“La generazione extracorporea: implicazioni etiche e antropologiche”

Prof. Adriano Pessina

DOCENTE DI FILOSOFIA MORALE E DI BIOETICA
FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE E DI LETTERE E FILOSOFIA
UNIVERSITA’ CATTOLICA DI MILANO

(Grazie infinite, sia per le parole molto cortesi, sia per l’invito al quale partecipo con convinzione perché ritengo che il tema della fecondazione in vitro sia un tema molto importante; anzi io credo che la questione della fecondazione in vitro introduca una delle svolte dal punto di vista culturale delle più significative della nostra epoca. Nei tempi che mi sono concessi io cercherò di enucleare solo alcuni di quelli che mi sembrano i problemi etici più rilevanti, lasciando poi spazio alla discussione e all’approfondimento.)

Io credo che la prima osservazione che è necessario fare riguarda questo fatto: la questione della fecondazione in vitro non è una questione che riguarda esclusivamente le coppie che hanno dei problemi di fertilità, né è una questione che riguarda eminentemente i medici e i legislatori. La fecondazione in vitro è infatti una prospettiva tecnica che introduce dei profondi cambiamenti a livello culturale; e questi cambiamenti culturali riguardano l’intera società civile, riguardano tutte le persone. In particolare cercherò di far vedere come la fecondazione in vitro trasforma due grandi categorie che sono all’interno del pensiero occidentale un punto di riferimento non irrilevante: la prima categoria è la categoria di figlio, che viene radicalmente trasformata e che viene anche trasformata anche attraverso un cambiamento linguistico, un approccio diverso alla problematica della generazione; il secondo elemento è dato dal cambiamento radicale che avviene nella rappresentazione di quella che è la procreazione umana, una trasformazione molto forte che poi depotenzia  anche il significato morale delle questioni che riguardano la vita nascente e che riguardano l’atto procreativo.

Da questo punto di vista mi permetto di fare subito un’osservazione. Quando noi riflettiamo dal punto di vista morale, noi utilizziamo un linguaggio che non è il linguaggio della scienza. La scienza ha un linguaggio proprio. Stamattina abbiamo sentito con molta chiarezza e lucidità da parte dei relatori una riflessione per esempio intorno al tema dell’embrione. Io dico sempre che gli embrioni non esistono. Esistono esseri umani, topi, cavalli, cani, gatti, allo stato embrionale, perché il termine embrione in realtà rappresenta, come bene ci ha insegnato il prof. Serra, rappresenta la fase di sviluppo di qualcuno o di qualcosa. Quindi, da questo punto di vista, impostare la discussione intorno all’embrione, rischia sempre di essere equivoco, perché l’embrione rischia di essere rappresentato come qualcosa di neutro. Se una donna va dal proprio medico, non si sente dire: “Signora, lei aspetta un embrione, lei aspetta una blastocisti, perché questa potrebbe anche preoccuparsi.. dice “E’ grave, dottore, una blastocisti?”; ecco le dirà: “Lei aspetta un bambino.” Allora la questione fondamentale emerge solo laddove il linguaggio è adeguato. Le prime trasformazioni culturali sono trasformazioni linguistiche; la prima manipolazione che avviene non è una manipolazione del materiale biologico, è la manipolazione del linguaggio con il quale ci si rappresenta il significato della vita, il significato delle relazioni interpersonali. Io credo che la grande fatica che oggi si incontra a discutere della fecondazione in vitro dipende proprio da questa sovrapposizione dei linguaggi. Abbiamo in qualche modo depotenziato la questione etica, perché abbiamo spostato il linguaggio significativo, il linguaggio simbolico, il linguaggio delle emozioni, solo all’interno del desiderio dei genitori, degli aspiranti genitori. Là dove emerge il linguaggio che ha una qualche valenza morale è solo su quel settore. Là dove giustamente, come Padre Serra ha messo in luce, c’è in gioco la sofferenza di persone che desiderano in modo credo anche nobile, non credo io all’immagine dell’egoismo; in modo anche nobile desiderano avere un figlio; ma la risposta che viene data a questa giusta esigenza, a questa buona esigenza, è una risposta che non mette in gioco quali sono gli elementi morali che possono far sì che una risposta sia anche moralmente adeguata, cioè capace di tenere insieme tutti gli elementi che vengono sollecitati dal desiderio di paternità e maternità.

