Marisa Orecchia – Membro del Consiglio Nazionale del MpV italiano

Scrive Giovanni Paolo II al n 99 dell’Evangelium vitae:

Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un nuovo femminismo che, senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli maschilisti, sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento”.

Per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento, per la costruzione di una società giusta in cui di ciascuno vengano rispettati i diritti di tutti, principalmente il diritto alla vita che , come scrive il Papa al n.5 della stessa enciclica, connota e fonda l’odierna questione sociale.

Farsi promotrici di un nuovo femminismo

scrive il Giovanni Paolo II, non esitando a usare per la prima volta nei suoi documenti la parola femminismo nonostante essa abbia assunto per l’antropologia personalista una connotazione decisamente negativa in quanto rimanda ai frutti avvelenati del femminismo anni 70, che rivendica un’uguaglianza uomo/donna come negazione della differenza. Frutti avvelenati quali divorzio e aborto, come liberazione dalla schiavitù della famiglia e dal destino della maternità.

Ma Giovanni Paolo II non esita qui ad usare il termine femminismo:

con la libertà dei figli di Dio, entra in questa parola, in questa realtà e, come Cristo stesso, la trasforma dal di dentro, la fa nuova. “Un nuovo femminismo che senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli maschilisti sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile

Il femminismo storico, colpevole, come tutte le teorie costruite a tavolino, di rifiutare la realtà o di farne una lettura solo parziale, era partito da fondate rivendicazioni dello spirito femminile per il riconoscimento di un giusto ruolo della donna nella società e di quelle libertà che attengono ad ogni persona. Libertà che peraltro, fin oltre la metà del secolo scorso, erano misconosciute da un diritto di famiglia ancora gravato da incrostazioni derivanti dal codice di famiglia napoleonico, e da una società che complessivamente limitava la donna quanto al fruimento dei diritti politici, all’accesso all’istruzione e alle professioni.
Le rivendicazioni delle suffragiste per il diritto di voto e i diritti politici, che vedono impegnate le donne tra la fine dell’800 e i primi decenni del 900, soprattutto nell’area del nord Europa, sono pienamente condivisibili da chi abbia a cuore la dignità della donna.

Enormi condizionamenti in tutti i tempi e in ogni latitudine hanno reso difficile il cammino della donna” scrive Giovanni Paolo II nella Lettera alle donne, ripercorrendo “la lunga storia dell’umanità in cui le donne hanno dato un contributo non inferiore a quello degli uomini, il più delle volte in condizioni ben più disagiate” fra mille ostacoli, nell’emarginazione, nel misconoscimento della dignità, di ogni diritto in quanto persona.

Il motivo di una situazione tanto sbilanciata nei confronti della donna, il Papa lo indica nell’enciclica Mulieris dignitatem: è a causa dell’eredità di peccato, di quel primo peccato dei progenitori, che ha offuscato il progetto originario di Dio e che ha segnato ogni persona con una ferita.

Il peccato – scrive infatti Giovanni Paolo – opera la rottura dell’unità originaria di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio “io, nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna, e infine nei confronti del mondo esterno, della natura”.

Il peccato rompe quindi l’unità nella coppia, ne offusca l’ontologica complementarità che Dio aveva voluto perfetta, è uno sfregio alla reciprocità “sponsale e feconda”. Il peccato deturpa infine nella coppia l’immagine stessa di Dio,

Comunione d’amore, Dio trinitario: due Persone unite dall’Amore. La coppia, nel piano di Dio è icona della Trinità: due persone unite dall’amore, che passa incessantemente dall’uno all’altro.
All’irrompere del peccato, la coppia, quella mirabile unità che Dio ha creato, si deteriora. Basti già confrontare, nel racconto di Genesi, le parole di Adamo, quelle di meravigliato e affascinato stupore alla vista della donna “Questa è carne della mia carne, osso delle mie ossa” , un’esclamazione di ammirazione e di incanto che attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra – annota Giovanni Paolo II, nella Mulieris Dignitatem– e quelle già piene di risentimento, subito dopo la caduta “la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero...” Da quel momento la storia dell’uomo e della donna sarà sì una storia d’amore, di attrazione, di tenerezza, di passione, ma anche una storia di egoismo, di prevaricazione, di strumentalizzazione. Questa è la realtà con cui si devono misurare quotidianamente uomini e donne, bella ed esaltante, ma sempre assediata e limitata dal peccato. Una realtà che conserva l’impronta del Creatore, ma che deve essere continuamente riedificata, ricostituita, rifondata, fatta nuova ogni giorno.

