Situazione e Prospettive
1. Dove è il bambino?
“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”
Nel primo comma dell’articolo 1 della legge 194 sono già racchiusi la lettera della legge – la scelta delle parole, la scala di importanza dei beni protetti dal legislatore – e lo spirito della legge – il “pensiero” del legislatore, le sue finalità, gli obbiettivi da raggiungere con la legge.
1.1. Il bambino nascosto.
Il bambino non c’è: c’è solo la vita umana al suo inizio, con il timore di definire quando è questo inizio, di usare la parola “concepimento”1.
Il bambino, del resto, è tenuto nascosto lungo tutta la legge: “sbuca fuori” solo per definire il padre del concepito (senza nessuna conseguenza: al padre non viene riconosciuto nessun diritto) e in altre due occasioni che lo riguardano: se ha (o si teme che abbia) anomalie o malformazioni, oppure se ha possibilità di vita autonoma. Ma in questo secondo caso il bambino è osservato al di là della gravidanza, come bambino già nato e solo in quanto tale gli si riconosce il diritto alla vita (il medico che non adotta ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto è punito, infatti, a titolo di omicidio)2.
In definitiva l’unico motivo per guardare il bambino durante la gravidanza è quello di verificare se è malato o malformato: altrimenti la legge 194 non vede i bambini che crescono per nove mesi dentro le loro mamme.
Del bambino si tace – deve tacersi – anche durante il colloquio che la donna incinta ha con il consultorio o la struttura sanitaria per ottenere il certificato che le permetterà di accedere all’intervento: per giungere alla decisione di non abortire, infatti, le strutture devono esaminare con la donna le soluzioni dei problemi economici e sociali, “aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e madre, promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto” (articolo 5 comma 1).
La natura del procedimento abortivo – l’uccisione del bambino – non viene menzionato in questa fase: eppure la donna non sarebbe spinta a superare i problemi che si presentano sapendo che si tratta di decidere se lasciare vivere o far morire un bambino?
L’informazione viene fornita solo quando la decisione è già presa: “Il medico che esegue l’intervento deve rendere (la donna) partecipe dei procedimenti abortivi” (articolo 14). La legge non specifica il momento: il medico può informarla quando è già sul lettino che la porta in sala operatoria? O addirittura durante l’intervento? Forse è esatta questa seconda tesi, perché la legge – premurosamente – specifica che i procedimenti abortivi “devono essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna”: in sostanza, non deve esserle mostrato quello che era il suo bambino.
L’informazione, comunque, deve essere mescolata con altri discorsi, così da non risultare troppo diretta: il medico “è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolamentazione delle nascite” (“la prossima volta stia più attenta: ci sono i preservativi, la pillola, la spirale, la sterilizzazione …”) ed inoltre, “in presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro … deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi”.
Come è noto, del bambino abortito dovrebbe continuare a tacersi anche dopo l’esecuzione dell’aborto, considerando i suoi resti come un rifiuto ospedaliero: cosicché taluno si indigna quando una Regione permette e alcuni cittadini attuano il pietoso gesto della sepoltura di esseri umani: un gesto che, fin dall’antichità, è stato considerato indice della civiltà di un popolo3.
1.2. La scala di valori del legislatore del 1978.
Torniamo all’analisi del primo comma dell’articolo 1: anche a voler intravedere il bambino nel richiamo all’inizio della vita umana, dal testo traspare la scala di valori del legislatore, quello che esso pensa del bambino (che cerca di non vedere).
La tutela della vita umana è al terzo posto: prima viene la “procreazione cosciente e responsabile”, poi il “valore sociale della maternità” e infine, buona ultima, la tutela dell’inizio della vita umana.
La legge, quindi, ha soprattutto interesse a come si comportano (o meglio: come dovrebbero comportarsi) uomini e donne al momento di procreare, in secondo luogo a come la società dovrebbe considerare la nascita di bambini; solo alla fine, pensa (senza nominarli) agli uomini e donne all’inizio della loro vita.
La scelta dei termini abbinati ai tre valori è davvero significativa e niente affatto casuale: si afferma il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, si riconosce il valore sociale della maternità (un valore, quindi, che preesiste all’approvazione della legge), ma si promette solo una generica tutela alla vita umana al suo inizio: nessun diritto al bambino che vuole nascere, nessun diritto alla donna che vuole far nascere il suo bambino!
Ecco che, in poche parole, viene spazzato via quel fragile bilanciamento di interessi che i giudici della Corte Costituzionale avevano ritenuto equo e che – ingenui? – avevano indicato al legislatore: “Ritiene la Corte che la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale. L’art. 31 comma 2 Cost. impone espressamente la tutela della maternità e, più in generale, l’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito …(la gravidanza può essere interrotta) quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.” (sentenza 27/75)4.
Il concepito è scomparso, il suo diritto costituzionale alla vita non è più menzionato e quindi – come si vedrà – l’aborto è permesso in ogni caso5.
2. La legge 194 permette sempre l’aborto.
2.1. L’aborto nei primi novanta giorni di gravidanza.
Nei primi novanta giorni della gravidanza la donna che intende abortire si presenta al consultorio o a un suo medico di fiducia o a una struttura socio sanitaria, sostiene un colloquio al termine del quale riceve un certificato che attesta la sua presentazione, il suo stato di gravidanza e la sua richiesta di abortire; dopo sette giorni può presentarsi all’ospedale per abortire gratuitamente. (articolo 4).
