LA STORIA

Mi sembra importante iniziare questo intervento con una breve ricognizione storica sul movimento pro life che si è formato in Italia nella tormentata vigilia della approvazione della legge 194. Rivisitare le radici, riflettere sul lavoro svolto, confrontare la presente situazione con le speranze, le prospettive, gli impegni assunti trent’anni fa è indubbiamente una verifica utile e necessaria.

L’unico effetto positivo della 194 fu la nascita del popolo pro life, della consapevolezza cioè nella coscienza di alcuni che, sebbene gli attentati alla vita dell’uomo, dal primo delitto di Caino, avessero insanguinato senza posa la terra, e con essi l’aborto procurato, una legge dello Stato non avrebbe potuto legalizzare l’aborto, pena la decadenza del vivere civile, stante la consapevolezza che gli Stati che consentono e regolamentano l’uccisione, altro non possono definirsi, con le parole di sant’Agostino, che magna latrocinia.

Tale consapevolezza esitò nella nascita dei Movimenti per la Vita (MpV) e dei Centri di Aiuto alla Vita (Cav) il primo dei quali nacque a Firenze nel ’75, ben prima che la legge venisse approvata, quando tuttavia la deriva etico culturale in atto la faceva intravedere. Fu precisamente a seguito della vicenda del CISA ( centro italiano di sterilizzazione e aborto) fondato e gestito proprio a Firenze dalla radicale Emma Bonino e dal nostrano Dottor Morte, quel dott. Conciani, morto suicida qualche anno fa, i quali, ante legem, praticavano aborti in un ambulatorio nel quale si vantavano di “aver liberato” migliaia di donne. Secondo la ben nota tattica dei radicali, mettevano in atto un comportamento vietato dalla legge, se ne accusavano pubblicamente, ne sottolineavano la diffusione gonfiando a dismisura le cifre, per richiamare come conseguenza l’inderogabile necessità di una regolamentazione.

Il primo CAV nacque dunque a Firenze nel ‘75. Ma la prima vera mobilitazione del popolo della vita avvenne nell’anno successivo, quel ‘76 che vide scoppiare il caso Seveso, emblematico del clima politico e culturale che si respirava negli anni che hanno preceduto e preparato in Italia la legge 194 sull’aborto volontario. Anni nei quali le due anime libertarie della rivoluzione del ’68, quella radical- femminista che faceva enfasi soprattutto sulla liberazione sessuale, e quella della violenza politica, matrice del terrorismo, andavano a braccetto.

I fatti sono noti: il 10 luglio 1976 una nuvola di diossina si sprigionò dal reattore A-101 dello stabilimento dell’ICMESA di Meda-Seveso e si distribuì su una delle zone più popolose della Brianza. Per giorni e giorni i responsabili si trincerarono dietro colpevoli silenzi e indagini segrete, mentre la popolazione del luogo assisteva alla moria degli animali domestici e si ricopriva di pustole. Ben presto tuttavia del caso Seveso si impadronirono gli abortisti. Scrive Cesare Cavalleri nella prefazione a “ Il giorno della Diossina” il libro nel quale l’allora sindaco di Seveso, Francesco Rocca, rievoca la catastrofe, che “ Le femministe capeggiate da Emma Bonino, strumentalizzando l’ipotesi di danni provocati dalla diossina sullo sviluppo dei bambini in gestazione, scelsero Seveso come terreno di sperimentazione per allargare la casistica dell’aborto terapeutico per evitare il trauma psichico alla madre”. Furono enfatizzati i possibili effetti mutageni e teratogeni della diossina, mediante una propaganda martellante, ossessiva, inumana nei confronti delle donne incinte cui venivano mostrate foto di bambini focomelici e che venivano brutalmente messe di fronte all’alternativa” o aborto o mostro”, mentre su quotidiani e riviste non si contavano titoli terroristici del tipo ”E tu donna partorirai con terrore” e “ Lasciate che i focomelici vengano a me”. Veniva a gran voce invocata la sentenza n.27 che appena l’anno prima, il 18 febbraio 1975, la Corte Costituzionale aveva emesso e che apriva una grossa breccia nell’ordinamento allora in vigore sull’aborto. Arrivava infatti a consentirlo, contrapponendo il diritto alla salute, anche psichica, della madre al diritto alla vita del feto.