Il peccato turba l’originaria relazione uomo/donna che, fatti a immagine e somiglianza di Dio, sono stati creati per amare ed essere amati, per mettere in atto il comandamento dell’amore mediante il dono sincero di sè.

Sarà soprattutto la donna, nella storia, a fare le spese di questa situazione.

Giuste rivendicazioni quindi, quelle della donna, per una maggior giustizia e considerazione per sè, come giustamente ha rimarcato Giovanni Paolo II. il quale però, nell’Evangelium Vitae rivolge alle donne una forte esortazione:

Riconciliate gli uomini con la vita. Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell’amore autentico, di quel dono di sè e di quell’accoglienza dell’altro che si realizzano in modo specifico nella relazione coniugale, ma che devono essere l’anima di ogni altra relazione interpersonale. L’esperienza della maternità favorisce in voi una sensibilità acuta per l’altra persona e nel contempo vi conferisce un compito particolare: la maternità contiene in sè una speciale comunione con il mistero della vita che matura nel seno della donna … Questo nuovo modo di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso l’uomo…. tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Così la donna percepisce e insegna che le relazioni umane sono autentiche se si aprono all’accoglienza dell’altra persona , riconosciuta ed amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere persona…

E’ un richiamo indubbiamente forte quello che in queste parole è rivolto alle donne: accogliete la vita, in nome di un nuovo femminismo che disegna la vera ontologia del femminile, al contrario di quel femminismo che, a partire dalla fine degli anni 60 del secolo scorso, ha voluto spingere la donna contro la vita.

E’ infatti in questo periodo che il femminismo storico, il quale finora ha lottato soprattutto per l’uguaglianza politica e sociale della donna, si imbatte nelle forze organizzate del neomalthusianesimo, che attraverso potenti fondazioni, come la Ford e la Rockfeller, e Ong come IPPF ed altre, affiliate all’ONU, hanno fatto del contenimento della popolazione mondiale, tramite la pianificazione familiare e il controllo delle nascite, il loro unico obiettivo. E ne sposa le tesi, anzi si può dire che ne diventi succube, se ne lasci irretire fino a fare sue le battaglie delle lobbies antinatalistiche.

Interessante a questo proposito il saggio di Eugenia Roccella nel libro “Contro il Cristianesimo” (Ed.Piemme) “Non crescete, non moltiplicatevi” nel quale si può seguire proprio questo sovrapporsi agli obiettivi dell’antico femminismo per il conseguimento di uguali diritti nella società, degli obiettivi della pianificazione familiare organizzata. I diritti riproduttivi che comprendono fondamentalmente la libertà di aborto, divengono i principali diritti per i quali il femminismo si impegna e lotta. Non è estranea a questa sovrapposizione, la rivoluzione sessuale che proprio alla fine degli anni 60 diffonde una concezione della sessualità banalizzata, liberatoria in quanto deresponsabilizzata, svincolata da ogni progetto di vita, dal matrimonio e dalla generazione del figlio. La contraccezione chimica, messa a punto in quel periodo, diventa uno strumento potente per l’affermazione di questa concezione di vita che non è fuori luogo definire “della scissione” di cui le Ong e le Fondazioni sopra citate si fanno portatrici infaticabili. Il Femminismo accoglie tutto ciò in nome della liberazione della donna: il primo diritto da conquistare è l’aborto, dal momento che la libertà della donna coincide con la libertà dalla procreazione. Figli e famiglia diventano i nemici di una realizzazione personale, che la donna deve cercare fuori delle mura di casa. Il controllo delle nascite e la destabilizzazione della famiglia, indicata come “l’istituzione dove si definisce la subordinazione femminile, luogo della riproduzione e di produzione del lavoro femminile non salariato” sono diventati gli obiettivi perseguiti da questo femminismo confuso e sottomesso alle lobbies antinatalistiche. L’aborto è la bandiera con cui porta avanti la sua battaglia: “L’utero è mio…..

L’aborto è innanzi tutto un esercizio di autodeterminazione, di libera scelta: non un pensiero, non una parola per il figlio concepito che viene completamente cancellato. Anzi, questa sua ideologica, pregiudiziale espulsione, diventerà stabile pre-condizione ad ogni dibattito sull’aborto, da parte dei suoi sostenitori.