Nient’altro. E il “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica” che potrebbe derivare dalla prosecuzione della gravidanza, dal parto o dalla maternità in considerazione del “suo stato di salute, delle condizioni economiche, o sociali, o familiari, o delle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o della previsione di anomalie o malformazioni del concepito”? Non è questa la causa che rende lecito l’aborto?
Irrilevante: conta solo ed esclusivamente la decisione della donna, la sua autodeterminazione. Nessuno può sindacare sui motivi che la spingono ad abortire.
Per comprendere fino in fondo la volontà del legislatore di banalizzare, e insieme lasciare totalmente libera, la fase della decisione della donna di abortire, si deve pensare ai casi di ricorso al medico di fiducia: la donna fissa un appuntamento (può essere anche il medico del Servizio Sanitario Nazionale, oppure un medico amico o comunque scelto dalla donna), si reca allo studio con l’analisi di gravidanza e chiede di abortire; il medico le scrive un certificato; la donna prende un appuntamento con l’ospedale che, nella maggior parte dei casi, glielo fissa entro due settimane, massimo tre6; in nove casi su dieci l’esecuzione dell’aborto non richiederà un pernottamento presso l’ospedale7; l’intervento è gratuito.
Niente di diverso da un qualunque piccolo intervento che talvolta capita di dover effettuare in un ambulatorio ospedaliero.
Una chiarissima conferma dell’irrilevanza dei motivi della richiesta della donna è la constatazione che, fin dalle prime Relazioni ministeriali sull’applicazione della legge, non sono mai stati indicati i motivi per cui le donne chiedevano di abortire nei primi 90 giorni.
Può sembrare paradossale: ma solo nel 2005, a 27 anni dall’approvazione della legge, la Commissione parlamentare di inchiesta sull’attuazione della legge 194 ha suggerito timidamente che “gli ulteriori elementi di conoscenza – le cui risultanze sarebbero poi ulteriormente elaborate dall’ISTAT e dall’Istituto Superiore di Sanità – potrebbero riguardare, in particolare (…) le circostanze indicate dalla donna, ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 194, al momento della richiesta della interruzione volontaria di gravidanza”; indicazione ovviamente ignorata dal Ministro della Salute, perché irrealistica: l’aborto nei primi novanta giorni è regolato sul principio di autodeterminazione della donna, i motivi che spingono le singole donne nei singoli casi ad abortire restano interni ad esse, che possono decidere di comunicarli o meno al consultorio o al medico.
In altre parole: qualunque motivazione – esplicitata o meno – è ammissibile per ottenere l’aborto.
Sono quindi perfettamente legittime e conformi allo spirito della legge anche queste considerazioni8:
Ma c’è qualcosa d’altro da dire; qualcosa che tutte le persone di buon senso implicitamente ammettono, anche se per qualche ragione non viene mai o quasi mai affermato pubblicamente. L’aborto non è solo un diritto. La vulgata politicamente corretta insiste nel presentarlo come male minore, inevitabile dramma per tutte le donne; ma la verità è che per moltissime donne l’aborto è un bene. Come ha detto una volta Katha Pollitt: “ L’aborto legale è una cosa buona, e non solo perché impedisce quello clandestino. Senza aborto, le donne sarebbero meno sane, meno educate, meno in grado di realizzare i loro doni e i loro talenti, meno libere di scegliere i propri compagni; i bambini sarebbero accuditi peggio; il sesso sarebbe rovinato dalla paura della gravidanza, come era la norma nei bei tempi andati; le famiglie sarebbero ancora più guaste di quanto non siano già adesso; ci sarebbero ancora più madri singole, più divorzi, più povertà, e più gente infelice che si sentirebbe oppressa dalle circostanze.”
La legge, poi, permette ulteriori allargamenti della assoluta libertà garantita dalla norma: rinuncia ad indicare criteri obbiettivi per determinare l’inizio della gravidanza, cosicché non è difficile far apparire posticipato l’inizio della gravidanza, così da rientrare nella dodicesima settimana9; permette, se è comunque troppo “tardi”, di rilasciare un certificato attestante l’urgenza (art. 5 comma 3), senza specificare i motivi di tale urgenza, così da non “sforare” il limite dei 90 giorni10.
2.1. L’aborto delle minorenni.
L’autodeterminazione sostanzialmente è assoluta anche nel caso dell’aborto delle minorenni: l’eventuale dissenso dei genitori viene infatti facilmente aggirato mediante il ricorso al Giudice tutelare: l’articolo 12 prevede, infatti, che “nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza”.
Il vaglio del Giudice tutelare è un filtro adeguato?
