L’ETICA DEL GIORNALISTA

DR. LUCIANO MOIA

Il tema che mi è stato affidato, come vedrete, sembrerebbe quasi impossibile, perché parlare di etica del giornalista potrebbe essere quasi un paradosso o, nella migliore delle ipotesi, un coraggioso esercizio di autoironia. Per rispetto nei vostri confronti cercherò di evitare entrambe queste pericolose derive, anche perché, d’altra parte, sarebbe quasi impossibile, in breve, tentare di inventarci un discorso approfondito di etica giornalistica applicata alla bioetica e applicata ai temi della vita; quindi col vostro permesso mi limiterò a qualche semplice e spero sintetica risonanza.

Sfogliando le pagine di un qualsiasi quotidiano o di un settimanale, fatte le debite eccezioni, è difficile intuire quale principio etico vi sia sotteso. I dubbi, molto spesso, non sono soltanto leciti, sono addirittura auspicabili e ci si può domandare quindi se davvero coraggio, lealtà, onestà nei confronti del lettore sono sempre alla base del comportamento di chi deve trasmettere informazioni. E ci si può chiedere ancora come mai, scorrendo le pagine di un qualsiasi giornale, di un qualsiasi settimanale, sembra, troppo spesso, di cogliere una serie di piccole e grandi viltà, di omissioni in buona e cattiva fede, di malintesi, di contraddizioni e, anche talvolta, di faziosità. Eppure leggendo un qualsiasi manuale di giornalismo si può vedere come il capitolo dedicato alla deontologia professionale sia fitto di suggerimenti, di moniti, di richiami, e cioè di rispetto assoluto della verità, scrupolosa verifica delle fonti, obbligo di una meticolosa e attenta documentazione personale. Belle parole, sicuramente belle parole che, però, quando si tenta di metterle a confronto con quanto realmente scrivono i giornali, appaiono per quello che sono: un vuoto esercizio di retorica. Perché succede questo? Indro Montanelli, che è stato mio maestro per oltre un decennio al “Giornale” da lui fondato, era solito, anzi è solito tuttora, puntare il dito sulle tradizioni deviate del giornalismo italiano, sul fatto che nel nostro paese gli intellettuali siano sempre stati al servizio di un principe o di un partito. Quelle erano, e sono tuttora, purtroppo, le autorità “morali”, mi sia consentito di mettere tra virgolette questo aggettivo, le autorità, dicevo, a cui idealmente ci si rivolge nel momento in cui si scrive un articolo o un commento. Quelli sono gli interlocutori occulti, ma sempre ben presenti, di chi esercita questo mestiere. E lo sono tuttora, dicevo, perché oggi il principe ha il volto del potere economico, dei condizionamenti pubblicitari, della scienza ufficiale e anche, purtroppo, delle più distorte logiche editoriali, quelle, per esempio, che privilegiano sempre e comunque la notizia clamorosa, lo scoop a tutti i costi, il titolo ad effetto, il servizio scioccante e, invece, mettono in secondo piano l’approfondimento serio, l’analisi serena, la notizia pacata, la riflessione documentata. Oggi, purtroppo, questo secondo modo di fare giornalismo non paga, non paga in termini di vendita, non paga in termini di ritorno pubblicitario e non paga neanche, consentitemi questa riflessione, in termini di carriera per chi ha il coraggio e la volontà di badare più a questi fondamenti etici e vuole dimenticare tutti gli altri risvolti negativi. Nella maggior parte delle imprese editoriali la logica è profondamente diversa. Il giornale è un’industria e, come tutte le industrie, tende alla produzione di scala, pensa in termini di massa, diventa gigantista con centinaia e centinaia di pagine a colori, di gadget, di promozioni, che non sono quasi mai o raramente autentici approfondimenti culturali, anche se in questo modo vengono venduti: ma sono soltanto smisurati contenitori di pubblicità e poiché la pubblicità paga, e paga molto, se si va a grattare la superficie imbiancata di alcune scelte relazionali, si vedrà che non sono dettate da criteri di opportunità politica, né culturale, né tanto meno, ahimè, etica. Sono solo mere ragioni pubblicitarie. E infatti i grandi manager della pubblicità non stanno più nelle loro agenzie, ma, sempre più spesso, idealmente, si aggirano nelle redazioni e consigliano a direttori e capi servizio di quali notizie occuparsi e con quale frequenza e in che modo tornare su quella determinata notizia, su quel determinato argomento, che interessa ai loro obiettivi di vendita.