Ora, dicevo, guardate che trasformare la nozione di figlio, trasformare l’immagine di figlio, significa trasformare l’immagine dell’uomo tout-court, perché non tutti sono padri, non tutti sono madri, ma tutti siamo figli. E laddove si trasforma l’immagine del figlio, e il significato del figlio è ricondotto nell’orizzonte del desiderio, nell’orizzonte del significato che altri danno al proprio figlio, si arriva ad una concezione dell’uomo dove l’uomo vale laddove è desiderato, laddove è amato, laddove corrisponde a certi criteri progettuali.

Questa è una trasformazione radicale! Intendiamoci, niente di nuovo sotto il sole. Per molti secoli noi abbiamo discriminato fra gli uomini; per molti secoli abbiamo buttato tra le rupi quelli che non corrispondevano ai nostri progetti; ma la civiltà occidentale si è costituita, attraverso un cammino che è passato attraverso la scienza, ma anche lo sviluppo della coscienza morale, riconoscendo l’uguale dignità di ogni essere umano: malgrado fosse malato, malgrado fosse handicappato, malgrado fosse cattivo moralmente. Quel malgrado indicava un limite, ma la dignità è una dignità che si inscriveva nella stoffa dell’essere umano. E l’essere figlio indicava un’appartenenza alla condizione umana che dava luogo a una relazione che non era puramente biologica. Il biologico, la carne il sangue di cui siamo fatti, è fondamentale per comprendere anche la nostra identità, perché noi siamo anche il nostro corpo, ma non è sufficiente. Da questo punto di vista la trasformazione della categoria del figlio è l’idea di trasformare un evento – come l’evento del nascere – in un processo che può essere guidato, che può essere trasformato, è un cambiamento che va al di là del fatto che il numero delle coppie che ricorrono alla FIVET sia esiguo, perché introduce un’altra idea: l’idea appunto che l’uomo, il figlio, valga soltanto quando è oggetto dei propri desideri ed è all’interno di una certa progettualità, solo quando raggiunge di fatto determinati standard.

La nostra cultura di fatto oggi – di fatto, quindi dal punto di vista descrittivo – è fondamentalmente eugenetica. Noi siamo per la selezione continua della nostra “razza umana” e il linguaggio è un linguaggio che camuffa questo fatto; questo potrebbe essere un segno interessante dal punto di vista etico, perché il fatto che non si abbia il coraggio di dichiarare le cose come stanno, significa che esistono in fondo delle remore nella coscienza morale, che vanno al di là degli aspetti confessionali o di appartenenza culturale. Il fatto che si usi il termine, ad esempio, aborto terapeutico, laddove colui che viene eliminato è un nostro figlio che presenta degli handicap, è un fatto linguisticamente rilevante. Vuol dire che non abbiamo il coraggio di dire che non accettiamo gli altri per quello che sono, malgrado quello che siano.

Questa è la trasformazione che si vede per esempio – ed entro in merito – anche all’aspetto della procreazione artificiale. Il termine più giusto – io continuo a dirlo – è quello di generazione extracorporea, perché il termine di procreazione artificiale può generare degli equivoci, che nascono da un uso non sempre chiaro del concetto di naturale e artificiale, sul quale brevemente mi soffermerò. La caratteristica fondamentale della procreazione artificiale o della procreazione extracorporea, che peraltro oggi non viene più chiamata così e anche questa trasformazione linguistica è molto importante, perché si chiama “procreazione assistita”. Ma la caratteristica fondamentale è data dal fatto che per la prima volta nella storia dell’umanità, la generazione di un nostro simile non avviene nel grembo materno. Il generato è generato fuori dal corpo materno e per la prima volta nella storia dell’umanità, noi possiamo intervenire sulla vita di questo generato nelle sue prima fasi e possiamo anche programmare quando farlo nascere. La trasformazione dal punto di vista culturale è enorme, perché, mentre è evidente che non tutte le relazioni interpersonali di natura sessuale sono fertili, è altrettanto evidente che, almeno nei mammiferi, per poter generare è necessaria la relazione sessuale. Per la prima volta, grazie alla tecnologia, noi riusciamo a trasformare un atto, che è anche biologicamente connotato, in qualche cosa che è totalmente dominato (qualcuno dice: finalmente!) dalla ragione e dal progetto umano.