Fin dai primi anni di applicazione della legge 194 emerse chiaramente di no e le autorizzazioni concesse toccarono il 98% (anno 1981). I Ministri della Sanità osservavano che “dalla lettura dei provvedimenti dei giudici tutelari risulta che nella maggior parte dei casi essi non fanno altro che prendere atto della volontà della minore e rilasciano l’autorizzazione (spesso su moduli prestampati)” (Relazione anno 1980) e, ancora: “Le motivazioni poste a base dei provvedimenti autorizzativi da parte dei giudici tutelari sono per lo più stereotipe e spesso vengono utilizzati moduli stampati; da esse si rileva che, nella stragrande maggioranza dei casi, i giudici si limitano a prendere atto della volontà della minore e molto raramente si spingono a sindacare il merito della decisione da questa adottata. La ragione di tale orientamento, a detta di alcuni giudici, sarebbe da ricercare nella circostanza che le ragazze che si rivolgono ai consultori e, successivamente, al magistrato, non fanno mistero della possibilità e dell’intento di ricorrere all’aborto clandestino in caso di diniego di autorizzazione; sì che un’interpretazione rigida della legge, lungi dall’indurre la donna ad una serena accettazione della gravidanza, la sospingerebbe, piuttosto, verso alternative illecite che risulterebbero tuttora agevolmente praticabili”. (Relazione anno 1981).
Come si vede il reale contenuto della legge, quanto all’aborto delle minorenni, era questo: se i genitori acconsentono, bene; se non acconsentono, il consenso lo darà la minore.
Nel 2005 il tasso di abortività delle minorenni è del 4,8 per mille donne; le percentuali di accoglimento delle richieste oscillano da anni tra il 97 e il 98%; il Ministro della Giustizia (Relazione 2007) riferisce a chiare lettere che le minorenni (evidentemente dietro suggerimento di alcuni consultori) si rivolgono a giudici tutelari competenti per luoghi diversi dalla loro residenza, così da evitare giudici troppo puntigliosi …
Bisogna poi ricordare che l’assenso di chi esercita la potestà non è nemmeno richiesto sia in caso di “urgenza” per “grave pericolo per la salute della minore”, sia per l’aborto dopo i novanta giorni: cosicché si può tranquillamente affermare che le minorenni sono equiparate alle maggiorenni.
3. La legge 194 istiga all’aborto eugenetico.
Una delle affermazioni più ribadite negli ultimi tempi, dopo la notorietà assunta da alcuni episodi di aborti effettuati nei confronti di feti che si ritenevano malformati o malati, è che la legge 194 non permette l’aborto eugenetico11: sarebbero stati casi di una ingiusta applicazione della legge.
3.1. L’aborto eugenetico.
Il Ministro della Salute lo ribadisce solennemente nella Relazione del 4/10/2007: “In relazione al tema del ricorso all’aborto dopo i 90 giorni, non eludendo la complessità delle riflessioni ad esso collegate, si sottolinea che il ricorso all’aborto in queste età gestazionali è rigorosamente normato dalla legge … si ribadisce non essere in alcun modo lo spirito e l’obbiettivo della legge 194/78 quello di perseguire finalità eugenetiche, bensì la salvaguardia della salute e del benessere psicofisico della donna”.
La lettura della legge induce a conclusioni opposte: menzionata tra i possibili motivi dell’aborto nei primi novanta giorni, la presenza di anomalie o malformazioni del nascituro assume valore decisivo per l’aborto dopo i novanta giorni: la legge la indica come possibile causa di un “grave pericolo per la salute psichica della donna”, concetto del tutto vago se si tiene presente la sua definizione come “completo benessere psicofisico”, come si è visto – non a caso – ricordato dal Ministro12.
E così, poche pagine dopo, lo stesso Ministro conferma che tutti gli aborti dopo i novanta giorni, derivano da “risultati sfavorevoli delle indagini prenatali”: ma senza cogliere la contraddizione con quanto prima affermato, poiché – nel sottile gioco della dialettica – i bambini malati non vengono abortiti perché sono malati; vengono abortiti perché la conoscenza da parte della madre della loro malattia fa sì che la prosecuzione della gravidanza mette in pericolo il benessere psicofisico della donna …
Non è quindi, affatto un caso che, se nel 1983 la percentuale di aborti volontari eseguiti oltre le 12 settimane era pari allo 0,7% del totale, oggi la percentuale giunge al 2,7% (quasi quattro volte di più): le diagnosi prenatali – ormai trasformate in armi di una raffinata caccia al bambino imperfetto – si sono sviluppate in questi trenta anni e, quindi, i loro risultati vengono utilizzati quando sono disponibili (quindi spesso a gravidanza avanzata).
La percentuale varia da Regione a Regione, indicando percentuali maggiori in regioni “avanzate” (Provincia di Bolzano, Veneto, Friuli Venezia Giulia, oltre alla Sardegna, regione nella quale l’attenzione alle diagnosi prenatali è sviluppata in relazione alla diffusione di patologie genetiche). Il Ministro conferma a chiare lettere l’uso eugenetico – reso possibile dalla legge – dell’aborto: “… se in una Regione si ha un tasso effettivo di abortività basso perché il livello di consapevolezza verso la procreazione responsabile è molto elevato tanto da ridurre le gravidanze indesiderate, in quella stessa Regione si può avere una maggiore estensione della diagnosi prenatale con conseguente aumento di interruzioni di gravidanze inizialmente desiderate, in tal caso non desta meraviglia avere una più alta percentuale di IVG oltre la 12a settimana”.