Tra le donne allora incinte, 43 cedettero al pesante terrorismo psicologico ed abortirono. I bambini erano tutti sani: il laboratorio che aveva analizzato i feti in cerca di malformazioni, non ne trovò, fatto, questo, che fu passato sotto silenzio da quella stampa che pochi mesi prima aveva così violentemente indotto all’aborto le madri disperate. Erano sani anche i “figli della diossina”, una ventina di bimbi venuti al mondo tra il gennaio e il febbraio ’77, grazie al coraggio delle loro madri e alla incessante opera di sostegno spirituale e morale, intrapresa dalla Chiesa locale e dal Vescovo, il Cardinale Colombo – definiti per scherno “il partito della consolazione” i quali non avevano mai cessato di rincuorare gli animi e si erano attivati aggregando un gruppo di famiglie che si erano impegnate in offerte assai concrete, come quella di farsi completamente carico dei bambini che fossero nati malformati.

Mentre tutta la stampa laicista era impegnata sul fronte della legalizzazione dell’aborto, Avvenire era l’unico quotidiano a battersi in difesa per la vita, nella rubrica Giornale aperto istituita per dare voce ai lettori che manifestavano la loro protesta verso il Parlamento impegnato nella stesura di un progetto di legge per la legalizzazione dell’aborto. Pier Giorgio Liverani accompagnò e sostenne con il suo impegno e con i suoi scritti a cadenza quasi quotidiana la battaglia, seguendo puntualmente i lavori del Parlamento ed informandone puntualmente i lettori. Con lungimiranza denunciò le falsità, le manipolazioni, le mistificazioni che i fautori dell’aborto andavano mettendo in atto sull’opinione pubblica per raggiungere i loro scopi.

Questa esperienza fu raccolta nel volume “Aborto anno uno – fatti e misfatti della legge 194” pubblicato l’anno successivo all’approvazione della 194 in cui è ripercorsa puntualmente la strategia basata sulla menzogna messa in atto dal fronte mediatico- politico , un vero manuale di come muoversi per raggiungere l’obiettivo di scardinare la coscienza dell’intangibilità della vita umana, a partire dalla falsificazione dei dati del fenomeno, gonfiati spudoratamente ( tutte le donne avrebbero abortito, secondo tali dati, almeno 9 volte nella loro vita; milioni di donne sarebbero morte ogni anno per aborto clandestino ) e acriticamente accolti , fino a all’uso di quel falso umanitarismo pietistico per cui si attua un comportamento negativo , quale l’aborto, in vista di un bene maggiore, come minimo per evitare delle sofferenze a qualcuno. La solita ricerca del male minore, insomma.

Purtroppo la maggior parte della coscienza pubblica, dell’opinione comune, di fronte a queste strategie è disarmata, non si rende conto della posta in gioco, e taccia di Cassandra e di integralista nemico del dialogo chi, avendo una visione limpida dei fatti, non tace. Le cose andarono proprio così e neppure le parole accorate di Papa Paolo VI che ripetutamente aveva espresso amarezza e dolore per il lavori in Parlamento e che per la giornata della pace del ‘77 aveva scelto il motto “Se vuoi la pace difendi la vita”, servirono a scuotere l’opinione pubblica piuttosto abulica e confusa sull’argomento.

Si mobilitarono però coloro che percepivano chiaramente la portata del vulnus che si stava infliggendo al diritto, alla convivenza civile, al Paese stesso.

Sorsero quasi contemporaneamente, nel gennaio del ‘77 un Comitato promotore del Movimento per la Vita per iniziativa delle associazioni e dei movimenti cattolici a Milano, e a Firenze il Comitato fiorentino per la difesa della vita i quali il 29/1/77 approvarono una bozza di documento programmatico del Movimento per la vita. Da quel momento in molte città sorsero Movimenti locali e CAV, per offrire alle madri in difficoltà a causa di una gravidanza quell’aiuto concreto che dimostra che le difficoltà si possono vincere. Una peculiarità che li accomunava fu il loro sorgere spontaneamente, ad opera di volontà, entusiasmo ed amore alla vita locali.

