PROCREAZIONE UMANA
LA SFIDA TECNOLOGICA

Angelo Serra

Il Santo Padre Giovanni Paolo II, nel suo discorso ai partecipanti al Convegno organizzato dal Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia il 27 Agosto 1999 sottolineava le gravi tendenze che inevitabilmente influiranno sulla vita familiare all’inizio del nuovo secolo. Diceva:

”Rispetto a diciotto anni fa, quando iniziava il vostro cammino accademico, la provocazione rivolta dalla mentalità secolaristica alla verità sulla persona, sul matrimonio e sulla famiglia si è fatta, in un certo senso, ancora più radicale. Non si tratta più solamente di una messa in discussione di singole norme morali di etica sessuale e familiare. All’immagine di uomo/donna propria della ragione naturale e, in particolare, del cristianesimo, si oppone un’antropologia alternativa. Essa rifiuta il dato, inscritto nella corporeità, che la differenza sessuale possiede un carattere identificante per la persona; di conseguenza, entra in crisi il concetto di famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra un uomo e una donna, quale cellula naturale e basilare della società. La paternità e la maternità sono concepite solo come un progetto privato, da realizzare anche mediante l’applicazione di tecniche biomediche, che possono prescindere dall’esercizio della sessualità coniugale. Si postula, in tal modo, un’inaccettabile «divisione tra libertà e natura», che sono invece «armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l’una con l’altra» (Veritatis splendor, 50)”.

A questa chiara e profonda visione umana del “dono della vita”, da 22 anni scienza e medicina hanno tentato di sostituire la loro propria arte per «produrre», attraverso la fecondazione in vitro, un soggetto umano da «offrire» a chi lo avesse desiderato. Dopo sei anni dalla nascita della prima «bambina della provetta» e lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecniche in oltre 100 cliniche aperte in molte nazioni, R.G.Edwards, il pioniere in questo campo, nella prefazione agli Atti della Third World Conference of In Vitro Fertilization and Embryo Transfer scriveva:

“La fertilizzazione in vitro (IVF) è diventata un metodo efficiente e ampiamente adottato per aiutare una coppia sterile a concepire un figlio. Oltre ad offrire nuova speranza, questa tecnica ha portato un vasto aumento di conoscenza dei primi fenomeni del processo della riproduzione. In realtà la fertilizzazione umana in vitro ha già aperto una porta a una rivoluzione della riproduzione.(…) Noi crediamo che la fecondazione umana in vitro è qui per restare, a dispetto dei dibattiti etici, morali e legali suscitati”.

Aveva avuto ragione. Oggi la fecondazione in vitro è diventata una prassi biotecnologica e, sotto la pressione culturale, quasi una esigenza sociale. Prassi ed esigenza pienamente legalizzate entro più o meno ampi limiti in molte nazioni; lasciate in altre, come in Italia, dove soltanto ora la legge sta compiendo con difficoltà e contrasti il suo iter parlamentare, a iniziative personali incontrollate e incontrollabili.

Le brevi riflessioni che presenterò vorrebbero essere una introduzione a un esame di alcuni aspetti umani e sociali implicati in queste tecnologie, col massimo rispetto per quanti vi hanno dedicato e continuano a dedicarvi le loro energie ritenendolo un dovere, ma anche consapevole dei grandi abusi che di fatto si stanno compiendo. Abusi apertamente e con coraggio denunciati di recente da un gruppo di 12 esperti del Institute for Science, Law and Technology (ISLAT) dell’Illinois Institute of Technology di Chicago, in un articolo dove si parla apertamene di “industria della Tecnologia della Riproduzione Assistita” (the Assisted Reproductive Technology industry). Articolo, ancor con più coraggio, pubblicato sulla più grande rivista scientifica degli Stati Uniti, Science, che si concludeva con questa profonda espressione:

“Le tecnologie di riproduzione assistita implicano creare bambini e costruire famiglie, un valore sociale fondamentale”.