La regolamentazione dell’aborto dopo la dodicesima settimana, in questo passo, viene fatta rientrare in quella generale, come se non esistesse alcuna differenza: se la gravidanza era inizialmente desiderata e, in conseguenza dell’esito della diagnosi prenatale, non lo è più, inevitabile – e legittimo – è il ricorso all’aborto volontario, che è, quindi, anche in questo caso, un diritto della donna.
Non a caso il Ministro non si rammarica affatto di questi dati: al contrario, l’unica sua preoccupazione è che questo diritto ad abortire il figlio malato in ogni stadio della gravidanza sia esteso a tutti: “a differenza delle interruzioni di gravidanza entro i 90 giorni, quelle effettuate dopo tale termine riguardano gravidanze interrotte in seguito a risultati sfavorevoli delle analisi prenatali, cui certamente le donne straniere hanno molto minore accesso. Non desta purtroppo meraviglia che le donne di cittadinanza estera abbiano (…) minore accesso alle indagini prenatali (anche per i costi non trascurabili)”.
Ecco l’azione da compiere: permettere anche alle donne straniere l’accesso (gratuito?) alle analisi prenatali, così da permettere loro di esercitare al pari di quelle italiane il diritto all’aborto eugenetico …
3.2. Aborto, mentalità eugenetica, eutanasia.
Da più parti è stato sottolineato come l’aborto eugenetico sia ormai percepito, non più come un semplice diritto della donna, ma come dovere sociale e anche come un dovere verso il figlio, che avrebbe diritto a non nascere se malato: di qui la pressione fortissima verso l’esecuzione di diagnosi prenatali, anche se pericolose per la salute del feto e aventi risultati niente affatto certi.
La legge 194 ha dato e sta dando una forte spinta verso il rifiuto nei confronti degli uomini disabili, che possono essere eliminati ancora prima di essere visti: la teorizzazione dell’eutanasia per i bambini estremamente prematuri – che le nuove tecniche di rianimazione possono far sopravvivere anche a 21 settimane anche se con il rischio di gravi disabilità – è la conseguenza spontanea, inevitabile, dell’obbligo di abortire i bambini malati prima della nascita ed è presentata, ancora una volta, come un atto di pietà nei confronti del bambino (!).
I contraccolpi di questa mentalità si notano, proprio in questo periodo, in relazione ad una norma – quella dell’articolo 7 ultimo comma – prevista per casi che si ritenevano eccezionali e che, in conseguenza dell’avanzare delle tecniche rianimatorie, non lo sono più. La norma prevede che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 (grave pericolo per la vita della donna in conseguenza della gravidanza o del parto) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
All’epoca dell’approvazione della legge la norma non intendeva incidere certamente sull’area dell’autodeterminazione della donna, perché la possibilità di vita autonoma era presente solo per feti abortiti in epoca molto avanzata: ma oggi non è più così. Le statistiche riportate nella Relazione del Ministro della Salute del 2007 indicano che lo 0,7% degli aborti volontari sono stati eseguiti alla 21a settimana o a quelle successive ma, ipotizzando un ulteriore avanzamento delle tecniche rianimatorie, non deve essere tralasciato l’ulteriore 1,1% di aborti eseguiti dalla 16a alla 20a settimana.
Vi è, quindi, una “richiesta” di aborti tardivi determinata dallo sviluppo delle tecniche diagnostiche prenatali, cui corrisponde una maggiore capacità delle tecniche rianimatorie di far sopravvivere il bambino abortito (ovviamente se viene abortito con tecniche che ne permettano la sopravvivenza, quindi con un parto anticipato).
Il Ministro della Salute, nella Relazione del 2007, indica la norma appena riportata come indice della “saggezza” del legislatore: “Si sottolinea quanto l’indicazione dei legislatori, rimandando alla continua evoluzione del progresso medico, scientifico e tecnologico la previsione della possibilità di vita autonoma del feto, si sia dimostrata saggia e lungimirante, rispettosa del valore della tutela della salute della donna e anche della vita del nascituro”; ma, in realtà, nasconde sotto questa frase compiaciuta il terrore che rischia di diffondersi tra i medici che eseguono gli aborti.
Come si è detto, la legge non prevede una pena specifica per la violazione di questa norma: e questo perché la sanzione è quella dell’omicidio volontario per il medico che fa morire il feto non ottemperando al dovere imposto dalla legge. La vicenda di Villa Gina – aborti compiuti clandestinamente anche in casi di gravidanze alla 24 settimane – ha portato a condanne pesantissime: 18 anni di reclusione13.
Ecco che, quindi, questa norma è l’unico argine reale all’esecuzione dell’aborto, che prima di tale momento è sostanzialmente libero e dopo è assolutamente vietato e severamente punito: quanto illogica sia questa disciplina – il bambino è sempre lo stesso, un giorno prima o un giorno dopo! – sembra evidente14.
Ma da una parte il Ministro nulla dice sugli aborti tardivi che pure certifica essere avvenuti nell’anno precedente (sono state aperte indagini preliminari? I feti sono sopravvissuti?) dall’altra pubblicamente si interroga sulla necessità di stabilire preventivamente l’epoca della gestazione in cui la sopravvivenza del bambino è possibile: evidentemente per garantire i medici dai rischi che corrono!