Non fu, quella del Movimento per la Vita (MpV) una nascita voluta dall’alto, pilotata o promossa da qualche vertice di qualsivoglia organismo o associazione, come accadrà poi in seguito per altre associazioni, altri coordinamenti pro vita e pro famiglia. Fu lo spontaneo farsi carico, impegnarsi, trovando e impiegando risorse anche personali, di coloro che percepivano profondamente la radicale ingiustizia che si stava preparando con la legalizzazione dell’aborto, la gravità della lacerazione che avrebbe patito lo Stato di diritto, assieme alla consapevolezza che la legalizzazione dell’aborto, violenza contro il più debole, avrebbe aperto la via ad altre violazioni e all’imbarbarimento della civile convivenza

La prima iniziativa del MpV per contrastare l’avanzare della legalizzazione dell’aborto, fu una proposta di legge di iniziativa popolare dal titoloAccoglienza della vita umana e tutela della maternità“, articolata in 27 punti tesi a difendere la vita umana sin dal concepimento, mediante vari e diversificati interventi. L’aborto in essa conservava la sua connotazione di reato, ma erano previsti casi di perdono giudiziale per situazioni oggettivamente gravi, mentre il giudice poteva astenersi dalla condanna in caso di aborto terapeutico, rischio di gravi malformazioni e concepimento a seguito di stupro. Una novità assoluta era la possibilità di adozione prenatale per la madre incinta, in previsione di gravi difficoltà ad allevare il figlio.

Raggiunta in brevissimo tempo la cifra di 1.082.173 firme- altre 150.000 non giunsero in tempo- la proposta fu presentata l’8 febbraio ’78 al Senato nella speranza che vi fosse discussa in alternativa alla legge già passata alla Camera.

Ma quella tragica primavera del ’78 era destinata a raccogliere i frutti marci dell’ubriacatura sessanttottina: mentre l’intera Nazione assisteva sbigottita all’assassinio di Moro, il principale obiettivo politico parve quello di non compromettere gli equilibri faticosamente raggiunti con il Governo di solidarietà nazionale evitando la lacerazione del referendum radicale per abrogare il titolo X del codice Rocco in materia di aborto, già fissato per il mese di giugno. Il Senato non prese in considerazione la proposta del MpV e il 18 maggio approvò la legge 194 con 160 sì contro 148 no. Dopo soli quattro giorni – nonostante ci fosse un mese di tempo- il presidente Leone la promulgava, non volendo ascoltare quanti lo avevano scongiurato di non firmarla e di rinviarla alle Camere. Dopo quindici giorni la legge divenne operante: iniziava la strage.

E’ indispensabile, anche se doloroso, per il quadro che, sia pur così di fretta si va tracciando, citare il ruolo che ebbero nella vicenda legata all’approvazione della 194 e nel successivo referendum dell’81, i cosiddetti cattolici democratici, cattolici adulti, schierati con l’allora partito comunista a favore della legge 194. Il riferimento per essi non fu, come anche per il referendum del ‘74 per la legge sul divorzio, il diritto naturale, il quale si oppone all’uccisione del concepito, ma una fiducia illimitata nel diritto positivo, nelle leggi scritte dagli uomini, in questo caso in una legge che, a parer loro, avrebbe sconfitto l’aborto clandestino, socializzandolo. Furono soprattutto i senatori Raniero la Valle e Mario Gozzini – ma avevano larghe schiere di sostenitori anche nel mondo cattolico e nella Gerarchia stessa – ad adoperarsi perchè, nell’ottica del male minore, la legge che sarebbe uscita dall’Aula contenesse alcune indicazioni e affermazioni atte, a parer loro, a limitare i danni e a farne una buona legge. Come, per esempio, il titolo stesso della legge “Norme per la tutela sociale della maternità…..” l’art. 1 con la dichiarazione di principio “lo Stato (…) tutela la vita umana dal suo inizio” e gli artt. 2 e 5 nei quali sono previsti aiuti per far superare alla madre in difficoltà le cause che la inducono all’aborto. Un’opera di alta cosmetica che aveva l’unico obiettivo di camuffare la maschera tragica dell’aborto procurato, e che – lo possiamo adesso affermare con trent’anni di esperienza – non ha salvato un solo bambino dall’aborto e ha fatto quasi cinque milioni di vittime.