Questa ultima espressione mi sembra racchiuda il profondo significato «umano» di una assistenza medica alla riproduzione umana, e – compresa nella sua verità integrale – dovrebbe rappresentare il principio che ne sottende tutta l’attività, indipendentemente da qualsiasi credo o fede.
Principio che è stato esplicitamente espresso e ampliato nel recente «Code of Practice» elaborato dalla Human Fertilization and Embryology Authority inglese, approvato dal Segretario di Stato e proposto al Parlamento. Nella introduzione si legge:

“L’oggetto del Codice è più ampio dell’assicurare innocuità e efficacia di particolari pratiche cliniche o scientifiche. Riguarda aree di applicazione che sollevano problemi etici e sociali fondamentali. Nell’estenderlo siamo stati guidati dalle esigenze del Human Fertilization and Embryology Act e da: il rispetto dovuto alla vita umana a tutti gli stadi del suo sviluppo; il diritto, di chi è o può essere sterile, a una appropriata attenzione alla loro richiesta di trattamento; l’attenzione al benessere del bambino, che non può sempre essere adeguatamente protetto a causa degli interessi degli adulti coinvolti; e un riconoscimento dei benefici, sia agli individui che alla società, che possono seguire a una responsabile acquisizione di conoscenze scientifiche e mediche”. E sottolinea: “Riconosciamo che queste considerazioni possono talvolta essere in conflitto e abbiamo cercato di riconciliarle in un modo che siano praticabili e in accordo con lo spirito e le intenzioni dello stesso Act”.

Le riflessioni, intenzionalmente a molte voci, che verranno proposte sono dei corollari di questi saggi principi, nei quali la figura centrale presa in considerazione è il «soggetto umano».

La richiesta

La domanda essenziale è quella di un «figlio». Nella maggior parte dei casi essa viene da parte di coppie sterili a causa di difetti morfo-funzionali, o perché al di là dei limiti dell’età fertile. In un’altra parte di casi, il cui numero va sempre più aumentando, essa viene da parte di coppie non sterili ma, che essendo a rischio di avere figli affetti da gravi difetti genetici, desiderano evitarlo e avere invece la certezza di un figlio sano. In un’altra piccola parte – almeno finora – la domada viene da coppie che vivono in particolari situazioni da un punto di vista psicologico o umano delicate, quali: forti tendenze omosessuali, o scelta di libera convivenza.
Sono tutte , senza dubbio, – e chi ne ha l’esperienza lo può testimoniare – situazioni che meritano particolare attenzione e comprensione, perché portano con sé una profonda sofferenza, anche se a una considerazione superficiale o incompleta potrebbero apparire come espressione di spinte egoistiche, anche se queste possono talvolta affiorare.
Dinnanzi a queste richieste come hanno risposto sinora la scienza, la medicina e la società?

La risposta della scienza

Tra il 1969 e il 1971 R.G.Edwards e il suo gruppo del Physiological Laboratory of the University of Cambridge riuscivano ad ottenere le prime due blastocisti umane in vitro. Dopo altri 7 lunghi anni di lavoro in collaborazione con la medicina per un riuscito trasferimento in utero, il 25 luglio 1978 nasceva la prima bambina concepita in vitro. Proprio come nel 1976 era nato un babbuino concepito in vitro e trasferito in utero.
Proprio in quegli anni si stava affermando e diffondendo, in seguito allo straordinario sviluppo della tecnologia che era passata al primo posto non solo nei programmi nazionali e internazionali di Ricerca e Sviluppo (R&D), ma anche – e soprattutto – nell’opinione pubblica, una nuova cultura, detta la «terza cultura». Cultura, per scendere un po’ più nel suo profondo, guidata nel suo operare dagli stessi principi che avevano rappresentato le costanti del sistema operativo moderno della scienza. Costanti che possono essere espresse in quattro assiomi, confermati da una vastissima letteratura:

  1. nulla esiste al di fuori dell’Universo;
  2. nella scala animale non ci sono salti di qualità: tutto è un gioco di geni anche nell’uomo;
  3. l’etica umana non ha principi immutabili: “essa rappresenta e riflette i costumi accettati dalla società”;
  4. La scienza è neutra: “Lo scienziato scopre, la società applica: i valori sono implicati in quest’ultima, non nel primo”.