Nello scontro derivato dal grande progresso di due distinte branche della scienza medica, inevitabile è la comparsa di una domanda: ma un feto malato o malformato ha la possibilità di vita autonoma? Vale la pena di salvarlo? Non è meglio risolvere il problema con un metodo abortivo sicuro e “pietoso”, come l’iniezione intracardiaca?15
4. La prevenzione dell’aborto: le parti “buone” della legge.
Si dice, da più parti: almeno applichiamo le parti buone della legge, quelle che servono ad eliminare l’aborto, a permettere alle donne di non scegliere di abortire e tenere il suo bambino!
4.1. Prevenire l’esercizio di un diritto?
In realtà non può sorprendere che le misure dissuasive e preventive non abbiano sortito, nel loro complesso, l’efficacia sperata se si tiene conto che la condotta che si voleva evitare – l’interruzione volontaria della gravidanza – veniva contestualmente resa lecita dalla legge. La prevenzione di determinate condotte da parte della legge è di solito accompagnata al loro divieto e alla repressione delle eventuali violazioni. I potenziali destinatari ricevono, cioè, un messaggio chiaro: questa condotta non è ammessa ed è punita; lo Stato (con gli enti preposti) fornisce strumenti per evitare la condotta vietata.
Se invece la condotta che si vuole prevenire è dichiarata lecita (anzi: è riconosciuta come un diritto) l’opera delle autorità pubbliche di prevenzione e dissuasione sarà inevitabilmente indebolita: per quale motivo astenersi dall’esercizio di un diritto?
4.2. La prevenzione della legge 194.
Ma davvero il legislatore voleva eliminare l’aborto volontario? Davvero voleva – come afferma – contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (articolo 2 comma 1 lettera d), e “promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto” (articolo 5 comma 1)?
Il meccanismo messo in atto dalla legge dimostra il contrario: quell’azione avrebbe dovuta infatti essere svolta dai consultori, ma la legge ha previsto: a) che il ricorso al consultorio non è obbligatorio (attualmente il ricorso ad essi si aggira sul 35% dei casi); b) che l’intervento del consultorio non può impedire la scelta della donna di procedere all’aborto; c) che la funzione dissuasiva del consultorio si accompagna al rilascio del certificato per procedere all’aborto.
La presenza dei consultori, quindi, non può che essere irrilevante ai fini della riduzione del ricorso all’aborto volontario, sia perché le donne possono decidere di non recarvisi, sia perché il rapporto che può instaurarsi tra il personale del consultorio e la donna è viziato fin dall’origine dall’obbligo per il primo di certificare il colloquio, così permettendo alla donna di abortire.
Nonostante i ripetuti proclami del Ministro della Salute i consultori non hanno affatto contribuito ad impedire gli aborti volontari: i dati della Relazione del 2007 risultano chiari.
Si prenda ad esempio una Regione “avanzata”, come la Liguria. I consultori funzionanti sono 2,6 ogni 10.000 donne in età fertile e 1,1 ogni 20.000 abitanti, cifre nettamente superiori al dato nazionale (1,5 ogni 10.000 donne in età fertile e 0,7 ogni 20.000 abitanti) e anche agli obbiettivi di diffusione di questi centri nel Paese16.
Ebbene: il rapporto di abortività è nettamente superiore a quello nazionale (310,6 contro 241,8) e così il tasso di abortività per le donne fertili (11,2 contro il 9,6). I dati restano nettamente superiori anche se si tiene conto solo delle donne residenti in Liguria17. Non solo: il dato eclatante è quello delle minorenni (che i consultori familiari possono raggiungere per offrire gratuitamente contraccettivi): il tasso di abortività delle donne minorenni è dell’8,2, quasi il doppio del tasso nazionale (4,8)18!
La tendenza, poi, ad utilizzare l’aborto come strumento contraccettivo, evidenziata dalla percentuale degli aborti volontari ripetuti, non è affatto scalfita dalla presenza dei consultori: la percentuale di aborti ripetuti in Liguria è, anzi, seppur di poco, superiore alla media nazionale19.
Da sempre la Liguria ha avuto un basso tasso di fecondità (che ancora mantiene nettamente inferiore a quello nazionale: 35,9 contro il 39,5) ed era considerata una regione “avanzata” dal punto di vista dell’uso dei contraccettivi già nel 1982 (veniva per questi suoi meriti menzionata nella Relazione del Ministro della Sanità di quell’anno); per di più l’offerta dei consultori è nettamente superiore al dato nazionale e questo, secondo i proclami dei ministri della Sanità e il teorema sotteso alla legge 194, avrebbe dovuto nettamente diminuire il numero di aborti: invece il dato è nettamente superiore a quello nazionale: dopo 30 anni l’opera di diffusione non è servita a niente?
In realtà le Relazioni dei Ministri della Sanità fin dai primi anni di applicazione della legge fanno capire quali fossero gli obbiettivi e in che misura sono stati raggiunti.
Il Ministro Aniasi, nella Relazione del 1980, affermava: “L’obbiettivo che tutti ci prefiggiamo è quello di debellare l’aborto, di dare cioè concreta attuazione al principio affermato dalla Legge 194 e cioè che l’aborto non deve più essere strumento di contraccezione. Ma ciò sarà possibile solo se si avvierà al più presto un’opera di educazione sanitaria e di informazione sui metodi contraccettivi. La prevenzione (…) deve essere, anche nel campo della procreazione, il principale strumento di intervento affinché il concepimento sia sempre il risultato di una scelta consapevole e responsabile della coppia” e concludeva: occorre “avviare concretamente una massiccia campagna di informazione sulla contraccezione e di educazione sanitaria sui temi della procreazione e della sessualità, condizione indispensabile per cancellare l’aborto dalla nostra realtà sociale”.