Meno di due anni dopo i radicali proposero, attraverso un referendum, modifiche alla 194 in senso completamente libertario, mediante l ‘abrogazione delle parti che regolamentano l’accesso all’aborto e dei limiti di tempo per abortire.

Il MpV che, dall’entrata in vigore della 194, aveva sperato invano che la Corte Costituzionale si pronunciasse in merito alle eccezioni sollevate dai giudici di undici tribunali e dichiarasse la 194 incostituzionale, vide chiara l’alternativa che il popolo italiano si sarebbe trovato di fronte nell’urna referendaria: avrebbe infatti dovuto scegliere tra avallare la 194, votando no, o liberalizzare completamente l’aborto, votando sì. Decise perciò di rispondere ai radicali con un altro referendum. Nell’estate dell’80 vennero raccolti più di due milioni di firme per la presentazione di due referendum: il “massimale” che esprimeva pienamente il principio che la vita umana è intangibile e eliminava ogni possibilità di aborto, e il “minimale” che rinunciava a punire l’aborto quando era in gioco la salute della madre.

Soltanto il minimale fu ammesso dalla Consulta che diede invece via libera al referendum radicale. Il 17 maggio ’81, mentre Giovanni Paolo II, appena scampato alla pistola di Agca, seguiva ansioso dal suo letto al Gemelli la vicenda, gli Italiani scelsero ciò che i sostenitori della 194, tutto il fronte trasversale abortista e i cattolici democratici, avevano proposto come il “giusto mezzo” tra l’iniziativa libertaria radicale che raggiunse l’11% dei consensi e quella del MpV che arrivò al 32%. La 194 rimase, immodificata.

Oggi, con circa 300 Centri di Aiuto alla Vita, 70 case di accoglienza per donne incinte in difficoltà, ed oltre 250 MpV locali, il Mpv continua la sua opera di aiuto concreto alle madri in difficoltà a causa di una gravidanza, e di promozione della vita.

L’obiettivo è sempre quello: promuovere una cultura aperta all’accoglienza che riconosca ad ogni uomo, in qualunque circostanza e a qualunque stadio della sua esistenza, dignità e diritti, primo fra i quali il diritto alla vita.

Si calcola che i bambini strappati all’aborto in tutti questi anni siano circa 85.000: pochi, pochissimi rispetto al numero delle vittime, moltissimi, se si pensa al valore incommensurabile di ogni vita umana.

IL RUOLO

I Cav sono oggi un’esperienza in crescita che si è affinata e arricchita, in opposizione alla mentalità provocata da una legge della quale molti osano affermare che protegge la vita nascente, mentre la consegna all’arbitrio. Una legge che ha prodotto, stante l’insopprimibile valore educativo della norma, una mentalità contro la vita e l’accoglienza.

Il CAV è maturato lavorando e impegnandosi sulle frontiere della vita, su questioni cioè di vita o di morte, collocandosi, nei confronti dello Stato e delle Istituzioni, in una forma di supplenza nel compito di prevenire l’aborto post- concezionale, che lo Stato e le istituzioni non svolgono. Non perchè manchino di strumenti e possibilità, ma perchè, di fatto, non vogliono: per un malinteso rispetto della libertà della donna, per convincimento ideologico-culturale, perchè individuano come unica prevenzione all’aborto quella ante- concepimento e la identificano con la contraccezione.

Ecco perchè il CAV, associazione di volontariato con il carisma della totale gratuità, della dedizione, della condivisione liberamente offerta, può dirsi servizio pubblico: perchè, nella totale inadempienza delle Istituzioni – messa impietosamente in luce dalle annuali relazioni del ministro della salute al parlamento sull’andamento della 194 – e spesso nonostante le Istituzioni, offre un servizio non solo rivolto a chiunque voglia accostarvisi, ma anche perchè, nell’assenza di ogni altra alternativa, proclama con la voce e con i fatti il valore e la dignità della persona che sono le basi su cui si regge in modo autentico, ogni vera democrazia.

Il CAV, con la sua presenza e con il suo servizio, afferma un principio, quello dell’uguaglianza di ogni persona, che lo Stato, con la 194 che autorizza e finanzia la soppressione dei nascituri, ha rinunciato ad affermare.