L’aborto è sì un dramma, ma solo per la madre. Si dimentica l’altro attore. In questo dramma è presente solo la donna con due possibilità: accogliere il figlio/non accoglierlo. Tutto resta riferito al vissuto femminile. Ma siccome il figlio c’è – ogni donna lo sa bene: la percezione psicologica del figlio concepito precede di gran lunga la percezione fisica -, per compiere l’operazione di annullare il figlio si arriva a dire che, prima che nel grembo, il figlio deve essere generato nella testa, pensato, e generato nel cuore, voluto, amato. Se il figlio non è voluto, non sarà amato ed è meglio per lui l’aborto. Un assunto devastante che purtroppo è entrato nel modo di pensare di molti.

Nulla di più falso, nulla che contraddica maggiormente tutta la storia delle donne, la memoria collettiva delle donne che per intere generazioni, dalla notte dei tempi, hanno accettato la maternità anche quando hanno vissuto contrarietà, dispiacere, rabbia, dolore, preoccupazione nello scoprirsi in attesa di un figlio. Non voluto, appunto, ma accettato. Intere generazioni di donne hanno portato il peso di una gravidanza sentendola, soprattutto all’inizio, troppo gravosa per sè e per la propria vita. Il figlio meno voluto, meno atteso, specie l’ultimo, magari di una lunga serie, finiva con l’essere il più amato, il più coccolato, quello che destava la tenerezza maggiore nei genitori e nei fratelli. Una ricchezza per tutta la famiglia, una risorsa per la società.

Non abbiamo mai visto nei Centri di Aiuto alla Vita una donna, all’inizio della gravidanza disperata per un figlio inatteso e non voluto, tornare a recriminare per essere stata aiutata ad accoglierlo.
Questo è il volto del femminismo storico: una teoria scritta a tavolino, senza tenere conto della realtà. É ben vero che ultimamente abbiamo assistito ad alcuni ripensamenti: femministe convinte che cominciano a fare l’esame di coscienza e a rendersi conto che questo femminismo è contro la donna, si ritorce contro di lei, a partire dal dolore e dalla solitudine immensa che ha portato. Cominciano a rendersi conto che il figlio c’è, anche se non lo si vuole considerare e che non è possibile cancellarlo definitivamente. Le ferite d’aborto faticano a rimarginarsi, spesso portano tutto l’organismo alla cancrena. Ho già citato Eugenia Roccella , tra le pentite, aggiungo Anna Bravo e pochissime altre, a dire il vero.

Ma lo zoccolo duro complessivamente rimane, non fa marcia indietro, anzi, si affanna a rielaborare sempre più deliranti costrutti: l’aborto per la donna sarebbe, secondo Claudia Mancina, una delle teoriche più agguerrite di questo femminismo, l’habeas corpus. Scrive Mancina:

Come alle origini della cittadinanza moderna fu iscritto, l’habeas corpus, il principio che la disponibilità del propri corpi può essere sospesa soltanto dalla legge e dal giudice, così l’accesso delle donne alla cittadinanza richiede una simile condizione di disponibilità del corpo, quanto alla procreazione. La liberalizzazione dell’aborto è l’habeas corpus delle cittadine” (“Oltre il femminismo” Ed. Il Mulino Bologna 2002).

Una teoria scritta a tavolino, il femminismo, senza tenere conto della realtà.

Ciò è confermato anche, se ancora ce ne fosse bisogno, dalla posizione assunta dal femminismo ufficiale nella vicenda referendaria che ha fatto seguito all’approvazione della legge 40/2004 sulla cosiddetta fecondazione assistita.

Poche, proprio poche, le femministe che si siano rese conto di quanto la fecondazione extracorporea riduca la donna alla sola funzione riproduttiva, la tratti come”fornitrice di parti del corpo” ( Renate Klein), la ponga sempre di più sotto una tutela medica che, tesa solo al risultato della produzione di un figlio, perfetto per di più, la sottopone a stimolazioni ovariche pesanti e rischiose per la sua salute, in alcuni casi anche per la vita stessa, veri e propri stupri ormonali, al rischio, nella percentuale altissima dell’85% circa, di un frustrante ritorno a casa senza quel figlio che la speranza tecnologica le aveva fatto balenare, con il pensiero di essere stata incapace a generare nonostante l’intervento dell’infallibile tecnologia, con l’angoscia, che prima o poi arriva, che tutto quel “materiale genetico” che ad ogni ciclo di tentativi veniva prodotto e finiva in niente, erano figli, figli suoi chiamati alla vita, ma destinati alla morte.