Ma questo è un cambiamento che ha una ricaduta sul significato stesso della relazione interpersonale. Vedete, il discorso  nel dibattito che noi solitamente facciamo è tutto centrato sulla figura del figlio, dell’essere umano allo stato embrionale. Ma il figlio, l’essere umano allo stato embrionale, non potrà mai essere tutelato adeguatamente se non sarà nell’unico luogo che gli compete per dignità umana, cioè il grembo materno, fin dall’origine. E non potrà mai essere adeguatamente tutelato se non si ritornerà a comprendere il significato umano, non semplicemente l’aspetto biologico, della procreazione umana. La procreazione umana è la procreazione che mette in gioco dei sentimenti, ma mette insieme anche dei corpi, mette insieme anche l’unione concreta dell’uomo e della donna.

Ora da questo punto di vista, la cosa che moralmente è più rilevante è dato dal fatto che un atto estremamente personale, intimo, della coppia, come quello della relazione che è volta all’amore reciproco, non a fare figli, perché da un punto di vista morale i figli sono un evento che capita dentro una relazione d’amore, non sono semplicemente programmati. Dal punto di vista morale non cambia molto il fatto che uno lo programmi – cambia dal punto di vista tecnico – lo programmi dicendo: “Ora finalmente che ho lavoro e impegno, posso generare”, o è semplicemente avendo relazioni sessuali con la moglie secondo orari stabiliti in modo da avere un figlio: tutto questo non è moralmente legittimo, perché il figlio sorge come un evento all’interno di  una relazione interpersonale, non è semplicemente il prodotto. Certo, c’è una ragionevolezza dell’uomo che deve guidare la propria condizione corporea, che deve guidare i propri atti, ma come diceva giustamente Speman, di fronte a un figlio che dice: “Ma perché mi hai generato, papa? Perché mi hai generato, mamma?”  diceva Speman, riportando probabilmente l’osservazione di un collega, diceva: “Ma guarda che quando tu sei stato generato, io non pensavo mica a te: io guardavo gli occhi di tua madre, che erano belli! E tu sei nato dentro questo evento!” C’è una dimensione, c’è una casualità del nascere che è anche un limite, perché nessuno può garantire come nascerà il nascituro, ma in questo limite c’è un significato che nessuno vale perché è stato progettato, nessuno vale perché è stato voluto, ognuno vale perché c’è, ed è una condizione antropologica-morale fondamentale, perché stabilisce l’uguaglianza e la dignità di tutti.

Ora il primo fatto che noi abbiamo trascurato è che con la fecondazione extracorporea noi abbiamo attuato una delega procreatica. Un atto personale, un atto che avviene tra un uomo e una donna, diventa di rilevanza sociale,  di rilevanza politico-sociale, perché coloro che generano non sono più il padre e la madre, ma sono il medico e il biologo che uniscono il materiale, che conservano e controllano il generato, che lo selezionano, che lo scartano in base a criteri biomedici. Anche nel linguaggio, cambia il linguaggio, il figlio sparisce; esiste, da questo punto di vista, l’embrione, la blastocisti; sparisce il grembo materno, al massimo c’è o una provetta e poi l’utero; sparisce la donna e compaiono le funzioni fisiologiche. Ma la paternità e la maternità non sono semplicemente delle funzioni fisiologiche riproduttive. Non è pensabile che il medico, il quale non appartiene ad una scienza in senso proprio: è un uomo che, utilizzando scienze a grappolo, quindi diverse conoscenze, applica un’arte; è impensabile che il medico, che ha come oggetto un soggetto umano, anch’egli tenda a mettere tra parentesi il linguaggio umano, e troppo facilmente scava nella descrizione puramente tecnica e fisiologica (che pure è importante, nessuno sottovaluta) della dimensione riproduttiva.

Io credo che la questione fondamentale, il cambiamento radicale della FIVET, che introduce la fecondazione in vitro, è dato da questo fatto: con la delega procreatica noi abbiamo trasformato l’evento della generazione, e abbiamo anche trasformato le responsabilità, perché con la delega procreatica la responsabilità nei confronti del nascituro non è più fondamentalmente legata alla madre, alla coppia, ma è legata alla società, è legata alla struttura che in qualche modo conservano questa vita nascente, conservano questo essere umano allo stato embrionale. Da qui una responsabilità che è anche una responsabilità morale e collettiva, non è semplicemente una richiesta di un diritto individuale, quella di generare con la fecondazione extracorporea, perché questa richiesta introduce un meccanismo, che è un meccanismo di ordine sociale e di ordine culturale.

