Paolo Pagani – Docente di antropologia filosofica
Col mio intervento proporrò qualche appunto intorno ad alcune “ovvietà” – ovvietà meritevoli di attenzione -, che riguardano la persona e la persona umana in particolare.
1. Uno sguardo sulla persona.
A partire dal filosofo latino Severino Boezio, si usa parlare della persona come di una «sostanza individuale di natura razionale» . Con poche varianti, questa definizione attraversa la storia del pensiero e giunge fino a noi: anche oggi, è su di essa che in linea principale si dibatte.
“Sostanza individuale” o “individuo”, nel vocabolario di questo autore e di quelli che lo hanno valorizzato al riguardo – tra i quali ricordiamo Tommaso d’Aquino -, è qualcosa che è sempre e solo “soggetto di predicazione” e mai “attributo di un altro soggetto” . “Razionale” vuol dire capace di aver presente l’orizzonte dell’essere, in cui ogni realtà si dà: capace, dunque, di avere presente un orizzonte che si estende all’infinito. La parola “natura” (dal verbo latino nascor), a sua volta, indica una capacità progressiva: un dinamismo non compiuto, ma stabile come disposizione. Una realtà “di natura razionale”, in sintesi, è una realtà capace di aprirsi costantemente all’orizzonte dell’essere, all’orizzonte che non ha limiti; e anche il suo desiderio avrà i confini di questo orizzonte: perciò non sarà mai propriamente captato da nessuna realtà finita.
La parola “razionale” forse non suona felicissima alle nostre orecchie, perchè noi abbiamo in mente per lo più la razionalità come calcolo. Originariamente, però, “ragione” vuol dire “rapporto adeguato”. Adeguato a che? All’essere. Essa indica, dunque, la capacità di avere con l’essere un rapporto, non solo fattuale, ma anche “formale”, ovvero appropriato. Noi, infatti, non solo capitiamo nell’essere, ma siamo anche capaci di averlo presente come tale: e ciò fa di noi, appunto, degli individui razionali.
Anni fa ho tenuto, per un certo periodo, alcune ore di insegnamento alle scuole elementari. In una classe quarta, una volta, ho fatto fare un compito, cui si collegava un piccolo esperimento mentale. Ho detto ai ragazzini: prima fate dei pensierini (e naturalmente un disegno) su come vorreste il Paradiso; poi immaginate che Gesù si impegni a concedervelo secondo la vostra descrizione; accettereste un simile accordo? Una bambina – ricordo ancora, dal viso simpatico -, ha risposto: “no”. “Perchè no?” – le chiedo. “Perchè è di più”. “Cosa è di più?”. “Quello che vorrei”. La bambina non si fidava della sua immaginazione, perchè di certo la sua immaginazione avrebbe descritto l’oggetto del suo desiderio, riducendolo: infatti si tratta di un oggetto infinito; mentre l’immaginazione si muove comunque nell’ambito del finito. Era una bambina metafisica: aveva afferrato subito la questione. Essere un individuo “razionale”, vuol dire proprio trovarsi nella condizione che la bambina aveva capito: vivere in sé una sproporzione radicale tra immaginazione e pensiero, tra immaginazione e desiderio.
Avere presente – lo dico con una parola un po’ desueta – l’“essere”, ovvero l’orizzonte infinito su cui si apre la nostra visuale quando apriamo gli occhi dell’intelligenza, vuol dire aver presente anche se stessi in quell’orizzonte, e quindi essere capaci di ritornare su di sé; essere autocoscienti. L’autocoscienza è frutto di una plasticità o decompressione, che non può essere propria di una realtà puramente fisica; perciò, già da questa annotazione, si ricava che la nostra persona ha dentro di sé un segreto che è anche ultrafisico. Questa capacità della persona di ritornare su di sé, è la capacità di essere “per sé”, di non essere divisa da sé; la radice più profonda della individualità di cui prima parlavamo – individuo vuol dire appunto “non-separato” o “non-separabile” –, sta nella nostra autocoscienza, che è in natura la più forte forma di autocoesione . La nostra “individualità” consiste dunque in una prerogativa non fisica: infatti, dal punto di vista fisico noi potremmo anche, e persino facilmente, essere fatti a pezzi.
La persona non è una qualunque sostanza individuale; ma è la sostanza individuale per eccellenza: ne è, insomma, l’analogato principale. Dico questo, perchè molti hanno quasi difficoltà a parlare dell’uomo come di una sostanza, come se “sostanza” volesse originariamente dire “cosa inerte”. Ma sostanza è una parola che si attaglia anzitutto alla persona, cioè all’individuo per eccellenza, in riferimento al quale, appunto, possono in qualche misura essere detti “sostanza” anche altre realtà.
2. L’uomo come persona.
Un ulteriore passaggio del nostro discorso dice che l’uomo è persona. Si tratta di una ovvietà; ma “ovvio” non vuol dire “banale”. Obvius (-a –um), in latino, connota una cosa che ci viene incontro, una cosa che, da qualunque parte ci giriamo, è già lì che ci precede. “Banale”, al contrario, indica qualcosa di trascurabile, di irrilevante.
Come sapete, l’ovvietà che ho richiamato è oggi, da alcuni, messa in discussione. Riesprimiamola meglio: essa dice che, quando l’individualità di cui parliamo è quella di un organismo che risulti anche classificabile secondo una specie animale (homo sapiens sapiens), abbiamo la persona umana. In altre parole, “uomo” è una specie del genere “persona”. Persona è l’angelo custode; persona è il Padre Eterno; ma persona è anche l’uomo. C’è una “implicazione materiale” che va dal secondo termine al primo: infatti, chiunque sia uomo è anche persona, mentre ciò non significa che debba valere anche il reciproco (cioè, che chiunque sia persona, debba anche essere uomo). L’essere uomo è condizione sufficiente ma non necessaria dell’essere persona .
L’individualità razionale che è in questione quando parliamo di uomo, è dunque descrivibile anche nei termini di un organismo biologico, collocato in un “qui” e in un “ora”. Questo organismo è organismo di una persona, in quanto è aperto a quell’orizzonte infinito che dicevo prima, è aperto a quell’orizzonte con tutta la propria realtà, anche corporale: con le sue mani e i suoi piedi – per così dire -; ma eminentemente col suo volto, ed ancor più col suo sguardo. Tanto è vero che la parola “persona” ha il suo corrispettivo nella parola greca prósopon, che vuol proprio dire “volto”. E il volto lo si vede vivo, personale, appunto nello sguardo.