Basati su questi principi, era apparso pienamente logico a questi ricercatori applicare anche per l’uomo ciò che poteva essere fatto per ogni altro animale.
Da questa convinzione, vorrei dire innata oggi in una gran parte degli scienziati, è iniziata tutta la ricerca sugli embrioni umani. Era già stata prospettata nel 1982 da R.G.Edwards stesso: “Presto – scriveva – la stimolazione ovarica permetterà di avere tre, quattro e più embrioni: due saranno trasferiti nella madre, e gli altri potranno essere studiati in vitro. Dovrebbero gli embrioni in soprannumero essere usati a questo scopo?… Insisto sulla necessità di studiare la crescita in vitro per migliorare l’alleviamento della infertilità e delle malattie ereditarie e per approfondire altri problemi clinici e scientifici”. E lo sviluppo delle ricerche fu straordinario. Per accennare solo alle principali linee: dalle indagini sulle cause della perdita di tanti embrioni umani a quelle per migliorare le tecniche di coltura e della crioconservazione; dalle ricerche su procediementi della diagnostica pre-impianto ai processi di analisi dell’attivazione dei geni embrionali durante i primi stadi dello sviluppo alla transfezione genica embrionale; dai tentativi di clonazione per splitting e trapianto nucleare alla produzione e isolamento di cellule embrionali staminali in vista della preparazione di tessuti per applicazioni mediche quali, ad esempio, isto-trapianti terapeutici. Sono ormai centinaia i lavori che escono ogni anno su embrioni umani soprannumerari o prodotti in vitro solo per ricerca.
Anche se questa struttura mentale dello scienziato ha, senza dubbio, favorito l’esplosione di ricerche sull’embrione umano di cui siamo testimoni, una volta iniziato il cammino della riproduzione tecnologicamente assistita era apparsa evidente l’esigenza di sperimentare sugli embrioni umani al fine di rendere sempre più efficiente tutto il processo.

Rimaneva, però, sempre sospesa la maggior difficoltà sollevata in un editoriale di Nature già nel 1982:

“Il problema più difficile è se embrioni umani viventi possano essere utilizzati per studi embriologici”.

La risposta a questa difficoltà fu data dal Comitato Warnock, istituito dal Governo Inglese al fine di preparare una legislazione in materia. Al capitolo XI del rapporto finale venivano esposte: le ragioni contro la sperimentazione, riducibili alla espressione:

“l’uso di embrioni umani per ricerca è moralmente sbagliato per il fatto stesso che essi sono umani”;

e poi le ragioni a favore della stessa, che affermavano che:

“quel rispetto non può essere assoluto, ma può essere pesato contro i benefici che ne derivano”.

Seguiva poi la proposta del Comitato approvata da 16 dei componenti contro 7. Essa legge:

“Nonostante la nostra divisione su questo punto, la maggioranza di noi raccomanda che la legislazione dovrebbe provvedere che la ricerca possa essere condotta su ogni embrione risultante dalla fertilizzazione in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine del quattordicesimo giorno dalla fertilizzazione”.

Al fine di sostenere questa posizione, tuttavia, apparve evidente la necessità di negare all’embrione lo stato ontologico di «individuo umano», almeno fino ad alcuni giorni dopo la fertilizzazione. Dietro suggerimento di A. McLaren, questo limite fu postposto fino al 14.mo giorno, riservando la connotazione di «pre-embrione» al periodo dalla fertilizzazione al disco embrionale. In realtà, se fosse stato considerato un individuo umano dallo stadio di zigote- il suo uso per la ricerca avrebbe violato le norme fondamentali sulle ricerche biomediche su esseri umani emanate da Codici e Dichiarazioni internazionali, a partire dal Codice di Norimberga del 1947 fino alle Direttive Etiche Internazionali per la Ricerca Biomedica condotta su Soggetti Umani del 1993.

Questa nuova figura del «pre-embrione», insostenibile su basi scientifiche, non fu mai discussa seriamente dagli scienziati: era evidentemente comoda. La legge permissiva, secondo la proposta del Comitato Warnock, fu ufficialmente riconosciuta e accettata, con 2/3 dei voti favorevoli, dal parlamento inglese ed è ormai prevalente ovunque non soltanto nel campo scientifico e tecnologico, ma anche giuridico. Anzi essa è ampiamente diffusa nella società, attraverso i mezzi mass-mediali, come una nuova verità sul punto in cui realmente inizia la nostra vita individuale. Cioè, ogni embrione umano non deve essere considerato un individuo umano prima di 15 giorni dal suo concepimento! In questo periodo è un semplice «cumulo di cellule» anonimo. Ciascuno di noi può comprendere le conseguenze etiche e sociali di questa posizione: nessun principio morale può porre dei veto su questo cumulo di cellule supposto senza valore.