La vera obiezione nei confronti della fecondazione artificiale non nasce dal fatto che sia artificiale; l’artificiale non è di per sé contrario al naturale. Io faccio sempre questo esempio per cercare di far comprendere la differenza fra naturale in senso morale e naturale  semplicemente in senso biologico. Non bisogna essere vitalisti, non bisogna essere biologisti: io faccio questo esempio. Gli occhiali sono sicuramente artificiali, ma gli occhiali sono, dal punto di vista morale, eminentemente naturali, perché rispettano l’atto del vedere. In un atto di violenza, in uno stupro, io ho tutti elementi puramente naturali, dal punto di vista biologico, ma dal punto di vista morale è un atto assolutamente innaturale, perché non rispetta le caratteristiche fondamentali della relazione interpersonale, che sono l’amore, la libertà, il rispetto reciproco. Quindi la differenza fra naturale e innaturale passa tra la differenza che corre fra un atto che è rispettato in tutta la sua integrità e un atto che invece non è rispettato in tutta la sua integrità.

Nella procreazione artificiale non è rispettata l’integrità e l’integralità della relazione interpersonale fra un uomo e una donna. La sofferenza che una coppia può avere, perché desidera avere figli, e che non riesce ad averli, è una sofferenza che sicuramente va compresa e va aiutata, ma anche qui emerge un altro elemento morale di grande rilevanza: colui che non si riconcilia coi propri limiti, colui che non si riconcilia quindi anche con le difficoltà della propria  esistenza, difficilmente sa riconciliarsi anche con la sofferenza altrui.

La risposta immediata a una coppia che non può avere figli, non è quella di darle il figlio come se fosse una terapia. I figli non sono la terapia per un disagio esistenziale: non lo sono mai, non lo  debbono essere mai. E da questo punto di vista la risposta non può essere semplicemente l’adozione. L’adozione non è un meccanismo con il quale io rispondo a un desiderio legittimo, ma che rischia di essere in qualche modo un desiderio viziato dal punto di vista della propria conciliazione con la propria sofferenza e col proprio dolore. La risposta adeguata è che si può giustamente adottare un figlio e accogliere un figlio che non è proprio, solo in quanto dapprima ci si è riconciliati con il senso dei nostri limiti. Noi oggi dobbiamo riconciliarci con il senso della limitatezza della vita umana, con i limiti delle nostre azioni, con i limiti che in qualche modo costituiscono anche un orizzonte di senso e di valore. Da questo punto di vista la fecondazione in vitro continua ad alimentare un mito sacro: il mito del progresso, il mito della possibilità di non avere più a che fare con la sofferenza, col dolore, il mito di poter gestire totalmente la nostra vita secondo criteri razionali, che ci verrebbero garantiti da una scienza sempre più esatta. Ma è un mito, è un racconto sacro che va demitizzato, perché lo spessore della vita in realtà ripresenta in ogni angolo il tema della sofferenza, il tema del dolore, e solo laddove in qualche modo i vincoli interpersonali sono vincoli solidamente costruiti all’interno del rispetto delle condizioni fondamentali della vita, allora è possibile tentare anche, stando all’interno di una concezione antropologica adeguata, di vincere alcuni limiti, ma non tutti i limiti. Sarebbe interessante vedere come questa incapacità di accettare i limiti, poi si ripercuote sulla fine-vita; sulla incapacità di accettare che anche la vita finisce e che la morte non è semplicemente una sconfitta della medicina, ma un evento che si inscrive, pieno di significato, nella nostra esistenza di uomini.

Allora da questo punto di vista, la prima obiezione che viene fatta, che io farei nei confronti della fecondazione in vitro, non sarà immediatamente nei confronti del problema gravissimo della eliminazione della vita nascente, di quello che è di fatto un omicidio, anche se assomiglia a qualcosa di più indolore, perché avviene fuori dal grembo materno, perché avviene in modo asettico, ma non c’è differenza tra eliminare un neonato e svuotare una provetta, in cui un essere umano nella fase iniziale di vita è lì in nostro potere: non c’è differenza dal punto di vista morale. C’è differenza dal punto di vista psicologico ed emotivo. Beh, dicevo, noi non arriveremo mai a garantire la tutela di questa vita nascente, se noi non faremo in qualche modo questa opera di convinzione che dobbiamo riappropriarci, diventare di nuovo padroni della procreazione umana. Non ci deve essere una delega procreatica!