E’ esagerato tutto questo? No, purtroppo non è esagerato, perché i bilanci delle imprese editoriali ci dimostrano che oltre il 50%, e nei settimanali spesso il 70 – 80% degli introiti, derivano dagli spazi pubblicitari e che senza pubblicità nessuna impresa editoriale riuscirebbe a sopravvivere. E allora non bisogna stupirsi quando si afferma che il potere economico, di cui la pubblicità è semplicemente la longa manus, è quello che modella, che confezione, che suggerisce la linea dei giornali.

Mi sono un po’ troppo dilungato in questa premessa, dovete scusarmi, ma lo ritenevo indispensabile per delineare il clima, in maniera molto sintetica, molto approssimativa, in cui i giornalisti, spesso, si trovano ad operare. Ed è alla luce di queste considerazioni, certo poco incoraggianti, che vorrei tentare di entrare un pochino più nel vivo dell’etica giornalistica applicata ai temi della bioetica, al grande mistero della vita e della fecondità, ma solo per lasciarvi intuire, a questo punto credo però lo abbiate già fatto, come per un giornalista, che intenda occuparsi seriamente e scrupolosamente di questi temi, i margini di manovra siano davvero limitati. Per il grande giornalismo laico, dove ‘grande’, lo avrete capito, indica soprattutto le dimensioni dell’impresa editoriale, le tirature e i ricavi, i grandi temi della bioetica non vanno trattati troppo diversamente da tutti gli altri problemi di politica, di costume, di attualità, di cronaca, cioè meritano gli spazi solo e in quanto notizia, e quanto la notizia è più giornalisticamente interessante e cioè curiosa, stravagante, allusiva, ambigua anche, tanto più lo spazio si allarga, tanto più piovono i commenti dei soliti noti, tanto più si assiste alla sagra del politicamente, del culturalmente e, nel nostro caso, anche dello scientificamente corretto. E’ un coro di ovvietà, spesso lo constatate voi stessi, che ripete sempre i soliti, abusati schemi. Abbiamo purtroppo decine e decine di esempi di questo cattivo uso della notizia, in rapporto ai temi della vita e della fecondità. E in questi ultimi mesi sembra che questo malvezzo si sia ulteriormente allargato. Ricordiamo, per esempio, nella primavera scorsa la grande baraonda scatenata intorno al caso delle povere gemelline peruviane Martha e Milagros, con la beatificazione via etere, a mezzo stampa del professore Carlo Martelletti, meritevole di voler sempre e, comunque, tentare l’impossibile. Meritevole agli occhi di questa interpretazione, credo distorta, del modo di fare giornalismo. E anche in questo caso la contraddizione, la confusione hanno regnato sovrane. Abbiamo letto grandi anticipazioni e approfondimenti eruditi sulle tecniche chirurgiche, interviste, tristi, agli sfortunati genitori di queste piccole, estrema banalità delle riflessioni etiche, con una linea ovunque dominante: tutto è lecito quando c’è da salvare una vita umana. Ma è davvero così? Io, per motivi professionali, per interessi personali, ho seguito attentamente questo caso e devo dire che non ho mai letto una riflessione semplice, formulata in questo modo: per salvare una vita non è mai lecito sopprimerne un’altra, anche se quest’ultima è precaria, è vacillante, è incerta, come era appunto quella di Martha, la gemellina che è stata sacrificata. Devo dire, purtroppo con rincrescimento, che, anche alcuni tra i teologi più affermati, in quella occasione, hanno avvalorato la tesi del tentativo legittimo, visto che la sorte delle gemelline, dicevano, era comunque segnata. Ma se si affermasse questa tesi si aprirebbero scenari apocalittici, sarebbero giustificabili atrocità come l’eutanasia e persino la soppressione di malati per ricavarne organi da impiantare, magari, su persone bisognose di interventi urgenti. Se è lecito infatti sopprimere una vita per salvarne un’altra, queste sarebbero le logiche di quell’applicazione, dell’applicazione di quel principio aberrante.