Dunque, l’esser uomo è un modo di essere persona: non il principale, non l’originario – né tanto meno l’unico -, ma sicuramente un modo autentico.
3. Definizioni della persona umana.
Terzo appunto: come si può descrivere il modo proprio in cui l’uomo è persona? La tradizione filosofica ci aiuta con due espressioni, che vanno entrambe salvate dal facile fraintendimento. La prima è quella che parla dell’uomo come “animale razionale” . È una definizione che può sembrare brutta, riduttiva; ma a ben vedere non lo è. L’altra definizione parla dell’uomo come di una sintesi di anima razionale e di corpo: “sinolo” di una composizione “ilemorfica” – come dicevano gli antichi -, in cui l’anima razionale è la forma.
Partiamo dalla prima definizione, risalente ai filosofi stoici. Dire che l’uomo è animale razionale (zóon loghikón), non è dire semplicemente che l’uomo è un animale dotato di abilità razionali o che ha il dono della parola (zóon logon échon): sono due cose diverse . I termini “animale” e “razionale” stanno l’un l’altro, nella definizione in oggetto, come il genere e la differenza in una specie; e quindi sono coestensivi tra loro e rispetto alla specie che vanno a designare, indicando due dimensioni che la attraversano per intero. Una dimensione, certo, non dice tutto di una cosa; ma dice la cosa per intero. Un corpo non è solo lungo, ma è certamente tutto quanto lungo; non è solo pesante, ma è certamente tutto quanto pesante. Così, l’uomo non è solo razionalità, ma è tutto quanto razionale.
Anche la fisiologia dell’uomo partecipa della sua razionalità, ed è questo che la distingue dalla fisiologia di un qualunque animale. Ad esempio, io sto arrossendo – e si tratta di un fenomeno fisiologico che può essere facilmente descritto come dilatazione dei capillari superficiali della cute del viso –; ma lo faccio per un implicito giudizio che ho su ciò che sto facendo: ad esempio, mi rendo conto di essere inadeguato a quello che voi attendete da me. Più in generale, la nostra fisiologia reagisce alla nostra comprensione di significati simbolici (verbali e non), anche in assenza di dirette stimolazioni fisiche.
E, d’altro canto, la nostra razionalità è quella di un animale. Così, per conoscere una cosa, io devo manipolarla, girarle intorno, attendere, confrontare, dilatare le mie prese di conoscenza nello spazio e nel tempo, perchè ho le mani, cammino, sono immerso in questa “bella d’erbe famiglia e d’animali”.
Anche la seconda definizione sopra accennata va ben capita, per non essere fraintesa. Parlare dell’uomo come di una sintesi di anima razionale e di corpo, non vuol dire che esso sia la somma di due addendi, di due pezzi che si possano comporre e scomporre. Quello che originariamente si vede e si tocca di una realtà, per un filosofo antico e per un medievale (da essi, del resto, ereditiamo questo tipo di linguaggio), è il sinolo, e in via principale la forma. Quindi, quello che si vede e si tocca di me, è la mia anima, anzitutto. Quando io stringo la mano di un amico, letteralmente sto toccando la sua anima. L’anima è ciò che struttura l’uomo. Perciò non è esagerato dire che – classicamente – il corpo è ciò che si vede della nostra anima . Anche se, certo, esso non è tutto di noi. Quando io accarezzo la persona cui voglio bene, io sfioro, evoco, la sua anima. È per questo che le relazioni che hanno a che fare direttamente con la corporeità, sono così delicate: infatti, in esse ne va della persona. Ed è questo che i ragazzi più giovani, oggi, non riescono tanto bene a capire: ma ciò accade perchè nessuno gliene parla, e non perchè siano insensibili alla cosa. Una volta che la ascoltassero da qualcuno che la dicesse seriamente, non la dimenticherebbero più.
La “materia”, di cui parla questa definizione, non coincide con qualcosa di autoconsistente (un corpo autonomo, contrapposto all’anima). Dire che l’uomo è composto di materia, significa piuttosto riconoscere che il nostro corpo è soggetto ad un ricambio materiale. Più precisamente: si può dire che il nostro corpo è materiale, perchè fra alcuni mesi le molecole che lo compongono saranno “materialmente” diverse dalle attuali. Ma nella sua stabile configurazione, esso è già un’espressione della nostra anima.
Come già accennavo, se il corpo è ciò che si vede e si tocca della nostra anima, ciò non significa che l’anima si riduca a quello; essa ha anche dei luoghi segreti, che non sono collocati o collocabili nello spazio e nel tempo. L’apertura all’infinito che dicevo prima, la capacità di avere in noi in qualche modo l’infinito come impronta simbolica, quella non può appartenere a nessun corpo che sia collocato nello spazio e nel tempo: è qualcosa d’altro, di non fisico; appartiene a quell’ámbito segreto dell’anima, che fisico non è. Così come non è fisica la capacità di radunare ogni significato in questo ámbito, e creare concetti universali, che come tali non si collocano né qui né là, né prima né dopo: sono liberi dal tempo e dallo spazio. Perciò l’anima che nel nostro corpo si realizza, presiede ad esso, ma ad esso non si riduce.
Possiamo allora sintetizzare così quello che abbiamo detto in questo terzo momento dei nostri appunti: “animale” è l’intero uomo in quanto la sua anima è forma di un corpo, e quindi presiede anche ad una fisiologia; “razionale” è lo stesso uomo in quanto la sua fisiologia è presieduta da un’anima razionale, aperta come tale all’orizzonte dell’essere . Le due definizioni che della persona umana abbiamo dato, sono, non solo entrambe valide, ma anche tra loro complementari.
