire al malato grave un progetto di amore che si basa su due cardini fondamentali, una buona medicina, che garantisca anche una continuità temporale di cura, ed un gruppo solidale e partecipe formato insieme dalla famiglia (quando esiste ed è disponibile) e dall’équipe di cura che non può, in questi casi, limitarsi alla competenza tecnica, ma deve saper raggiungere una vicinanza psicologica e affettiva, elementi che fanno parte integrante dell’assistenza e della cura.
Parlare della necessità di una buona medicina non deve essere una affermazione generica e vaga ma la condizione indispensabile, anche se non sufficiente, per affrontare in un modo umanamente sopportabile l’ultimo tratto della vita: questa medicina ha il nome di cure palliative.
Se vogliamo riferirci ad una definizione “laica”, quella della Organizzazione mondiale della Sanità possiamo descrivere le cure palliative come “il prendersi cura attivo e globale del paziente la cui malattia non è più responsiva alle cure specifiche. (In esse) è fondamentale il controllo del dolore e degli altri sintomi unitamente all’attenzione ai problemi psicologici, sociali e spirituali. L’obiettivo delle cure palliative è di ottenere la miglior qualità di vita per il paziente ed i suoi familiari..”.
Ci rendiamo dunque conto della complessità e della responsabilità di una tale definizione nei confronti degli operatori che si dedicano a queste persone malate: essi non possono limitarsi ad una mera prestazione tecnica ma devono “prendersi cura” del paziente, condividendo, come si diceva, con la famiglia questo tratto finale della loro vita. Contemporaneamente ci accorgiamo che questo non è un compito delimitabile ad operatori professionali ma richiede l’apporto di figure non professionali, ma esperte, i volontari, che completino il gruppo dei curanti con il loro supporto spirituale e psico-sociale. Non dobbiamo mai dimenticare, poi, la necessità della attenzione agli aspetti religiosi e spirituali (che non sempre coincidono).
Nel momento in cui vogliamo porci seriamente davanti alla questione medica dobbiamo interrogarci se la medicina offra cure sufficienti ai malati terminali o se, invece, tenti ancora di nascondere i propri insuccessi con terapie sproporzionate o con l’abbandono del malato al suo destino, affidandolo solo alla carità e alla disponibilità di persone buone. Dobbiamo riconoscere che questa ultima ipotesi riflette ciò è avvenuto per molto tempo ed in parte continua, sebbene da qualche anno stiamo assistendo ad un cambiamento: la coesistenza di questo miglioramento con l’aumento delle istanze eutanasiche sembrerebbe contraddittoria, in realtà i due aspetti coesistono per alcune ragioni che cercherò di spiegare.
Da un lato le cure palliative si stanno lentamente ma sicuramente affermando, insieme alla consapevolezza della necessità di un adeguato trattamento del dolore e degli altri sintomi ed alla creazione (ancora embrionale ma in via di sviluppo) di una rete di assistenza sia a livello di cure domiciliari sia di strutture di degenza dedicate, gli hospice, che contribuiranno a sostenere, accogliere e curare malati terminali e le loro famiglie, seguendole, quando necessario, anche nella fase del cordoglio e del lutto. La realizzazione di questa “rete” potrà certamente migliorare la qualità e la continuità delle cure, insieme ad una migliore conoscenza delle possibilità assistenziali ma potrà ovviare solo molto parzialmente alla seconda parte del problema, legato non tanto ai sintomi fisici e psicologici, ma a quelli spirituali e religiosi che faticano sempre più a trovare una risposta a livello sociale e di cultura diffusa. Possiamo riassumere questa difficoltà nella perdita, dentro la società e, duole doverlo ammettere, anche dentro la comunità cristiana, del significato della sofferenza nelle piccole e nelle grandi prove.
Vorrei che fosse ben chiaro un concetto di fondo: il dolore “fa male” e, di conseguenza, la sofferenza non è mai da ricercare o da lodare in quanto tale. Essa va combattuta con tutti gli strumenti possibili ma, nello stesso tempo, va accettata e compresa per quella parte inevitabile che spesso accompagna la fase terminale della vita: se dentro la vita, però, tramonta la convivenza con il limite, la consapevolezza della nostra finitezza, il riferimento escatologico ed in definitiva il nostro rapporto con il trascendente, comincia a prevalere l’insensatezza di ogni fatica, la mancanza di ogni prospettiva oltre la vita, tanto da desiderare di interromperla.
In questa prospettiva si comprende come possano aumentare contemporaneamente sia la quantità e la qualità delle cure ai malati terminali, sia la richiesta di consentire pratiche eutanasiche, senza ovviamente che tra le due cose si instauri un rapporto di causa ed effetto. La contemporaneità di questi fenomeni non deve sorprendere e non deve neppure scoraggiare gli operatori ed i volontari che si dedicano a questi malati: la loro cura è un dovere di carità e di civiltà ed è altrettanto, in ogni caso, il miglior rimedio possibile ad una gran parte delle richieste eutanasiche, quelle generate dal dolore insopportabile, dall’abbandono, dalla solitudine. La profusione di tutto questo impegno non riesce, tuttavia, a rispondere fino in fondo, come già detto, all’incapacità sempre più diffusa di dare un senso alla nostra limitatezza, alla nostra vita “minore”, lontana dagli standard che una società, sempre più esigente in termini di omologazione a modelli sfavillanti e compiaciuti, vuole imporre a sani e a malati, soprattutto pretendendo che l’unica vita possibile e degna di essere vissuta sia quella dei “ricchi, belli, giovani e spensierati” o di chi almeno in questi modelli si riflette. Quando manca qualsiasi aggancio a questo modello edonistico e addirittura viene a mancare, del tutto o in parte, l’autonomia, si insinua fortemente il dubbio che non valga la pena vivere, che ciò che resta sia una vita residuale, un peso per sé e per la società, che sia consigliabile trovare una scorciatoia “dignitosa”…: sappiamo quali possono essere le conclusioni.
Cosa possiamo fare per affrontare queste situazioni sia come comunità cristiana sia come cittadini? Credo che le risposte debbano essere articolate e attente a più aspetti: c’è una preparazione remota individuale al morire, che possiamo praticare imparando ad accettare le “piccole morti” quotidiane, le frustrazioni, gli insuccessi, in altre parole, le manifestazioni, piccole e grandi, del nostro limite, ma c’è soprattutto una mentalità da cambiare a livello sociale, riprendendo a convivere con la limitatezza delle nostre prospettive, con la coscienza che la nostra vita terrena ha una fine e che questa fine non dipende da noi . Dobbiamo soprattutto riimparare che la vita vale anche se ha orizzonti limitati, anche se deve dipendere, anche se non risponde ai canoni estetici predominanti.
In queste situazioni dobbiamo assolutamente dedicare una giusta attenzione alla cura del corpo, perché la persona conservi, per quanto possibile, uno spazio di libertà dal dolore e dagli altri sintomi. Altrettanto importante però, è offrire a queste persone una concreta vicinanza emotiva, spirituale e religiosa, offrendo loro una testimonianza del persistere di un significato della vita, nonostante la malattia, nonostante la dipendenza, nonostante la ristrettezza degli orizzonti, perché non si sentano abbandonate, perché si accorgano di essere prese per mano nel momento più difficile della loro vita, accompagnate con amore verso l’inizio della vita vera.
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