Le sagre dell’ovvietà e della banalizzazione a mezzo stampa funzionano poi a pieno ritmo quando, sempre più spesso, si verificano casi di nascite plurigemellari con inevitabile seguito di lunghe ospedalizzazioni e di un po’ fastidiose adunate oceaniche di primari, aiuti e medici vari. L’abbiamo visto nei mesi scorsi all’ospedale Niguarda di Milano, in occasione della nascita degli otto gemellini di Trapani, di cui oggi, purtroppo, rimangono in vita la metà. Le cronache ci hanno riferito che la direzione sanitaria aveva attivato per quel parto plurimo un’équipe di cento persone, proprio così, cento persone tra ginecologi, anestesisti, medici, specialisti vari; quindi più di dieci persone per ogni neonato. Certo erano condizioni che si presentavano difficilissime, ma quanto ha contato in quel dispiegamento di forze, senza precedenti, la spettacolarizzazione dell’evento, la presenza dei mass-media e anche la preoccupazione, forse, da parte dei dirigenti sanitari di salvaguardare comunque l’immagine dell’azienda ospedaliera? Anche in questo caso non c’è nessuno che abbia fatto notare la sproporzione tra lo sforzo prodotto per quel caso eccezionale, ma sotto l’occhio dei riflettori, e l’ordinaria amministrazione di troppi ospedali di casa nostra. Sono situazioni che conosciamo tutti, non è il caso di infierire.
Ma vorrei richiamare la vostra attenzione su un altro caso esemplare di scarsa attenzione etica nei confronti di una notizia clamorosa che stata richiamata da altri relatori: la cosiddetta pillola del giorno dopo. Ricordiamo che, poche settimane fa, il ministro Veronesi ha escluso, escludeva, di fronte al taccuino dei giornalisti e alle telecamere delle varie televisioni, che la pillola del giorno dopo fosse un prodotto abortivo. Impedisce soltanto all’embrione di annidarsi nell’utero, ‘all’ovulo fecondato di annidarsi nell’utero’, diceva il ministro. L’aborto non centra nulla. E come notizia ‘scientifica’, come comunicazione ‘scientifica’, anche in questo caso metto scientifica tra molte virgolette, è veramente clamorosa. Eppure tanti giornali hanno riportato questa ‘verità ministeriale’ come se fosse l’unica verità possibile, senza cogliere la contraddizione profonda, e un po’ irritante, di queste affermazioni. Con tutto questo, ben inteso, non voglio gettare in alcun modo la croce addosso a tanti colleghi che fanno con difficoltà, e anche con passione, con impegno, questo lavoro, perché sono il primo a riconoscere che farsi guidare dall’etica, quando si parla di bioetica e si deve tradurre in termini giornalistici, quindi semplici, quindi facilmente comprensibili, le ragioni profonde di questa scelta, è un esercizio difficilissimo. Lo devo dire io per primo, che pure mi trovo ad operare in una situazione privilegiata, in un giornale come “Avvenire”, dove la possibilità e l’attenzione per questi temi è essenziale, è parte essenziale del nostro lavoro. Però i tempi stretti del giornale, che ti obbligano ad andare sempre di corsa, che ti impediscono un’analisi seria ed approfondita delle notizie, che ti sollecitano a non fermarti, ti obbligano a non pensare, a non verificare, a non tentare di richiamarti, in ogni momento, quando si affrontano questi problemi così difficili, all’indicazione del magistero, ma anche alla propria coscienza formata, sono un ostacolo oggettivo. Certo sono verifiche che vanno fatte, sono analisi interiori che vanno sempre messe al primo posto, perché si corre il rischio di risultare imprecisi e contradditori.