C’è una annotazione a margine, che qui è opportuno fare: quando i filosofi classificano un significato specifico attraverso genere e differenza, assegnano un ruolo anche alle caratteristiche “proprie” di quel significato. Per esempio, se l’uomo è animalità e razionalità tra loro combinate, la specie uomo ha delle manifestazioni, dei segni propri, che pur non dicendo tutto della sua essenza, però la segnalano in modo inequivocabile. Dove ci sono quei segni propri, lì c’è anche l’essenza di quella specie. Gli antichi facevano un esempio bellissimo, per indicare un segno tipico dell’uomo: il sorriso . Il sorriso è un proprium, una espressione tipica, esclusiva della persona umana: l’animale bruto potrà scodinzolare (il cane) o ghignare (la iena), ma non propriamente sorridere.
Ma, come proprium umano, potremmo indicare anche il linguaggio simbolico, per cui attraverso dei segni fonetici o grafici noi veicoliamo dei significati universali. Potremmo indicare il mondo emotivo, per cui le nostre pulsioni non sono mai pure pulsioni, ma sono quelle che gli antichi chiamavano le “passioni dell’anima”, sono cioè pulsioni sensibili al mondo simbolico, pulsioni aperte a dialogare con il mondo simbolico. Ad esempio, il pudore – cui prima alludevo accennando al rossore in cui talvolta si manifesta – è espressione non di una semplice pulsione autodifensiva, ma di qualcosa di più: cioè, di una passione che, se anche può essere descritta attraverso le dinamiche ghiandolari cui presiede, non si riduce a quelle. L’uomo è certamente “mappabile” dal punto di vista ghiandolare, ma anche la sua ghiandolarità è esposta al mondo simbolico. E questo è un proprium nostro: non appartiene (per opposte ragioni) né al Padre Eterno, né al cagnolino che abbiamo in casa.
4. La persona come incrocio di bisogni e desiderio.
Dicevo poco fa che la persona umana è descrivibile anche come animale razionale, e precisavo che questa definizione non va intesa in senso zoologico, e perciò riduttivo, come pure hanno fatto alcuni filosofi contemporanei . Bene, questa identità (di persona umana e animale razionale) è stata messa in discussione, alla fine del XVIII secolo, da un pensatore che tutti – anche quelli che non studiano filosofia – hanno sentito nominare qualche volta: Kant. Questi, non solo distingue, ma propriamente separa tra loro l’“uomo” (ovvero, l’animale razionale) e la “persona”. È lui il responsabile remoto di quella distinzione – tra uomo e persona – che oggi si va proponendo, non solo in senso formale ma anche reale (e perciò in modo sinistramente evocativo) : distinzione tra uomini che sono persone e uomini che non lo sarebbero ancora o che non lo sarebbero più.
Nella Metafisica dei costumi di Kant la persona e l’animale razionale sono presentati come due realtà ben distinte, di cui la prima – la persona – sarebbe l’unica ad aver dignità (cioè valore infinito); mentre l’altra – l’animale razionale – non avrebbe dignità di per sé. È come se in noi si confrontassero queste due presenze. L’animale razionale che cos’è? È la sede dei bisogni. Ora, i bisogni non hanno dignità – secondo Kant -; dignità ce l’ha solo la persona. La persona allora avrà una funzione di controllo sull’animale razionale che è in noi: essa cercherà di coartare il più possibile le esigenze di quest’ultimo e di esaudire al minimo le sue richieste. Questa posizione, con un gergalismo filosofico, viene chiamata “dualismo antropologico”. La persona ha dignità, e quindi non ha prezzo; l’animale razionale invece – e Kant espressamente lo dice – ha il suo prezzo .
Al contrario, nella prospettiva classica – che è quella che in qualche modo ho veicolato fin qui con i miei appunti – i bisogni (vitali, affettivi, sociali, cognitivi) sono le più vive espressioni della razionalità, sono altrettante richieste di senso, sono le declinazioni parziali, ma imprescindibili, del desiderio di un appagamento che sia adeguato alla persona. In altre parole: dire che la persona umana è animale razionale, equivale a riconoscere che i suoi bisogni (anche i più elementari, come quello di dissetarsi) sono penetrati di razionalità, cioè sono sì orientati a dei beni particolari, ma lo sono in vista del bene infinito, cui la ragione si rivolge inevitabilmente: la ragione infatti è apertura all’orizzonte dell’essere, e il bene appagante per un soggetto razionale può essere solo un bene che abbia la stessa ampiezza di quell’orizzonte. Quando l’uomo dice di voler essere felice – e di fare quel che fa, per essere felice -, dice appunto di desiderare un bene senza limiti (trascendentale, ovvero ampio quanto l’essere).
Faccio un esempio, per spiegare che cosa intendo quando parlo della dignità del bisogno. Quando ero bambino – è uno dei primi ricordi che ho, potevo avere tre o quattro anni -, mi rigiravo nel letto (ero stato messo nella stanza del lettone, perchè non mi sentivo tanto bene); e mia mamma, dall’alto del letto in cui stavo, che aveva le sponde alte, si affaccia e mi chiede: “che cos’hai?”. E io dico: “ho sete”. “Ho sete” è l’espressione di un bisogno vitale elementarissimo; ma dentro di sé ha la richiesta di un riconoscimento: “ho bisogno che qualcuno mi dica che le cose vanno bene, che qualcuno mi riconosca ancora, anche se è buio e io mi sono un po’ perso nelle mie allucinazioni infantili”. “Ho sete”. Non avevo ancora letto il Vangelo , né tanto meno sapevo che Madre Teresa di Calcutta aveva messo questa frase come logo delle sue case d’accoglienza: “ho sete”. Ma che cosa c’è di più sintetico della condizione umana, che non questo “ho sete”?
Kant ignora tutto ciò, e la cultura che a lui si rifà, che oggi è maggioritaria, lo ignora con lui: ignora, cioè, che la nostra dignità inizia lì, nei bisogni; e che, per questo, accompagnare i bisogni è condividere il desiderio. Non è possibile scindere una cosa dall’altra. Quello che stamattina, espresso in linguaggi diversi, ascoltavamo, è proprio l’attestazione più forte di questa verità. Non si può accompagnare la persona ignorando il suo bisogno, né soddisfare un bisogno in modo puramente tecnico, senza incontrare la persona. Eppure è questo oggi l’obiettivo, per esempio, di moltissime strutture sanitarie. Per cui i bisogni, definiti in determinate griglie, vanno affrontati come questione tecnica: l’operatore sanitario non deve spingersi oltre una certa misura. Finché questo è vissuto da un lavoratore demotivato, passi; ma quando è teorizzato e in certo modo imposto dalle strutture pubbliche, allora la cosa diventa drammatica.