A questa posizione, tuttavia, rimane una obiezione di fondo cruciale. Non si può negare che, se quanto si fa oggi a milioni di embrioni umani fosse stato fatto a quel supposto «cumulo di cellule» con cui era certamente iniziata la vita di tanti scienziati che oggi ammiriamo, dovremmo coerentemente affermare che ad essi era stata tolta la loro propria vita appena sbocciata, e non potremmo chiamarli con il loro nome, né ammirarne le scoperte. E’ la stessa conclusione a cui porta una analisi scientifica e logica dello zigote: lì inizia una nuova vita di un essere che non è anonimo; è, in realtà l’inizio di un nuovo essere umano con la sua propria identità e individualità, cioè di un reale individuo umano.

Certamente, in questa sfida: «produzione tecnologica» di embrioni umani contro «procreazione», scienza e tecnologia hanno prevalso e ancora prevalgono e prevarranno: ne sono una prova i disgustosi dibattiti dei trascorsi mesi sulle cellule staminali embrionali umane. A causa della perdita del senso dei limiti e quindi di responsabilità, scienza e tecnologia hanno vinto prevaricando. Ma in questa prevaricazione è stato sconfitto l’«uomo», ridotto – nonostante tutte le più elevate intenzioni – a mero «oggetto disponibile» nel periodo iniziale e cruciale della sua esistenza.

La risposta della tecnologia

La medicina non poteva restare indifferente alle richieste soprattutto di una coppia sterile. Anche se il progresso della patologia clinica, coadiuvata dagli sviluppi di tante altre discipline collaterali, ha favorito una sempre più ampia conoscenza delle molteplici cause della sterilità, da parte sia della donna che dell’uomo, una notevole porzione di casi rimaneva e rimane ancora terapeuticamente insolvibile, anche con gli interventi chirurgici e farmacologici più raffinati e mirati. La medicina, bisogna riconoscerlo, ha cercato di fare tutto il possibile per trasferire i nuovi risultati offerti dalla scienza sulla fecondazione in vitro nel proprio campo. Si può anzi si deve chiedere allora quali sono i risultati ottenuti dopo 30 anni di ricerca ininterrotta e di applicazione di tecnologie sempre più avanzate. Ne emergeranno delle considerazioni che potranno fare luce su alcuni aspetti etici e deontologici di questa tecnologia di riproduzione assistita.

1. Risultati e problemi

In riferimento all’attesa essenziale, il «bambino in braccio» un certo progresso si può oggi registrare rispetto ai primi dati riportati sulla base di ampie casistiche nel 1984. Queste indicavano che solo il 6-7% delle donne avevano visto soddisfatto il loro desiderio di avere un figlio in braccio. I risultati raggiunti dopo anni e anni di ricerche, pur sensibilmente migliorati, sono tuttavia ben lontani dall’essere soddisfacenti. Parlano all’evidenza un notevole numero di dati rigorosamente raccolti e analizati e alcune autorevoli testimonianze.

Nel 1988, l’analisi dei risultati di 41 «cliniche della fertilità», ottenuti dal Registro Nazionale IVF/ET degli Stati Uniti indicava che soltanto 311 donne su 2864, cioè l’11%, aveva ottenuto il figlio desiderato. Il Presidente del Comitato di Studio istituito dell’American Fertility Society, terminando il rapporto, commentava:

“L’informazione qui contenuta è critica per un approfondimento da parte della comunità medica e utile per il pubblico, perché comprenda meglio il problema del meno che ottimo esito che persiste in queste tecnologie”.

Un analogo rapporto della Voluntary Licencing Authority, riferendo lo scarso successo ottenuto in Inghilterra ancora al 1986, faceva notare:

“Che nel 1986 siano ricorse alle cliniche IVF 4.670 pazienti è una misura di quanto il servizio è richiesto. Che un gran numero di donne abbiano sopportato un totale di più di 7.000 cicli, dopo aver già avuto precedenti trasferimenti, nella speranza di diventare gravide è una misura dei sacrifici che esse sono preparate a fare per superare la sterilità. Che da tutto questo sforzo ci siano stati soltanto 605 nati vivi [12.9%] è una prova che l’IVF resta una potente sorgente di grandi speranze deluse…uno stato di cose in cui migliaia di donne ogni anno giocano di fortuna con una nuova tecnica, e sono crudelmente deluse quattro volte su cinque ”.