Quei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica riconosce e garantisce, primo fra i quali non può non collocarsi il diritto alla vita da cui ogni altro scaturisce, quei diritti inviolabili non sono evidentemente più garantiti, dall’entrata in vigore della 194. E di fronte a quei doveri inderogabili di solidarietà il cui adempimento è richiesto, di fatto la Repubblica, le Istituzioni sono inadempienti. Il CAV copre, con il suo intervento, un’area in cui lo Stato è di fatto latitante , nonostante gli obblighi costituzionali. E’ un compito di portata storica. Se verrà mai un giorno – ma certamente verrà perchè la vita vince e la storia ci darà ragione – in cui si guarderà con sgomento a questo tempo che consegna alla volontà del singolo il diritto alla vita dell’indifeso, non si potrà non scorgere, nelle tenebre della barbarie, la fiamma tenuta accesa dai Centri di Aiuto alla Vita. Il CAV è il luogo dove la madre riconosce il suo bambino, altro da sè, e percepisce che solo accettandolo ed accogliendolo conserva il senso e la speranza della propria vita.

Consapevole di compiere un servizio unico, il CAV è una realtà aperta, attenta alle contingenze che via via si presentano, alla ricerca di modi sempre più efficaci per svolgere il compito che si è dato. Pensiamo a quelle sue articolazioni che si inseriscono profondamente nella sua attività, arricchendola e potenziandola: SOS- Vita e Progetto Gemma. Il primo, numero verde (8008 13000) ideato e nato in Piemonte, attivo dal ’92, giorno e notte, è un servizio che copre tutta l’area del nostro Paese, un servizio vero, perchè fondato sulla realtà dei CAV e dei MpV, terminali reali, vivi, che si attivano e intervengono prontamente per sostenere gravidanze problematiche, per salvare bambini dall’aborto, per offrire counseling e sostegno a donne che soffrono per aver abortito.

E poi c’è Progetto Gemma, adozione prenatale a distanza, “inventato” da uno dei pro life della primissima ora, Mario Paolo Rocchi e messo a punto nella primavera del ’94 dalla Fondazione Vita Nova, opera del Movimento per la Vita, allora presieduta da Francesco Migliori, già primo e indimenticabile presidente del MpV.

Progetto Gemma ha fatto divenire realtà quello che nel MpV si afferma da sempre: “difendere la vita non è monopolio di pochi, ma dovere di tutti” , in quanto ha mobilitato e continua a mobilitare migliaia di persone, singolarmente o a gruppi, coinvolgendole in modo consapevole e profondo nell’affascinante impegno di salvare la vita di un bimbo, mediante un sostegno economico mensile alla madre in attesa. Costruisce in tal modo una rete di solidarietà sempre più fitta , che si dipana e si interseca da tutti i punti cardinali dell’Italia. Moltiplica così il popolo della vita.

In questa breve e per forza incompleta ricognizione sui movimenti pro life non si possono dimenticare altre esperienze di difesa della vita nascente che sono via via sorte e operano nel quadro della tutela e della promozione del diritto alla vita, ciascuna con la propria specificità.

L’associazione Papa Giovanni XXIII, fondata da don Benzi con la sua sezione ” Maternità difficile” opera per la prevenzione dell’aborto volontario, aiutando le madri in difficoltà mediante l’accoglienza nelle case famiglia ed è fortemente impegnato contro la diffusione dell’aborto precoce della pillola del giorno dopo, e contro le manipolazioni della fivet (fecondazione in vitro e trasferimento di embrione).

Nel panorama pro life sono presenti inoltre l’associazione “Difendere la vita con Maria” il cui obiettivo è quello di sottolineare l’umanità del concepito promuovendo la sepoltura dei bimbi abortiti , l’associazione “Voglio Vivere” e il “Movimento con Cristo per la vita”, nato dall’esperienza di preghiera di San Martino di Schio. Forse ultimo in ordine di tempo è il Comitato Verità e Vita, sorto dopo l’approvazione della legge 40 sulla fecondazione artificiale, impegnato a 360° per la tutela della vita e, in particolare, in questa temperie storica, nel fare chiarezza sulla pratica della fecondazione artificiale che oggi dall’opinione pubblica viene percepita come buona e lecita, a causa delle modalità con cui si è svolto l’iter parlamentare della legge 40 che la regolamenta. Tralasciando infatti di prendere in esame la stessa pratica della fivet per considerarne o meno la liceità, tacendone gli aspetti negativi, primo fra i quali la morte programmata in percentuali altissime degli embrioni umani prodotti, ma discutendo solamente sui “paletti” da porre alla stessa, si è ingenerata l’idea che, eseguita rispettando certi limiti, la fivet sia buona. Opinione suffragata e ulteriormente confermata durante la campagna referendaria del 2005.