La condizione in cui si trova la persona umana è appunto quella dell’intreccio di bisogni e desiderio; dove la collocazione nel luogo del bisogno, è il punto di apertura per il desiderio di infinito. In riferimento all’intreccio di bisogno e desiderio, la legge morale potrà tradursi nell’indicazione di vivere ordinatamente il bisogno secondo tutta la profondità del desiderio. Il bisogno, come abbiamo detto, è propriamente umano in quanto è desiderante: sta però alla responsabilità di ciascuno riconoscere questo, e vivere gli atti che esprimono o soddisfano il bisogno, appunto secondo la profondità del desiderio; e cioè, non come chiusura su ciò che si ha tra mano al momento, bensì come apertura verso quell’orizzonte infinito che ci attrae intimamente. Tutti gli atti quotidiani del bisogno acquistano così, a seconda di come vengono interpretati e vissuti dalla persona, una certa forma, che potrà essere più o meno adeguata all’uomo, e quindi più o meno “buona”. In altre parole: i nostri bisogni sono inevitabilmente attraversati dal desiderio; sta però alla nostra libertà far sì che essi siano anche fatti lievitare dal desiderio che li attraversa, e siano spinti oltre il semplice progetto di un soddisfacimento immediato: perchè non è il semplice bicchiere d’acqua a rispondere a quel “ho sete”.
Faccio un paio di esempi in proposito. Partiamo dal caso più semplice: il mangiare. Rispondere in modo umano al bisogno di cibo, si traduce nell’apparecchiare la tavola – certo qui la cultura arricchisce e contribuisce, poi, a dilatare il gesto in senso simbolico –, invitare degli ospiti, magari dire una preghiera prima del pasto, parlare della vita mentre si è a tavola, tenere i bambini vicino (uno dei più bei ricordi infantili che conservo, è quello dei pranzi di Natale): non c’è niente di più educativo, per loro e per noi . Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che moralità è far sì che la spinta del desiderio investa il bisogno (ad esempio, del mangiare) in modo tale, che la risposta ad esso assuma una forma non chiusa, ma aperta, che si dilati fino a ricomprendere in sé anche i bisogni superiori: ad esempio, quello di stare cordialmente insieme agli altri e quello di cercare, con loro, che senso abbia la nostra vita.
Altro esempio: il lavoro. Un mio amico, sottufficiale della marina militare, a un certo punto ha dovuto piantare la carriera, perchè i figli non lo riconoscevano più quando tornava a casa dopo mesi di assenza, e chiedevano alla mamma: “ma chi è quel signore lì?”. Dunque ha smesso di andare per mare, ed ha accettato il primo lavoro disponibile per lui: quello di impiegato della ASL. Si è trovato così a dover mettere timbri sulle pratiche. “Che cosa sto facendo?” – si chiedeva. “Mi sto guadagnando da vivere” – era la risposta. Ma in quel caso guadagnarsi da vivere voleva dire mettere dei timbri. “E che cosa vuol dire apporre un timbro?”. “Vuol dire dare un giudizio; dire: sì, sono d’accordo”. “Ma come faccio a mettere un timbro che dice che sono d’accordo, se non leggo bene quello su cui dovrei essere d’accordo?”. Leggendo più attentamente quelle pratiche, si è reso conto che con esse si decideva l’assegnazione di materiale sanitario a persone disabili. Se non che, assegnarlo ad alcuni voleva dire negarlo ad altri, perchè non ce n’era per tutti. Ma per capire chi più avesse diritto all’assegnazione, occorreva conoscere gli interessati. Così si è messo ad incontrare le famiglie dei potenziali assegnatari – disabili fisici e mentali -, diventando ben presto un punto di riferimento autorevole per loro, come anche per il proprio capoufficio. Poi si è trovato a condividere i bisogni incontrati, fino al punto di fondare una delle prime comunità diurne di aiuto agli handicappati mentali adulti: la categoria più derelitta dal punto di vista dell’assistenza. Ho raccontato questa storia vera, per esemplificare dove può condurci il lavoro – anche il meno esaltante -, se è portato fino in fondo: dove può condurci il perseguimento di un bisogno, come quello dello stipendio mensile, se è approfondito nelle sue implicazioni .
5. Persona, funzioni, prestazioni.
Se è vero che la persona umana manifesta dei caratteri propri ed esclusivi (propria) che la segnalano senza equivoci, è anche vero che essa non si riduce alla presenza di tali segni. La relazione che intercorre tra un segno proprio e la specie che esso esprime (o meglio, l’essenza o natura della specie che esso esprime: nel nostro caso, la natura umana), è ancora una volta quella di “implicazione materiale”: il segno proprio implica l’essenza, ma non viceversa. La presenza di un certo carattere proprio, è cioè condizione sufficiente ma non necessaria dell’esserci di quella essenza, e quindi di quella specie. Quindi, se qualcuno sorride (o parla), è certamente persona umana: non è possibile che sorrida o parli, e non lo sia. Mentre, se non sorride (o non parla), non è detto che non sia persona umana: è possibile infatti che non sorrida o non parli, e pure lo sia.
La tesi che invece vuol ridurre la persona umana all’insieme dei suoi segni propri (che sono poi segni funzionali, cioè ultimamente capacità di offrire prestazioni), è stata chiamata da alcuni nel dibattito recente – con una parola importata dal linguaggio della psicologia – “funzionalismo”: l’uomo ridotto ad una somma di funzioni. Si tratta di una posizione di origine empiristica: David Hume ne è il principale ispiratore . Dal punto di vista empiristico si dice: le funzioni – per esempio la capacità di sorridere o di parlare o di contrattare i propri diritti – le constato; le prestazioni che ad esse conseguono, le posso misurare; ma le nature che presiedono a queste funzioni e prestazioni, no, non le vedo, non le tocco: chissà dove stanno. E allora non le ammetto .