Il femminismo tutto ciò non è riuscito a metterlo a fuoco. Ha condotto la battaglia referendaria tutta imperniata sullo slogan “dobbiamo allargare le maglie di questa legge che è contro la salute delle donne”. Ma quale salute? Ci chiediamo. E’ la stessa fecondazione extracorporea contro la salute delle donne, non una legge che cerca di contenerla e che consente già troppo.

E che nei mesi scorsi, nell’ospedale Sant’Anna di Torino, che è in testa alle classifiche nazionali per il numero di aborti volontari, abbia avuto inizio la pratica dell’aborto chimico mediante la RU 486, al femminismo sta bene. Si è messo in agitazione quando il Ministro della Salute lo ha sospeso, solo momentaneamente, purtroppo. Anche da parte di esponenti di cariche istituzionale, ci si è lasciati andare a considerazioni che avevano molto a che fare con l’ideologia, ma poco con la dignità femminile.

L’aborto chimico è terribile. Sia ben chiaro: l’aborto è sempre tale, sia quello chirurgico, entro i 90 giorni, sia quello precoce con la cosiddetta contraccezione d’emergenza che è appunto abortiva, ma l’aborto con la RU 486 è terribile, oltre che per il figlio, per la donna: è lei che assume le famigerate pillole, è lei che per 3 giorni, sola, a casa, sanguina, avvertendo tangibilmente l’agonia del suo bambino, impossibilitata a tornare indietro, nel caso cambi idea. Sola a casa. Poi tornerà in ospedale per la somministrazione del misoprostol, la prostaglandina, per l’espulsione di quel figlio ucciso. Poi dovrà tornare in ospedale per un ultimo controllo, ma se l’espulsione non sarà stata completa, si dovrà intervenire chirurgicamente. Un’agonia terribile la RU 486, per il figlio che muore e per la madre.

Ma le femministe zitte. Dove sono le femministe, così pronte sempre ad intervenire con i loro slogan sul corpo, sulla salute riproduttiva, sull’utero? Perchè tacciono oggi che l’utero delle donne, con la RU 486, è una bara che sanguina? Eppure, a Torino, sono sempre pronte a intervenire con il loro trito armamentario e con i loro folcloristici slogan. Perchè non sono davanti al Sant’Anna a tutelare davvero la salute delle donne?

Un nuovo femminismo addita Giovanni Paolo II. Un femminismo che della donna sappia accogliere e valorizzare tutto: la sua capacità generativa, la sua capacità di accoglienza, di prendersi cura, di farsi carico, di amare. La sua capacità di realizzare se stessa in famiglia e nella società. Non c’è contraddizione – afferma il Papa in tutto il Magistero che ha a tema la donna, dalla Mulieris dignitatem, alla Lettera alle donne, all’Evangelium Vitae – tra la possibilità per la donna di realizzare se stessa in ogni campo della società, nella professione, nell’impegno sociale, politico, nell’arte, ovunque, e la possibilità di essere pienamente se stessa nella famiglia, come madre, come moglie. Non aut aut, o l’uno o l’altro, ma et et, una cosa e l’altra, secondo la prospettiva pienamente cristiana che tutto valorizza e tutto tiene.

La strada percorribile per la donna è indicata da questo nuovo femminismo

Tocca alla donna esprimere quel genio femminile operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento, testimoniando il senso dell’amore autentico e del dono di sè e dell’accoglienza all’altro“.

Certo, la strada da percorrere non è facile. Molti sono i condizionamenti di tipo culturale, ideologico, strutturale di questa nostra società. Per i credenti c’è la consapevolezza del condizionamento di quell’antico peccato dei progenitori. La strada è lunga, in salita. Ma è fondamentale che la donna non la percorra da sola. Questo il femminismo non l’ha capito. Le donne non possono riferirsi soltanto a sè, non possono rinchiudersi nel ghetto dell’autoreferenza, come hanno fatto finora. Anche le organizzazioni di donne per la vita, che pur sono encomiabili, rischiano di compiere lo stesso errore metodologico del femminismo storico. La tutela della vita non è questione solo di donne, così come non lo è l’aborto, anche se una legge, con le stimmate del femminismo, ha voluto escludere il padre dalla decisione della donna se abortire o meno.