LE PROSPETTIVE

Dalle relazioni annuali della segreteria di collegamento dei CAV si evince che negli ultimi 10 anni il loro lavoro è più che raddoppiato: sono aumentati i bambini nati, e le donne aiutate, gestanti e con bimbi piccoli. Il dato più rilevante riguarda il cambiamento di utenza: se nel ‘90 le straniere assistite erano il 16%, oggi sono il 78%. I Cav, come ogni altra associazione di volontariato, sono stati investiti dall’immigrazione.

Se questo da un lato è positivo perchè indica la capacità dei CAV di essere presenti su territoriol e di dare risposte adeguate, comporta tuttavia anche un rischio che da sempre è insito nell’esistenza stessa del CAV: quello di essere sospinto, dalle circostanze, dalla mentalità comune, dalla necessità, a “specializzarsi “ come associazione di assistenza mettendo in secondo piano il suo mandato istituzionale, la sua missione di prevenzione dell’aborto volontario post concepimento. A ciò è indubbiamente spinto da un contesto sociale portato a censurare l’aborto, che preferisce quindi enfatizzare l’aspetto assistenziale del CAV. Anche perchè, tutto sommato, fa comodo al territorio un luogo in cui mandare le donne a farsi aiutare: serve alla rete di associazioni che operano nel campo dell’ assistenza, serve anche alle istituzioni che, espressamente demandate dall’art.1 della 194, e dalle rispettive leggi regionali a dare sostegno, non lo fanno e usano il volontariato come supplenza alla loro inadempienza.

I consultori familiari, gli assessorati all’assistenza e le loro emanazioni non si fanno scrupolo di sovraccaricare il CAV di impegni e di costi, ben guardandosi dall’interpellarlo, se non raramente, nei casi specifici di prevenzione dell’aborto. C’è insomma nel territorio una fortissima tendenza ad oscurare il tema dell’aborto e a sospingere il CAV verso un destino esclusivamene assistenzialistico. Cui il CAV deve ovviamente resistere anche se non è facile, cercando continuamente con ogni mezzo di chiarire il suo compito, il suo obiettivo, la ragione stessa della sua esistenza.

Se poi il CAV debba sottostare o sottrarsi al compito di assistenza cui è indirizzato da molti, e in che misura, questo attiene da tempo alle discussioni interne tra i CAV ben consapevoli tuttavia che, nella misura in cui riescono ad essere visibili sul territorio, investendo molto nell’assistenza, riusciranno anche a fare prevenzione all’aborto, se non rinunceranno a proclamare sempre il proprio ruolo contro ogni tendenza censoria.

Una grande attenzione a questo aspetto, dunque, la stessa cui sono chiamati anche i movimenti per la vita e lo stesso MPV italiano che comprende CAV e MPV in una federazione nazionale.

E torniamo alla 194: è sempre più diffusa la tendenza a non metterla più in discussione, ad accettarla. Trent’anni di legge abortista hanno indubbiamente causato un cambiamento di mentalità. I giovani di oggi sono nati in regime di aborto e molti di essi, ma ciò vale anche per persone più attempate, oserei dire per i più, non conoscono neppure l’intrinseca iniquità della legge che consente la soppressione del nascituro a insindacabile volontà della madre. La tentazione è grande anche per chi ha combattuto la legge sin dall’inizio: quella cioè di considerarla ormai un male inevitabile, con cui si può anche convivere. Basta cercare di limitare i danni.

Si sente sempre più spesso affermare, anche da alte cattedre, che “non vogliamo abrogare o cambiare la 194, ci basta che venga applicata in tutte quelle parti che prevedono un aiuto alle madri in difficoltà”.