Tale posizione è ovviamente fallace. Essa, anzitutto, presenta delle conseguenze che sono riconosciute come indesiderabili dagli stessi teorici che la sostengono. Se davvero la persona umana fosse presente solo là dove ne sono presenti esplicitamente tutti i segni, allora la mancanza anche provvisoria di alcuni di essi (come accade in seguito a certe lesioni), o al limite di tutti (come accade in certe forme di coma), coinciderebbe con l’assenza della persona stessa. Ma si pensi al caso del sonno, durante il quale qualunque persona ogni giorno perde provvisoriamente l’esercizio esplicito dei segni propri della sua natura: se questa perdita coincidesse con la perdita della natura personale, allora ciascuno di noi – nel momento del sonno – dovrebbe coerentemente perdere anche la dignità e i diritti cui la natura personale dà adito. È chiaro che il presentarsi di paradossi come questo, ha fatto sì che molti sostenitori di questa posizione moderassero di molto le loro pretese teoriche .
Ma la posizione che abbiamo chiamato “funzionalistica” è errata, non solo perché porta a conseguenze che neppure i suoi interpreti sottoscriverebbero, ma prima ancora perché ripropone implicitamente quel che intende negare. Infatti, parlare di “funzioni” non è parlare solo di singoli atti, bensì della capacità di compierli regolarmente nelle opportune situazioni. Intesa in tal senso, la funzione equivale, non ad un atto occasionale, bensì a quella che Aristotele chiamava “operazione”, precisando che essa rinvia, come a sua condizione di possibilità, ad una certa “natura” . E non ad una natura generica, bensì specifica: nel nostro caso, in cui sono in gioco funzioni imputabili alla persona umana, si tratterà appunto della natura umana, che risulta dunque inevitabilmente presupposta dalle sue funzioni.
Ora, la mancanza di un proprium (ma meglio sarebbe dire: della sua attuale possibilità di manifestarsi, quale si può avere, per esempio, nel bambino autistico che non sorride), è una specifica ed emblematica forma di “privazione”. Che cos’è la privazione? È la mancanza di un che di dovuto ad una certa natura (ad esempio, per un uccello è privazione non avere il becco): non è una qualunque mancanza, non è un semplice limite.
Occorre distinguere tra “privazione” e “limite”. Avere dei limiti, cioè non possedere le perfezioni che non sono inerenti alla propria natura, è inevitabile per una realtà finita; anzi, è condizione di possibilità dell’esistenza di una positività che non sia qualitativamente infinita. I suoi limiti – ad esempio il non avere le ali – costituiscono l’uomo nella sua natura finita ed inconfondibile rispetto alle altre. Nel contempo, visto che l’uomo è razionale e quindi è consapevole di tali limiti, questi sono per lui lo stimolo ad un perfezionamento che possa consentirgli di ovviare in parte ad essi, qualora ciò gli occorresse (ad esempio, inventando apparecchi per il volo). Più in generale, il limite come tale contiene una destinazione relazionale. Chi è se stesso e non l’altro da sé, certamente ha dentro di sé un richiamo all’alterità .
La “privazione” è invece il non possedere delle perfezioni inerenti alla propria natura, e quindi dovute (debitae). Ad esempio, per un uomo è una privazione non avere le braccia. Anche la privazione non è un negativo assoluto: essa può realizzarsi solo inerendo a un che di positivo. Una realtà che fosse soltanto privazione, sarebbe infatti un niente di niente. Nel guardare alla privazione (che è poi il male ontologico o pre-morale), occorre tenerlo presente: non c’è niente che sia male in senso assoluto, perché in tal caso quel qualcosa non esisterebbe neppure. Il male (ad esempio il male fisico: non avere una gamba), può anzi rivelarsi come una potentissima pro-vocazione a esaltare le proprie capacità di relazione con il mondo, fino a realizzare una personalità più potente di quella che si avrebbe in condizioni di normalità fisica. Dunque, se già il limite indica una vocazione al rapporto con l’altro, la privazione rende tale vocazione drammaticamente evidente ed inevitabile – come la nostra esperienza attesta quotidianamente.
6. Persona, ovvero libertà.
Chi è soggetto libero è anche persona, chi è persona è anche soggetto libero. Qui c’è una duplice implicazione, un doppio senso nell’implicare. Infatti, essere libero è condizione necessaria e sufficiente per essere persona Ma quando parliamo di libertà, di che cosa ultimamente parliamo? Parliamo di quello che prima abbiamo incontrato accennando alla bambina di quarta elementare. La nostra libertà dove risiede? Nel fatto che la nostra attrazione verso la realtà ha la stessa ampiezza della nostra intelligenza, e perciò della nostra razionalità: ovvero è aperta su di un orizzonte infinito. Noi abbiamo un desiderio che ci porta all’infinito, non siamo mai fino in fondo soddisfatti di niente, proprio perchè attendiamo una soddisfazione adeguata a quella ampiezza. Non c’è bisogno di avere la potenza espressiva di Agostino – «ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposerà in te» -, per capire che le cose stanno così.
L’espressione per noi più consueta della libertà – la libertà come scelta – consiste appunto, alla radice, in una sproporzione: quella che c’è tra l’oggetto adeguato del desiderio umano (che è infinito) e i beni finiti che il desiderio incontra sul suo cammino. Tale sproporzione fa sì che i beni finiti siano da noi relativizzati, visti come insufficienti per noi, paragonati fra loro e fatti oggetto di una deliberazione che può portare a sceglierne alcuni deponendone altri, ma sempre dovendo prestare idealmente qualcosa ai beni scelti, per poterli considerare degni di essere investiti dall’energia del nostro desiderio (che come tale è sempre proiettata più in là). La sproporzione si traduce dunque in un movimento di indeterminazione-autodeterminazione: siamo indeterminati rispetto ai beni finiti; quindi ci autodeterminiamo rispetto ad essi. Siamo appunto liberi di sceglierli o meno .
La sproporzione di cui parlavamo, ci consente anche di immaginare come quei beni (quindi, le realtà che incontriamo) potrebbero essere: l’orizzonte trascendentale entro cui consideriamo e stimiamo le cose, dà insomma respiro alle nostre mosse, ma prima ancora alla nostra immaginazione, che fa lievitare l’attuale in funzione del possibile. In altre parole: per evocare le risorse della libertà, occorre attivare anzitutto le risorse dell’immaginazione, che idealmente trasforma le cose. Per questo, la coltivazione dell’immaginazione è tanto importante nel lavoro educativo.