Donne e uomini assieme.

A questa unità dei due, – e sono ancora parole di Giovanni Paolo II – è affidata da Dio non soltanto l’opera della procreazione e la vita della famiglia, ma la costruzione stessa della storia”…“ la donna è il complemento dell’uomo, come l’uomo è il complemento della donna: donna e uomo sono tra loro complementari”…“Non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. E’ soltanto grazie alla dualità del maschile e del femminile che l’umano si realizza appieno”. Non l’uno contro l’altro, ma assieme, anche con “una certa diversità di ruoli, nella misura in cui tale diversità non è frutto di arbitraria imposizione, ma sgorga dalle peculiarità dell’essere maschile e femminile”.

Quanta considerazione, quanta stima, quanto amore ha manifestato Giovanni Paolo II per le donne. Ne è una testimonianza il grande numero di donne da lui beatificate e canonizzate, durante il suo Pontificato. Donne di ogni età, di ogni condizione, di ogni latitudine, dalla piccola Giacinta di Fatima alla ragazzina Laura Vicuna del Sud America, che ha offerto la vita per la salvezza spirituale della madre, a Teresa di Calcutta, dalla filosofa Teresa Benedetta della Croce, l’ebrea Edith Stein, proclamata patrona d’Europa, alla mistica Faustina Kowalska, a Teresa Michel, vedova e fondatrice delle suore della Divina Provvidenza, a Elisabetta Canori che si è santificata in un matrimonio infelice.

L’elenco potrebbe continuare: è lungo e comprende donne che nelle molteplici situazioni della loro vita hanno fatto risplendere il genio femminile. Nella speculazione, nell’amore, nell’accoglienza, nella quotidianità.

Il 24 ottobre 2004, a chiusura del convegno che aveva a tema Famiglia e Vita c/o il Lingotto di Torino, abbiamo vissuto la gioia e la commozione di ascoltare la testimonianza di Don Giuseppe Beretta, fratello di Santa Gianna Beretta Molla, canonizzata da Giovanni Paolo II nello stesso anno. Medico, da tutti stimata perchè brava, coscienziosa, disponibile, rispettosa, moglie innamorata, madre di tre bambini, non ha esitato a sacrificare la sua vita per non abortire la figlia che portava in grembo. Una donna pienamente realizzata, in famiglia, nel sociale, nella professione.

Sul suo esempio, e forse con la sua preghiera, altre madri hanno avuto il coraggio di fare lo stesso sacrificio in questa nostra epoca in cui pare vincente solo chi pensa a sè e al proprio esclusivo benessere.
Questi sono gli esempi che Giovanni Paolo II ci ha additato, queste le donne che ha consegnato alla gloria degli altari.

E poi c’è Maria ”la massima espressione del genio femminile che mettendosi a servizio di Dio si è posta anche a servizio degli uomini: un servizio d’amore” e sono ancora parole del Papa.

Maria alla quale il Papa, a chiusura dell’Evangelium Vitae, affida la causa della vita, Maria che con il suo sì alla vita ha fatto irrompere nel mondo la salvezza per ogni uomo.

Giovanni Paolo II ha indicato alla donna, in questo epocale momento di transizione, di crisi e di confusione, la direzione da prendere, per non perdere se stessa e il senso della sua stessa vita: la donna riesce ad essere se stessa quando si colloca nella prospettiva dell’accoglienza e dell’amore. La donna quale protagonista nel popolo della vita, per il diffondersi, l’affermarsi di una cultura della vita rispettosa dell’uomo, di ogni uomo: il Papa ha indicato la strada. E lo ha fatto con rispetto per la dignità della donna, con considerazione per le sue capacità e per le sue realizzazioni. Lo ha fatto con sollecitudine immensa, con tenerezza. Ha ringraziato ripetutamente le donne, tutte e ciascuna, le madri, le sorelle, le spose, le donne consacrate a Dio nella verginità, le donne dedite ai tanti e tanti esseri umani. Ha ringraziato “per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni”.

E con la stessa tenerezza le donne gli dicono grazie.

Marisa Orecchia