Aspettiamo ancora, dopo 30 anni, questa cancellazione …
Ancora il collega Altissimo, l’anno dopo, si mostrava ottimista, pur con molte riserve: “Tralasciando valutazioni di ordine etico, religioso e demografico si deve tenere conto che il cambiamento di un costume richiede comunque tempi molto lunghi e infatti ancora oggi, dopo quattro anni, l’educazione alla procreazione responsabile quale valida alternativa all’interruzione volontaria della gravidanza, pur riconosciuta da una larga fascia della popolazione come soluzione ottimale del problema, deve ancora trovare il modello di diffusione capillare a livello del territorio”.
Insomma: la diffusione dei metodi contraccettivi avrebbe portato alla cancellazione dell’aborto. Sono passati tanti anni, ma questa equazione – più contraccettivi meno aborti – viene stancamente ripetuta da ogni Ministro in carica: l’ultimo afferma che “rispetto alla prevenzione del ricorso all’aborto il ruolo dei consultori risulta primario … il più importante contributo è dato dai programmi di promozione della procreazione responsabile nell’ambito del percorso nascita e della prevenzione dei tumori femminili e con i programmi di informazione ed educazione sessuale tra gli/le adolescenti nelle scuole e nei conseguenti spazi-giovani presso le sedi consultoriali”.
Ma i ministri hanno da tempo abbandonato la “visione” della scomparsa dell’aborto: si limitano, oggi, a confrontare il tasso di abortività dell’Italia con quelli di altri paesi, rassicurandoci che “siamo nella media” e che anzi, “il dato italiano si attesta tra i valori più bassi” (abortiscono meno di noi in Svizzera, Germania, Olanda, Spagna, ma molto più di noi in Danimarca, Francia, Inghilterra, USA e nei paesi dell’est europeo): dimostrazione che la legge 194 è considerata – né più né meno – come una legge liberalizzatrice dell’aborto che può essere confrontata con le altre …
E così, anche nel 2005, gli aborti legali sono stati ben 132. 790! Cifra impressionante che contribuisce al raggiungimento del numero di cinque milioni di bambini in trent’anni.
Cifra non veritiera: non solo per la presenza degli aborti clandestini, di cui si dirà sotto, ma soprattutto per il ricorso ai contraccettivi abortivi che nascondono gli aborti precocissimi20.
Tornando alla diffusione dei contraccettivi, non interessa qui affatto la fondatezza dell’equazione che sopra si è indicata; piuttosto l’insistere dei Ministri su questa tematica induce a ritornare agli obbiettivi della legge 194: non l’eliminazione dell’aborto, ma il riconoscimento per tutti del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e, più modestamente, il ricorso all’aborto volontario non come strumento di controllo delle nascite.
4.3. I veri obbiettivi della legge 194.
Il “diritto” alla procreazione cosciente e responsabile viene inteso esplicitamente come diritto di tutti ad accedere ai contraccettivi (compresi quelli abortivi come la pillola del giorno dopo): questo risulta evidente in relazione ai minorenni: “la somministrazione su prescrizione medica nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori” (art. 2 comma 3).
Si è già detto, d’altro canto che la donna su cui viene praticato l’aborto dovrebbe sorbirsi la lezioncina del dottore sulla regolazione delle nascite (art. 14 comma 1).
Del tutto coerentemente il Ministro della Salute, nella Relazione dell’anno 2007, riferisce di specifici progetti di educazione alla procreazione responsabile per le donne straniere (i consultori siano aperti il giovedì pomeriggio, così le colf – invece di trovarsi con le connazionali – possono andare ad informarsi …) e per le donne che hanno abortito: “dovrebbe essere attivata una specifica politica di sanità pubblica che, identificando il consultorio sede di prenotazione per le analisi pre-IVG e per l’intervento, renda “conveniente” rivolgersi per il rilascio del documento o della certificazione a tale servizio, ma cui si ritorna per il controllo post-IVG e per il counselling per la procreazione responsabile”.
Quanto, invece, al secondo obbiettivo, il secondo comma dell’art. 1 della legge recita, con una certa solennità: “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è il mezzo per il controllo delle nascite”.
Di cosa si tratta: di un divieto? Certamente no, perché nessuna sanzione è prevista per chi utilizza l’aborto come contraccettivo. Di una constatazione di uno stato di fatto? Certamente no, anche perché non spetta alle leggi constatare fenomeni sociali.
Si tratta, quindi, di un obbiettivo: un obbiettivo che dovrebbe essere raggiunto non coattivamente ma in conseguenza di uno spontaneo adeguamento delle donne che usufruiscono della nuova regolamentazione.
Il legislatore fornisce, quindi, una definizione dell’aborto volontario palesemente priva di efficacia : il singolo aborto sarà o meno usato come mezzo di controllo delle nascite in conseguenza delle scelte della donna che liberamente vi si sottoporrà. Il legislatore, cioè, non può essere in grado di conoscere quale sarà il comportamento delle donne che, nel futuro, utilizzeranno le procedure previste: piuttosto avrebbe dovuto creare procedure che impedissero l’utilizzo dell’aborto come contraccettivo .