Questa è la nostra libertà: l’attrattiva verso qualche cosa che supera tutte le realtà limitate che incontriamo. Anche le più potenti tra queste non hanno in sé la capacità di captarci, di catturarci; perchè noi siamo sempre già oltre con lo sguardo. Siamo come un torrente la cui acqua scorre, abbraccia per un istante un masso, e poi va oltre. Magari quell’istante può anche coincidere con un’intera vita, e allora la libertà dà luogo ad un lavoro. Per esempio, per un uomo e una donna che si siano sposati, il matrimonio è l’occasione di un lavoro incessante e perciò è anche una fatica. Legarsi in un modo stabile a chi ha dei limiti, e anche dei difetti, a chi magari ci fa qualche volta disperare perchè ha un carattere diverso da quello che sarebbe desiderabile, costringe l’uomo ad esprimersi nel modo più potente. Siamo liberi: e allora, rispetto alla realtà limitata, possiamo diversamente disporci, e quindi incontrarla in modo più o meno adeguato.
Qual è la provocazione più potente per la nostra libertà? È l’esperienza del dolore. Il dolore è il riverbero soggettivo della privazione: quando uno vive in sé una privazione, o la incontra in un altro, allora sta male. E la nostra libertà si gioca eminentemente nei riguardi della privazione e del dolore che ne consegue. Ma il dolore, di per sé, non è un male, cioè non è a sua volta una privazione. Eppure ci sono alcuni filosofi, anche di rilievo, che chiamano il dolore col nome di “male”: sbagliano. Il dolore è, in sé, un bene, cioè una risorsa, in quanto ci spinge ad evitare il male: anche quando il male in questione è quello morale (cioè il male commesso dall’uomo), e il dolore in questione è il rimorso di coscienza. Il non avere la capacità di provare dolore: questa sì sarebbe una privazione, e quindi un male. Pensate ai bambini che hanno delle lesioni dei centri nervosi, tali da impedire loro di sentire il male: è facile che diventino involontariamente autolesionisti, e quindi vanno continuamente difesi da loro stessi. Pensate anche a una persona insensibile al dolore morale: quanto male può fare agli altri! Certo, anche il dolore, in casi particolari, può diventare un male: nei casi in cui sia tanto forte da privare l’uomo di una possibilità di vita regolare o da privarlo della lucidità; oppure nel caso in cui si attivasse autonomamente, anche non in presenza di un male, ma a causa di qualche patologia fisiologica o psichica. In tal caso, esso dovrà diventare oggetto di cura, come un qualunque altro male.
Altra cosa è la sofferenza, che è un certo modo di assumere il dolore. È la libertà che si impatta col dolore e decide di prenderlo su di sé, di farsene carico, e di interpretarlo creativamente. Se la privazione è lo scompiglio di un certo ordine, e il dolore è la registrazione di questo scompiglio; la “sofferenza” – propriamente detta – è una ricomposizione creativa di questo scompiglio. Del dolore siamo capaci tutti, della sofferenza no. Infatti, il “dolore” è alcunché di passivo (i filosofi medievali lo qualificavano come una delle “passioni dell’anima”); la “sofferenza” è invece una certa virtù, che consiste nel modo attivo di rispondere al dolore sop-portandolo, ovvero sof-frendolo (dal latino sub-fero: porto, stando sotto). Il dolore può essere subito oppure sofferto: nel secondo caso, la nostra libertà prova ad interpretarlo, portandolo a parola e rendendolo occasione di relazione con altri, occasione di domanda, e – per chi ne è capace – anche occasione di preghiera e di offerta a chi riteniamo sia la fonte di ogni cosa. Una persona non è meritevole perchè sta male: è meritevole in quanto soffre il suo star male, cioè in quanto esercita bene, anche nei confronti dello star male, la propria libertà.
Un intelligente psicoanalista – l’anglo-indiano Wilfred Bion – scrive che una autentica terapia psicoanalitica si propone appunto di aiutare le persone a “soffrire” il dolore. Non a evitarlo o a rimuoverlo, ma piuttosto a soffrirlo : cioè ad esercitare creativamente, anche rispetto ad esso, la libertà; dando forma a quella materia, che può allora essere trasformata, da forza distruttrice, in energia costruttiva. Nella cultura di oggi la consapevolezza di questa possibilità manca clamorosamente. Magari anche qualcuno tra i presenti non è abituato a fare questa distinzione, che invece è ovvia e decisiva: dolore e sofferenza non sono affatto la stessa cosa. C’è di mezzo la libertà: il mare della libertà .
7. La persona umana di fronte al relativismo etico.
Ora un’ultima annotazione, riguardo al relativismo etico. Il relativismo etico non è un atteggiamento nuovo; esso, anzi, ha una lunghissima storia, che va dalla sofistica greca fino ai nostri tempi. Basti dire, al riguardo, che già Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, discuteva di questo tema in modo articolato e competente .
Si tratta della posizione di chi nega che, in generale, si possa parlare di criteri morali che siano validi in senso universale e permanente . Naturalmente il relativismo ha come oggetto remoto della sua polemica la natura umana, che a quei criteri dovrebbe presiedere.
In questa sede, non mi interessa fare una ricognizione delle varie forme del relativismo etico che la storia della cultura ha conosciuto; mi interessa chiarire, piuttosto, qual è la forma che il relativismo assume oggi. E oggi la forma è la seguente. Si dice: ognuno ha i suoi criteri, è inutile persino cercare di omologarli, nel tentativo di andare d’accordo; è inutile, e addirittura insensato. Perchè? Perchè l’individuazione di criteri del vero e del bene è un atto strutturalmente privato. Privato vuol dire che è di competenza o del singolo o del suo gruppo di appartenenza (clan, tribù o chiesa che sia) . Dunque, le questioni di “vero” e di “bene” – cioè la determinazione di che cosa sia la natura umana e di che cosa, quindi, voglia dire poi comportarsi da uomini autentici -, sono ritenute essere questioni private: questioni che ognuno risolverà per conto proprio. Che cosa deve fare la comunità politica? Deve cercare di essere “giusta” – secondo una giustizia che si vuole separata dal bene –; deve cioè regolare, come un vigile urbano regola il traffico, la possibile convivenza tra le diverse posizioni di valore, assumendo che siano tutte di per sé legittime.