Avviandomi alla conclusione, vorrei farvi partecipi di una esperienza personale che ritengo esemplificativa. Qualche mese fa, tornando ad occuparmi, come faccio spesso, di fecondazione assistita, ho avvertito il desiderio di guardare al di là della barricata. Avevo scoperto infatti un’associazione di genitori, che si sono rivolti con successo alla fecondazione assistita, omologa e anche eterologa. Questa associazione si chiama “Ape Sapiente” (forse qualcuno di voi ne avrà sentito parlare). Ho telefonato al loro presidente, un avvocato di Treviso, e ho preso appuntamento. Ho conosciuto così sua moglie (lui, naturalmente, e sua moglie) e le loro due bambine di sette anni, due bambine molto simpatiche e carine, nate entrambe dalla fecondazione assistita. Era una famiglia apparentemente e umanamente deliziosa, con i genitori che in ogni momento non si stancavano di ribadire, anche ai miei occhi, il loro amore e la loro dedizione per queste bambine, per queste bambine che avevano voluto ad ogni costo (e voi sapete cosa voglio dire con questo passaggio). Essi sostenevano di essere cattolici, sostengono di essere cattolici, di essere praticanti. Mi raccontavano di aver parlato spesso, di parlare spesso, anche con sacerdoti, anche con teologi della loro condizione e, loro sostengono, di aver sempre ricevuto una totale comprensione. Hanno messo in piedi questa associazione, per assistere i genitori artificiali come loro, con l’obiettivo di assicurare sostegno psicologico a queste coppie, di scambiarsi le rispettive esperienze. Mi hanno anche raccontato alcune storie di genitori aderenti alla loro associazione e si tratta, in qualche caso, di storie bellissime, di genitori che, magari, dopo aver avuto un figlio con la fecondazione assistita, oppure di non averlo avuto, hanno adottato uno o due o più bambini. Insomma tutta la vicenda dal punto di vista giornalistico, ma anche dal punto di vista umano, non chiedeva altro che di essere raccontata a tutta pagina, magari con grandi titoli, magari con grandi foto di questa famiglia così bellina, così carina. E anche dal punto di vista umano, devo confessarvelo, tutto mi sollecitava a raccontare l’esperienza di queste famiglie, che avevano comunque sofferto per un desiderio umano e comprensibile di paternità e di maternità. Avevo soprattutto in testa una frase che questi genitori di Treviso, nel corso del nostro colloquio avevano, mi avevano ripetuto più volte: “Forse” mi dicevano “noi abbiamo sbagliato, ma l’abbiamo fatto per amore delle nostre figlie e siamo certi che, quando queste bambine sono nate, Dio le ha accolte a braccia aperte, perché anche la loro vita è un dono del cielo”. Affermazioni, come capirete, tanto forti e tanto cariche di umanità, di umanità sofferta, da mettere a dura prova la coerenza etica di qualsiasi giornalista. Che fare, mi sono chiesto. Pubblicare questa storia bellissima, giornalisticamente bellissima, per ricchezza di spunti, per umanità, oppure metterla da parte, per evitare di avvalorare anche solo indirettamente il ricorso alla fecondazione assistita, per impedire che la simpatia e la comprensione umana nei confronti di queste persone si traducesse in un’ implicita accettazione della FIVET?

Ci ho pensato a lungo. E quei fogli sono ancora nel mio cassetto.