Io credo che dobbiamo essere chiari: un conto è constatare che oggi, con la situazione politica attuale, riuscire a sostituire la 194 con una legge totalmente rispettosa della vita, non è possibile. Altro è dire che non vogliamo cambiare la 194, ma solo applicarla. Le leggi nascono sì in parlamento, ma sono frutto soprattutto di un clima culturale: affermare, sottolineare, non perdere nessuna occasione per dire, come sta avvenendo da un po’ di tempo a questa parte, che la 194 deve essere solo applicata bene, significa creare consapevolezza e convinzione che la legge è accettabile e allontanare sempre di più il tempo dell’abrogazione. Allo stesso modo, quando se ne invocano modifiche, è importante sottolineare che questo è solo un obiettivo a medio termine, un primo passo: l’obiettivo finale è il superamento completo di questa legge ingiusta.

Affermazioni come questa, tratta da una lettera inviata dal presidente del MPV al ministro Turco il 7 settembre scorso sulle posizioni da lei espresse in merito a possibili interventi di modifica della legge 194 e pubblicata sul n. 1 della newsletter Trentadue “non cesseremo mai di considerare la legge 194 ingiusta, ma attorno ad essa si potrebbe giungere , dopo trent’anni, ad una pacificazione sociale se, grazie ad un ritrovato dialogo, sarà possibile rendere le disposizioni della parte preventiva meno equivoche e far diventare realtà la riforma dei consultori familiari secondo le linee da decenni indicate dal MPV. Alcune riforme potrebbero essere introdotte da subito per via amministrativa…” sono assai gravi e inaccettabili. Una pacificazione sociale è proponibile e auspicabile quando i motivi della contesa, del disaccordo sono cessati, quando le parti che contendevano abbiano chiuso le ragioni del contendere. Si giunge alla pacificazione, alla pace, quando le armi si sono zittite e il sangue non è più versato. Allora è pacificazione sociale. Ma quando le uccisioni continuano, e nel caso della 194 , se non se ne cancella il cuore malvagio, quell’autodeterminazione che consegna alla madre lo ius vitae ac necis sul figlio, continuerebbero anche “con le riforme che potrebbero essere introdotte subito per via amministrativa, e con le disposizioni della parte preventiva meno equivoche”. Lo sappiamo bene: l’aborto non è solo una questione di mancati aiuti alle madri, specie alle immigrate che sono nella situazione più precaria. L’aborto è anche un fatto culturale – il MPV ha presentato, qualche anno fa, un rapporto al Parlamento sulla diffusione dell’aborto culturale – per il quale gli aiuti non contano, per il quale gli aiuti neppure si cercano. E’ un fatto di mentalità, è quella che si chiama una scelta di vita, se e quando le circostanze, non necessariamente economiche, ma le più svariate, lo richiedono.

Certamente il numero degli aborti calerebbe, se effettivamente fosse offerto alle madri in difficoltà quell’aiuto che la stessa 194 prevede. Per questo occorre impegnarsi ogni giorno affinchè ciò avvenga, sia a livello politico che localmente. Ma non parliamo di pacificazione sociale, non diciamo anche noi che la 194 non si tocca!

Non rischiamo, di perdere di vista l’obiettivo fondamentale, nel tentativo di salvare il dialogo con tutti e di trovare un punto di incontro. Compito dei pro life è quello di essere lievito che fa fermentare la cultura della vita. Nella ricerca del dialogo, di una modifica, di un miglioramento, non possiamo perdere di vista l’obiettivo finale. Non potrà esserci pacificazione sociale finchè il diritto non tutelerà, l’inerme. Non possiamo permetterci di non dirlo. Occorre non disarmare, rimanere sulla breccia per ricostruire la civiltà della vita,

per impedire alla coscienza del popolo di acquietarsi, essere il grillo parlante che non lascia dimenticare la peggiore ingiustizia che si compie quotidianamente contro l’uomo, il più piccolo, innocente, indifeso

Sono parole, queste, di Francesco Migliori che ci insegnò a dire sempre la verità sull’uomo, senza tentennamenti, senza esitazioni, nella carità, ma senza timore di scontentare o di non riuscire graditi, rendendo la faccia dura come pietra, come dice il profeta.

Marisa Orecchia

Membro del direttivo nazionale del MPV

Vice presidente di Verità e Vita