La versione più cruda di questo modo di impostare le cose – in cui la giustizia sarebbe il criterio universale per regolare la determinazione autonoma del vero e del bene, data da ciascun singolo o da ciascun gruppo -, è il cosiddetto proceduralismo. Questa posizione pretende di essere forte in quanto neutrale rispetto alla verità e al bene. Si tratta naturalmente di una pretesa fallace, perchè assume almeno due presupposti arbitrari. Il primo, è che il disaccordo sul vero e sul bene non sia solo un fatto, una condizione in cui ci troviamo; ma sia piuttosto un che di normativo, una condizione di diritto (il che sarebbe tutto da dimostrare). Il secondo presupposto arbitrario, è che la giustizia intesa nel modo suddetto (come il vigile urbano di cui sopra), sia davvero neutrale verso il vero e il bene, e non promuova invece – come a me pare – una determinata concezione di queste figure.
Tale concezione, poi, potrebbe essere identificata nei seguenti tre punti. Primo: il vero e il bene coincidono di diritto con l’autonoma definizione che ciascuno che sia in grado di farlo, ne dà: è il cosiddetto “principio di autonomia” , di cui parlano alcuni autori diventati famosi in campo bioetico. Secondo: chi non fosse in grado di determinare quale sia per sé il vero e il bene, deve restare sottoposto anche operativamente alle definizioni che di volta in volta vengono fatte valere per lui da chi gli è più prossimo (i genitori, o magari le strutture sanitarie) . Terzo: non è ammissibile alcuna definizione del vero e del bene che possa implicare l’esigenza di un riconoscimento non soggettivo o privato, cioè che possa essere universalmente riconosciuta come valida. Ma anche queste sono altrettante impegnative posizioni, che andrebbero giustificate.
Abbiamo cercato di far notare come anche la scorciatoia proceduralista sia piena di assunzioni sottintese, intorno a che cosa sia vero e bene per l’uomo: sia piena, insomma, di una sua antropologia surrettizia. Tanto vale allora delineare un’antropologia filosofica in termini espliciti, come abbiamo cercato di fare noi con le sobrie annotazioni precedenti: meglio fare antropologia in modo confesso, cioè alla luce del sole, che farla notturnamente e surrettiziamente, come si costringono a fare i proceduralisti.
Il più avveduto esponente della posizione che prima ho chiamato per semplicità “proceduralista”, è Jürgen Habermas, il quale ritiene che la salvezza della convivenza umana sia affidata al dialogo tra i singoli e tra le comunità, cui – in modo autonomo – spetta definire che cosa sia il vero e il bene; e che la vera regola di giustizia sia quella che dà voce a ciascuno all’interno di questo universale dialogo. Egli si rende però conto che, per poter far funzionare tale dialogo, occorre già implicitamente riconoscere alcune verità fondamentali (dal principio di non contraddizione, fino alla pari dignità degli interlocutori): verità che, una volta distillate e messe in relazione tra loro, costituiscono niente di meno che una vera e propria antropologia filosofica minimale, persino coerente con quella che prima ho provato ad accennare con l’aiuto dei classici.
È interessante dunque constatare che, andando al fondo delle posizioni più avvedute di quel proceduralismo che vuol dare voce alla disperazione relativista di oggi, si arriva a scoprire presupposti convergenti con i punti da noi sostenuti. Si arriva a scoprire, in fondo, che la vera giustizia – lungi dall’essere assiologicamente neutrale – consiste nella promozione del vero e del bene inerenti all’uomo, cioè nel rispetto della dignità della persona umana, quale emerge dalla nota della apertura trascendentale, ovvero della razionalità. In effetti, non esiste alcuna giustizia che possa lavarsi le mani rispetto alla questione del vero e del bene .
“Che cos’è la verità?”. A risolvere in termini pratici questa domanda, che Ponzio Pilato lascia teoreticamente aperta, ci pensa sempre l’Erode di turno. Dunque, un’epoca che volesse fondarsi sull’agnosticismo di Pilato non avrebbe un lungo avvenire, perché sarebbe destinata a diventare ben presto l’epoca di Erode.
Note
1) Cfr. Boezio, Contra Eutychen et Nestorium, 3, in PL 64, col. 1345. Boezio si colloca tra il V e il VI secolo d.C.
2) Cfr. Boezio, Commentaria in Porphyrium, II, in PL 64, coll. 97-98.
3) Cfr. ibid.
4) Mentre – come meglio vedremo fra poco -, alcuni sostengono che l’esser uomo sia condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esser persona.
5) Greci e latini la usavano come esempio di come si possa produrre una buona definizione di una “specie”, attraverso l’indicazione di un “genere” e di una “differenza specifica”. Nel nostro caso, la specie “uomo” è designata dalla intersezione tra il significato “animale” – più ampio e più generico – e il significato “razionale”, destinato a limitare e a specificare la portata del primo. L’area di comune estensione dei due significati, dà appunto la definizione della specie. Tutt’e due queste dimensioni esprimono l’intero (il sýnolon) dell’uomo.
6) La definizione dell’uomo come “animale razionale (mortale)” non è propriamente di Aristotele, bensì degli Stoici, come testimoniano Sesto Empirico (Schizzi Pirroniani, II, 26) e Stobeo (Eclogae, II, 132). Aristotele parla invece di zóon logon échon: “animale che ha la parola” (cfr. Politica, I, 1253 a 9-18).
7) Oppure si può dire – come azzardava il filosofo neoplatonico Plotino – che il corpo sia il ritratto che l’anima fa a se stessa, con il materiale (oggi diremmo genetico e chimico) che ha a sua disposizione (cfr. Plotino, Enneadi, IV, 3,9, 29-37).