Ulteriori lievi progressi si possono rilevare dalle più recenti statistiche. Quelle degli Stati Uniti al 1992 davano: per la FIVET, un incremento di gravidanze dal 16% al 21%, il 5% delle quali extrauterine, e un incremento dei parti dal 12% al 17%, il 25% dei quali però plurigemini. Non migliori apparivano i risultati in Inghilterra: R.M.L. Winston e A.H.Handyside, attivi in questo campo fin dai primi anni, nel 1995 iniziavano un articolo sulle nuove sfide nel campo della fecondazione in vitro, riferendosi alle statistiche del 1992, con questa affermazione:

“La fertilizzazione umana in vitro (IVF) è sorprendentemente un insuccesso […] In Inghilterra, il tasso di nati vivi per ogni ciclo iniziato è del 12.5%”.

Un lieve miglioramento ancora sembra rilevabile dalle ultime statistiche pubblicate negli Stati Uniti relative al 1996: su 49.584 cicli, la frequenza media di gravidanze per ciclo sarebbe salito al 27.3%, la frequenza media di parti per ciclo al 22.6%, e la frequenza delle donne «con il bambino in braccio» 17%.

Il «bambino in braccio» è, dunque, ancora il privilegio di una coppia sterile su cinque o sei che lo desiderano! Scienza e tecnologia, in venti anni, non hanno risparmiato né ricerche nè mezzi per superare gli ostacoli; ma, finora, i risultati non possono che essere deludenti per la maggior parte delle coppie che affrontano questa via lunga, faticosa e costosa.
Anzi, la delusione si estese anche per il piccolo gruppo di donne in cui l’inizio della gravidanza è clinicamente accertato. Un notevole numero di rapporti indicano che tra le gravidanze clinicamente accertate: il 22% terminano in aborti spontanei e 5% in gravidanze ectopiche; circa il 27% sono gravidanze multiple con tutte le complicanze che ne seguono, tra cui la «riduzione fetale»; il 29,3% terminano in parti pre-termine e il 36% in nati con basso peso. Di più, c’è evidenza di un aumento preoccupante di morbidità e mortalità neonatale, con tassi significativamente superiori a quelli della popolazione generale. E dati relativi alle più recenti tecniche (ICSI, ROSI, ROSNI) indicano un rischio di anomalie congenite circa doppio rispetto alle gravidanze naturali. Né è da trascurare il rischio principale per la donna, la cosiddetta sindrome da iperstimolazione ovarica (OHSS), oltre alla ridotta recettività endometriale causata dalla alterata situazione ormonale, che non può non influire sull’esito dell’impianto degli embrioni.

La bassa efficienza di tutte le tecnologie finora introdotte nel campo della medicina per una «riproduzione assistita» sono dovute a un numero di condizioni che, come è ben noto, interferiscono con i meccanismi altemente delicati che si succedono rapidamente nei primi giorni dello sviluppo. Si potè, infatti, stabilire: che circa il 37% degli zigoti e il 21% degli embrioni pre-impianto hanno delle gravi anomalie cromosomiche, e che già il 40-50% degli oociti ottenuti con processi di super-ovulazione hanno cariotipo alterato; e che l’alterazione di singoli geni o di famiglie di geni interessati nel controllo dello sviluppo, e vari fattori connessi con gli stessi trattamenti tecnici – tra cui, in particolare, leggere modificazioni di temperatura, difetti dei terreni di coltura e necessarie micromanipolazioni – possono essere ulteriori cause di gravi anomalie che terminano nella cessazione molto precoce dello sviluppo, o in aborto spontaneo o in serie malformazioni.
Questi dati, che danno una ragione dei fallimenti, spiegano anche perché l’intervento deve essere ripetuto da 5 a 6 volte affinchè, in media, una donna possa avere, attraverso la FIVET, la probabilità del 50% di ottenere il figlio desiderato, e da 13 a 15 volte per raggiungere la probabilità del 95-99%; e perchè l’esigenza di ricorrere più volte a queste tecniche, altamente stressanti, può scatenare un tendenziale rigetto da parte della donna stessa e della coppia, accompagnate spesso da notevoli crisi depressive.