La delega procreatica è qualcosa che tra l’altro apre le porte, di fatto, a tutte le possibili sperimentazioni. Non illudiamoci, perché nel momento in cui l’essere umano allo stadio embrionale è a disposizione di terzi, laddove gli stessi genitori – che pure vogliono un figlio, non sono come quelli che non vogliono il figlio, ma lo vogliono fortemente – hanno deciso di chiamare embrioni quelli che vengono crioconservati, di chiamare figli solo quelli che vengono accolti nel grembo materno, già lì avviene una pesante discriminazione, che mette questi nostri fratelli, questi nostri figli allo stadio embrionale in mano semplicemente della tecnica e della scienza e, allora, sentiremo che già nel discorso: “Piuttosto che sprecarli…”.   Guardate che se siamo davvero convinti che l’essere umano allo stadio embrionale è essere umano, il concetto di spreco deve uscire dal nostro vocabolario! Non si spreca.  Lo spreco vale per le cose, vale per il materiale, non c’è mai spreco per l’essere umano! Ma l’idea di non sprecare gli esseri umani, di utilizzarli, di utilizzarli per il bene altrui, ecc. eccetera, tutto questo, come dire, trova l’alleanza, in qualche modo, di una cultura che ha già staccato alle radici il rapporto madre-figlio, il rapporto madre-padre-figlio.

Da questo punto di vista, se noi non ritorniamo a riscoprire la integralità della relazione interpersonale, se non demitizziamo anche l’immagine del desiderio del figlio come l’unico compimento della relazione interpersonale, del rapporto d’amore, del rapporto di coppia, se noi non riusciamo a fare un appello alle coppie che non possono avere figli per ricordare loro che le vie con le quali possono manifestare il loro amore reciproco e l’amore per gli altri sono varie e diverse e passano innanzi tutto attraverso l’accoglienza della loro limitazione, un’accoglienza sana, intelligente; se noi non faremo quest’opera io credo che saremo destinati, in qualche modo, a subire le ingiurie che la tecnologia e la scienza, che sono alimentate dall’economia, continueranno a fare ai nostri simili, a livello embrionale.  In fondo, da questo punto di vista, le capacità persuasive sono ancora più estese, perché in un paese, in una civiltà occidentale, che permette l’aborto e che permette l’aborto anche solo laddove la donna non se la sente psicologicamente di portare avanti una gravidanza, il linguaggio persuasivo che dice che questi esseri umani allo stadio embrionale, che ora non vengono nemmeno più chiamati embrioni, perché c’è un salto linguistico, vengono chiamati “materiale genetico” (le ultime evoluzioni linguistiche depotenziano anche questo problema); questo materiale genetico che a questo punto non si sa più di chi sia. Una volta si sarebbe potuto indicare il padre e la madre – i genitori –, ma nel momento in cui appartengono in qualche modo alla scienza, alla scienza pubblica, ecc., questo materiale genetico è totalmente in balia di un progetto, che si motiva anche qui con grandi valori, la salute altrui: ci sono i malati di Alzaimer da guarire, ci sono le possibilità dei trapianti; e qui troviamo un punto fondamentale. Malgrado la scienza voglia presentarsi come neutra, malgrado la scienza voglia dire di se stessa di voler essere un sapere fondamentalmente neutro, questa scienza, ogni volta che vuole motivarsi si rifà a principi e valori morali, si rifà al bene dell’uomo, si rifà quindi a un’antropologia di riferimento.

La scienza non può essere autoreferente; tutte le volte che uno deve motivare una ricerca deve motivarla in nome di qualcosa, di una serie di beni, e in questo senso è assolutamente legittimo, dal punto di vista culturale, che la filosofia intervenga nel sapere della scienza, perché la scienza da sola – le tecnoscienze da sole – non possono dichiarare il loro valore senza sconfinare nel campo della morale.  Allora permettete che la filosofia morale intervenga e dica anche alla scienza quali sono i confini del proprio operare perché tutte le azioni umane, in quanto sono azioni libere e consapevoli, sono soggette a una valutazione morale. E noi non sottovalutiamo il carico di sofferenza, il carico di dolore, che esiste da parte delle coppie che desiderano avere un figlio e non riescono a ottenerlo, ma questo dolore, questa sofferenza, possono avere un significato solo se anzitutto sono in grado di rispettare fin dall’origine l’esistenza umana di quell’essere umano, di quella persona umana che loro desiderano avere come compagno della vita. E da questo punto di vista il nostro compito – il compito di tutte le persone di buona volontà, io credo – è quello di ritornare in qualche modo a riproporre l’origine, il significato umano, non semplicemente medicalizzato, tecnicamente corretto, della procreazione umana. Dentro il significato umano della relazione interpersonale, gli spazi alternativi a una tecnica, che umilia la generazione umana e umilia il generato consegnandolo in mani di terzi, lo spazio per alternative morali esiste ed è uno spazio che noi potremmo anche praticare.