8) Per questa ragione, la coppia “razionalità e animalità” non è sovrapponibile alla coppia “anima e corpo”, che pure descrive anch’essa tradizionalmente e validamente la realtà dell’uomo. Quando si dice che l’uomo è “sintesi di anima razionale e di corpo”, se ne dà una descrizione in chiave “ilemorfica”. Yle è in greco la materia, morphé è la forma: sýnolon è la sintesi di materia e forma. Nel caso dell’uomo, il corpo è il realizzarsi sensibile e quantificabile della sua anima razionale: un realizzarsi che passa attraverso il continuo ricambio del materiale organico. L’anima che in quel corpo si realizza, presiede ad esso, ma ad esso non si riduce; ad esempio, non in tutto è soggetta al ricambio (da cui pure è segnata): mantiene infatti una permanente identità. In termini classici si dice che essa è la “forma sostanziale” dell’uomo. Dunque, corpo e anima sono nell’uomo, rispettivamente, materia e forma (intendendo, naturalmente, i due termini nella accezione che la filosofia classica dà loro). Invece, animalità e razionalità sono caratteri che esprimono il sinolo di materia e forma, in qualità di dimensioni che lo attraversano per intero.
9) Cfr. Porfirio, Isagoge, 19, 4-9.
10) Si veda per tutti: M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tübingen 1953, § 51.
11) La distinzione, ai nostri tempi, è tipicamente sostenuta da Peter Singer (cfr. Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1979). È chiaro che la distinzione tra categorie di uomini che godrebbero dello statuto di “persona” e altre categorie che non ne godrebbero, è una posizione teorica cui è riconducibile anche il principio del razzismo, specie nella sua versione nazista.
12) Cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, Parte II, Dottrina degli elementi dell’etica, §§ 3-11.
13) Nel Vangelo secondo Giovanni, «ho sete» è una delle ultime frasi pronunciate da Gesù morente (cfr. Gv 19, 28).
14) Anche Gesù Cristo, del resto, descrive il Paradiso come uno stare a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe (cfr. Mt 8, 11).
15) Tutti vediamo come cambia di forma (nella cura e nella intensità) l’adempimento di una mansione lavorativa, secondo che sia vissuta come prestazione coatta (visto che poi si ritira lo stipendio), o sia invece vissuta come passo verso il raggiungimento di una finalità più grande, come il bene della propria famiglia, o della propria comunità, o dell’umanità tutta: dove ciò che si intravvede sullo sfondo è appunto la aspirazione al bene senza limiti. E questa dilatazione nello sguardo (e modificazione nell’agire) può riguardare ogni atto. Ogni atto, insomma, è chiamato a diventare “gesto”, cioè a essere un passo verso il bene infinito, nella cui orbita ideale inevitabilmente gravitiamo.
16) Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, Libro I, Parte IV, Sez. VI.
17) In proposito, possiamo oggi riferirci ad autori quali: H.T. Engelhardt jr., M. Tooley, P. Singer e T. Regan.
18) Si veda, in proposito: M. Tooley, Abortion and Infanticide, Oxford University Press, Oxford 1983.
19) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1098 a 31.
20) Qual è il limite che la cultura oggi dominante sembra non sopportare più? La collocazione sessuale, il fatto che uno nasca uomo o donna. La cultura di impronta gnostica dice che il limite è già di suo una privazione, perciò è un male, e va combattuto. Questo è il principio che presiede a certo femminismo ideologico, di impronta gnostica: l’idea cioè che qualunque limite debba essere superato; e quindi qualunque possibilità debba, e non solo possa, essere esplorata. Anche certo furore esplorativo nel campo della genetica mi sembra dovuto a questo tipo di cultura, che governa, di fatto, la mentalità di non pochi studiosi.
21) Naturalmente, vale anche il reciproco.
22) Cfr. Agostino, Confessioni, I, 1.
23) Per un approfondimento di questi temi, rinviamo a: P. Pagani, Tommaso: la libertà della differenza, in: C. Vigna (a cura di), La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998.
24) Si veda esemplarmente al riguardo: E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, trad. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1986, pp. 155 ss.; titolo originale: De Dieu qui vient à l’idée (1982).
25) Cfr. W. Bion, Gli elementi della psicoanalisi, trad. it. di G. Hautmann, Armando Editore, Roma 1973, p. 77; titolo originale: Elements of Psychoanalysis (1963).
26) Su questo tema è importante il contributo del filosofo polacco Stanislaw Grygiel (cfr. S. Grygiel, Il senso della sofferenza in un mondo secolarizzato, in «Il Nuovo Areopago», 14 [1995], pp. 12-28).
27) Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, P. I IIae, q. 94, a. 4.
28) Dove l’oggetto della negazione può essere sia la sola pretesa di universalità, sia la sola pretesa di permanenza, sia entrambe le cose.
29) Pensiamo emblematicamente ad una battuta che Woody, in un suo noto film (Manhattan, 1979), fa dire al protagonista: «Io sono all’antica. Non credo nei rapporti extraconiugali. Credo che le persone dovrebbero accoppiarsi a vita, come i piccioni e i cattolici». Non c’è malizia nella battuta: solo l’ironica presa d’atto di una specificità etica, paragonabile – per la mentalità corrente – ad una specificità etologica.
30) “Principio di autonomia” è il principio per cui è sempre e comunque il singolo ad aver competenza a stabilire ciò che per lui è bene, e ad avere il diritto di far valere praticamente – col solo limite imposto dalla reciprocità – tale competenza (anche circa le questioni supreme del vivere o del morire). Su questo tema, cfr. H.T. Engelhardt jr., The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York 1986, pp. 102-103.
31) In una tale prospettiva, ad esempio, il bambino piccolo non può avere alcun diritto, se questo non gli è riconosciuto dalla comunità parentale o dalla comunità sociale.
32) Per un approfondimento di questi temi, si veda: P. Pagani, L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura, in: C. Vigna (a cura di), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003.
33) Qui il riferimento può andare tanto al re di Giudea Erode il Grande (37 a.C.-4 a.C.), responsabile della strage degli innocenti (cfr. Mt 2, 16-18), quanto a suo figlio Erode Antipa (20 a.C.-40 d.C.), tetrarca della Galilea, cui si deve sia la decapitazione di Giovanni il Battista (cfr. Mt 14, 1-12) sia la complicità con Pilato nella condanna a morte di Gesù (cfr. Lc 23, 6-12).
34) È interessante registrare come anche un autore apparentemente lontano dalla tradizione metafisica classica, come Terry Eagleton, abbia individuato in Ponzio Pilato l’emblema dell’epoca che la cultura occidentale sta attraversando (cfr. T. Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, trad. it. di F. Salvatorelli, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 54; titolo originale: The Illusions of Postmodernism [1996]).
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