Le procedure create, al contrario, permettono proprio un utilizzo in questo senso: nei primi novanta giorni di gravidanza, che sono quelli in cui l’aborto può essere utilizzato come alternativa ai contraccettivi o come rimedio al loro fallimento, come si è visto la decisione di interrompere la gravidanza è lasciata alla discrezionalità della donna (che, addirittura, potrebbe avanzare la richiesta in relazione a “circostanze in cui è avvenuto il concepimento”, riferimento generico che comprende, sì, una violenza sessuale subita, ma anche malfunzionamenti o dimenticanze concernenti l’uso di contraccettivi). Si è poi visto come la legge abbia permesso di commercializzare i cd. contraccettivi di emergenza, che spesso hanno effetto abortivo.
Insomma: le donne sono libere di usare l’aborto come unico contraccettivo o come contraccettivo “di rincalzo” senza che nessun ostacolo venga loro frapposto, anche se dovranno, forse, sorbirsi la ramanzina del medico già ricordata.
Fin da subito è risultato palese il fallimento: l’obbiettivo, con questi strumenti, è irraggiungibile.
Fin dai primi anni i Ministri constatavano che la realtà era opposta a quella proclamata dalla legge. Il Ministro Altissimo, nel 1981, osservava: “l’interruzione volontaria della gravidanza rappresenta (nel mondo) uno dei più diffusi metodi di regolazione delle nascite. Anche in Italia l’aborto è, se non il più diffuso, uno dei metodi più largamente praticati tenuto conto che il consumo di contraccettivi è tra i più bassi a livello europeo e che si è avuta una recente contrazione delle vendite”; l’anno successivo ribadiva, alla luce dei dati di ripetizione, che “in alcune aree del Paese l’interruzione di gravidanza rappresenta un mezzo di controllo delle nascite; il che è contrario non solo alla lettera e allo spirito della legge, ma anche alla tutela della salute e della dignità della donna …”.
Quell’anno la percentuale di reiterazione degli aborti volontari era del 17%; nel 2005 il dato è – come ormai da molti anni – al 26,4%: una donna su quattro che esegue un aborto volontario l’ha già fatto in precedenza una, due, tre o più volte.
Ma il Ministro è contento: secondo alcuni calcoli matematici avremmo dovuto giungere al 44,6% …
Il Ministro sottolinea, però, l’incidenza su questa alta percentuale delle donne straniere (soprattutto dall’Est europeo) che hanno una tendenza all’abortività ripetuta nettamente superiore alle italiane: ma questo dimostra che, appunto, la legge 194 non vieta nulla, permette qualunque comportamento e, al limite, auspica un possibile ravvedimento delle donne21.
Poche parole sul terzo obbiettivo: quello dell’eliminazione dell’aborto clandestino.
Il Ministro sostiene che esso è ormai debellato e che la cifra indicativa si aggira sui 20.000 aborti annui: in pratica l’aborto clandestino viene fatto “sparire” dai dati, come se si fosse raggiunto il risultato che si perseguiva: non si rinuncia ad affermare, comunque, che il 90% degli aborti clandestini è concentrato al sud.
Non tiene conto dei dati forniti dal Ministro della Giustizia che, pur modesti, qualche significato avranno: ebbene, mentre nel 1983 i procedimenti penali aperti per violazione della legge 194 erano 2122, nel 200623 sono stati 49 (più del doppio), fra l’altro per la metà (49,7%) concentrati al Nord …
4.4. Il ruolo del volontariato.
Il legislatore del 1978 è stato ben attento a relegare il volontariato per la vita in un angolo, per limitare la sua azione.
L’articolo 2, comma 2, stabilisce, infatti, che “i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, sulla collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Come si vede, nessun obbligo di convenzione ma valutazione di opportunità legata ad un giudizio (insindacabile) di idoneità dell’associazione di volontariato.
Una impostazione pubblicista e verticistica che, trent’anni dopo, è ribadita dal Ministro della Salute (che non menziona il volontariato): “… si ribadisce che la prevenzione dell’aborto è obbiettivo primario di scelte di sanità pubblica, attraverso un rinnovato impegno programmatorio ed operativo da parte di tutte le istituzioni competenti, nonché degli operatori dei servizi”.
Le conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta vanno poco oltre: “il volontariato, nel rispetto del pluralismo culturale, deve svolgere una funzione di ausilio nell’ambito della rete di servizi a tutela della maternità responsabile. (…) Occorre che le strutture pubbliche svolgano un’efficace attività di informazione sull’esistenza e sull’azione svolta dal volontariato (…), lasciando ovviamente la donna libera di avvalersene o no. (…) È naturalmente indispensabile definire, in sede di convenzione, i compiti affidati a tali associazioni, al fine di assicurare che la scelta delle donne avvenga in autonomia e nella piena consapevolezza di tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento”.
In poche parole: i volontari dipendono dagli enti pubblici (il principio di sussidiarietà sembra sconosciuto) e stiano bene attenti a non esagerare nella dissuasione dell’aborto (quasi che i Centri di Aiuto alla Vita costringessero le donne a non abortire, forse legandole …).