Sembrerebbe ovvio che queste innegabili costatazioni dovrebbero far riflettere sia la donna – e/o la coppia – che chiede di utilizzare queste tecnologie riproduttive; e sia – a maggior ragione – chi ve la induce e offre tali tecnologie. Una conclusione è chiara: per la massima parte delle copie sterili, queste tecnologie oggi ancora rappresentano una speranza che andrà quasi certamente delusa.
Ma, di tutto ciò si tace. Non se ne parla attraverso le grandi vie di comunicazione mass-mediale. Non se ne parla neppure, se non molto velatamente e di passaggio, negli studi di chi offre l’assistenza. Accusa aperta, fatta senza attenuanti nella già ricordata analisi del Institute for Science, Law, and Technology (ISLAT) di Chicago, dove nell’indicazione delle proposte si insiste:

“Le cliniche dovrebbero, come minimo, essere obbligate dalla legge federale a manifestare i rischi, i benefici e gli specifici procedimenti delle tecniche che saranno impiegate…i rischi associati con i farmaci utilizzati… i rischi di gravidanze multiple, e i potenziali problemi medici e pscicologici per i figli”.

E sta diventando sempre più evidente la necessità di una consulenza accurata, soprattutto quando sono implicati aspetti genetici.

In breve, sembra che, di fatto, l’assistenza alla riproduzione umana sia sfuggita al controllo di una medicina responsabile, che – forse senza rendersene conto e con il desiderio di aiutare almeno qualcuno – prosegue in una fase ancora sperimentale con danni notevoli – fisici, economici e psicologici – alla maggior parte delle persone che vi sono coinvolte. «Primum, non nocere» è la regola ippocratica fondamentale – e profondamente umana – del medico. Regola, nell’applicazione di queste tecnologie totalmente calpestata. Non dovrebbe questa regola essere ripresa in seria considerazione, prima di procedere oltre, al fine di trovare suggerimenti e formulare decisioni per un doveroso comportamento più responsabile e rispettoso? Non sarebbe necessario – prima di procedere – ritornare a una sperimentazione più ampia e più mirata sugli ominidi più vicini all’uomo, per vedere se e come è possibile ridurre in modo sensibile questi danni? Se non fosse possibile, non sarebbe deontologicamente corretto continuare a offrire questa via ingannevole per soddisfare un desiderio profondamente umano: l’inganno è abuso della persona; e non sarebbe neppure deontologicamente corretto seguire la decisione della coppia a procedere, anche dopo aver dato tutte le informazioni, quando chi offre il trattamento sa che ha la probabilità dell’80-85% di provocare danni gravi.

2. Morte programmata

Un altro serio problema e di notevole rilevanza etica è spesso intenzionalmente ignorato: l’elevata incidenza di embrioni perduti a fronte di un figlio «desiderato». L’analisi dei dati indica che, in media, per ogni gravidanza che inizia, circa 30 embrioni – come minimo – per diverse ragioni vanno perduti. Anche se si sta riproponendo un’accettabile probabilità di successo riducendo a 2 o 1 il numero degli embrioni trasferiti in utero allo stadio di blastociste, la produzione di più embrioni rimarrà sempre una esigenza tecnica. E’ evidente che il diritto alla vita di questi embrioni è coscientemente violato.
Morte «programmata», che si sta estendendo, sotto una forte spinta eugenistica, alla eliminazione di ogni embrione diagnosticato – attraverso le tecniche offerte dai progressi della genomica umana – suscettibile di manifestare serie patologie, o giudicato diverso da quello voluto, o in sovrappiù rispetto all’«uno» desiderato. Situazioni e prospettive ormai da tempo in atto, descritte in tutta la loro cruda realtà da J. Testart e B. Sèle i quali, con evidente preoccupazione, scrivevano: “Ciò che sta avvenendo è una vera rivoluzione dell’etica che sorpassa le frontiere di ogni nazione”, e con senso di responsabilità concludevano:

“Al di là dell’esecuzione tecnica, dell’interesse individuale e di un ingenuo desiderio, i problemi sono più complessi di quanto siamo portati a credere. Noi dovremmo avvicinarci a questi problemi con uno sforzo cosciente e umiltà determinata a sostenere la dimensione etica della vita umana”.