4.5. L’attuazione integrale della legge 194.
Cosa comporta, allora, invocare l’integrale attuazione della legge 19424, anche nella sua parte preventiva?
Comporta, in primo luogo, accettare il principio di autodeterminazione della donna: riconoscere il suo diritto ad abortire il figlio che ha in grembo, qualunque siano i motivi che la spingono a tale gesto25.
Comporta poi invocare un diverso atteggiamento delle strutture pubbliche, in particolare dei consultori: ben sapendo, però, che le donne non sono obbligate ad avvalersene e che anche quelle che lo fanno non sono obbligate a seguirne i consigli o a riceverne gli aiuti o le pressioni; non sono nemmeno obbligate ad ascoltare le parole che vengono loro rivolte, mentre il consultorio è obbligato a rilasciare il certificato che permetterà l’aborto; sapendo, inoltre, che proprio per tale obbligo, nei consultori non potranno essere presenti volontari per la vita.
Comporta, infine, proporre l’azione delle strutture volontarie di aiuto alla vita: strutture che, in realtà, operano a prescindere dalla legge e spesso nonostante la legge.
Davvero non può bastare.
5. La donna sola.
Torniamo alle considerazioni iniziali e proviamo ad approfondire in che posizione la legge pone la donna incinta in difficoltà.
Abbiamo visto che, per quanto possibile, le viene nascosto il bambino che ha in grembo, quello che, in realtà, già le fa compagnia. Il figlio le viene indicato solo se è malato o deforme, o si teme sia tale.
Anche il padre, come già accennato, viene fatto scomparire. Certo: per volontà della donna (“ove la donna lo consenta”), ma, di fatto, in questo modo il legislatore toglie alla madre uno strumento da far valere contro il padre: “il figlio l’abbiamo fatto insieme, non te ne puoi disinteressare”.
L’eliminazione della scena del padre, così, talvolta sarà una violenza ingiusta nei confronti di padri desiderosi di assumersi le responsabilità e risolvere i problemi (non è, forse, questo un istinto innato nell’uomo?), (molte) altre volte sarà la decisione obbligata di una donna che ben conosce il padre irresponsabile, fuggitivo, di suo figlio, o addirittura di una donna costretta dall’uomo a procedere all’aborto: comunque un lasciapassare per l’uomo che vuole evitare ogni ripercussione di una gravidanza indesiderata.
Se, quindi, la donna si trova senza compagno e senza figlio in questa situazione di difficoltà, chi troverà che la supporti, che l’aiuti, che le dia coraggio?
Abbiamo visto che la legge le indica il consultorio come soluzione possibile (non obbligatoria), ma che rendendolo strumento per la redazione del certificato per abortire, vizia irrimediabilmente la natura del rapporto che può instaurarsi.
Non solo: all’interno del consultorio – proprio perché esso è luogo di rilascio del certificato per l’aborto – non saranno presenti obbiettori di coscienza, quindi sanitari convinti dell’ingiustizia dell’aborto e della necessità di aiutare insieme mamma e bambino; il rapporto, quindi, sarà ancora maggiormente viziato.
Se sarà fortunata la donna incontrerà il volontariato per la vita: ma non è detto che il consultorio (o il medico di fiducia o la struttura socio-sanitaria) le forniscano indicazioni utili in questa direzione, non essendovi alcun obbligo.
La donna, quindi, è lasciata sola dalla legge: sola in questo momento difficile, proprio quando avrebbe dovuto incontrare un appoggio e una compagnia.
Ma al legislatore interessa davvero la salute della donna?
Il primo comma dell’articolo 1 con cui è iniziato questo scritto, in realtà, non menziona nemmeno la donna; ma anche il titolo della legge parla solo della “tutela sociale della maternità”: le singole donne incinte sembrano ignorate.
Si scopre, quindi, che nel colloquio con il consultorio o con il medico di fiducia (articolo 5) il tema sanitario non è toccato: solo il medico che esegue l’aborto dovrà – bontà del legislatore! – verificare “l’inesistenza di controindicazioni sanitarie”. I pericoli o i danni alla salute fisica e psichica della donna (richiamando proprio, se si vuole, il concetto ampio del benessere psicofisico) che potrebbero derivare dall’aborto sono tralasciati, taciuti: si dà per scontato che tali danni o pericoli possano derivare solo dalla prosecuzione della gravidanza o dalla maternità.
Si vuole solo evidenziare qui l’impostazione del legislatore: qualunque medico coscienzioso e intellettualmente onesto si porrà il quesito se, di fronte ai problemi evidenziati dalla donna incinta in difficoltà, la soluzione dell’aborto sia peggiore del male ipotizzato …
6. Non si può che ripartire dalla vita: della madre e del bambino.
Dove è il bambino?
“I Magi … videro il bambino con Maria, sua madre, e prostratisi, lo adorarono”.
Cosa fa, invece, Erode? Rimane a Gerusalemme, non cerca il bambino, non lo vede, ma si infuria e così “mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù”.
Ci si può “infuriare” contro un bambino dopo averlo visto?
Per avere il coraggio di uccidere i bambini bisogna decidere di non vederli.
Giacomo Rocchi
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