In realtà, è veramente difficile comprendere come sia possibile essere indifferenti da ambedue le parti, richiedenti e medico, all’omicidio multiplo intenzionale che accompagna ogni nato. L’embrione, fin dallo stadio di zigote, è un ben determinato individuo umano.
Oggettivamente, nella sfida «medicina tecnologica» contro «sterilità» e «patologia embrionale», la prima ha perso finora almeno,; e ha perso non tanto rendendo patenti i suoi grandi limiti di fronte a una «natura» che ancora le sfugge e non riesce a domarla mentre forse credeva di esserne già padrona, quanto piuttosto per aver sparso – forse contro i suoi stessi desideri – «morte» e «dolore» invece che «vita» e « gioia».

L’impatto sulla società

La società, intendo soprattutto il «pubblico», è stata letteralmente travolta, senza alcuna preparazione, in un tema appassionante, carico di tensioni e speranze ma anche di confusione. Proprio da qui nascono molti gravi problemi che disturbano e mettono a rischio la cellula principale del tessuto sociale, la famiglia, e per ciò stesso la società.
Le prove di questo sconvolgimento della famiglia emergono da serie indagini sociologiche. Un particolare sconvolgimento è da queste sottolineato per la maggior gravità. Scrive P. Donati:

“La procreazione – evento di significato insondabile per i mille riflessi che ha in sé, per la coppia, per il concepito, per la famiglia e per la società – è diventata un bene di consumo relativo ad altri beni di consumo; è stata ridotta a un evento che ha i suoi rischi che si devono evitare e deve, quindi, essere ultracontrollato; è stata degradata a mera produzione di esseri che devono corrispondere ai criteri di mercato o di proprio gradimento e, quindi sottoposti a selezione. Da qui la modernizzazione dei comportamenti procreativi per avere il figlio quando, dove e come si vuole”,

e gli abusi che si stanno perpetrando sul neoconcepito e sul non-nato «geneticamente sbagliati».
Questo processo è ormai diventato epidemico, favorito, anzi promosso, anche da voci di alto prestigio in campo scientifico o ufficiali. Il premio Nobel Herman J.Muller, spingendo gli scienziati a prendere in mano la guida dell’evoluzione umana, insisteva:

“Le nozioni un tempo onorate sugli aspetti riproduttivi cederanno il posto, dinnanzi ai progressi tecnici, a più promettenti possibilità.(…) Molte usanze e atteggiamenti sono cambiati. Sarebbe molto strano se, in questa età di conoscenze e tecniche esplosive, le nostre pratiche riproduttive rimanessero immuni alle riforme”.

Espressione efficace, perché vissuto personalmente, di questo sovvertimento radicale è il saggio «L’enfant derrière la vitre», scritto dall’artista francese Dominique Grange dopo due fallimenti della FIVET e aver rifiutato il terzo tentativo propostole. Eccone alcuni pensieri:

“Ormai mi era bastata l’esperienza fatta per averne una coscienza lucida. Non potevo più continuare a permettere che il mio desiderio di un figlio servisse gli interessi narcisistici della scienza”.

“La coppia ne esce distrutta. Perde il controllo del suo desiderio . Ho conosciuto donne che hanno tentato fino a 14 volte la FIVET, donne che si fanno psicanalizzare per riuscire a sopportare quell’esperimento”.

“Io non voglio passare per la passionaria dell’antifecondazione in vitro, ma ci sono delle cose che si debbono dire. Si deve dire che la donna viene ridotta a una macchina da superovulazione. (…) Ci tolgono prima il sesso , poi il cuore e infine la mente. Per servire al narcisismo della scienza”.

“Tra me e mio marito si metteva di mezzo questo meccanismo e noi ne diventavamo vittime, per di più estranei l’una all’altro”.

Qui, non possiamo che accennare ai gravi problemi di ordine psico-sociale connessi: con la fecondazione sia omologa sia eterologa; con lo pseudo-figlio concesso a coppie omosessuali o libere – pur rispettando e comprendendo la loro realtà; con l’«utero in prestito»; e con la crioconservazione. Riguardo ai primi, sfortunatamente, sono ancora troppo pochi i dati per avere una reale conoscenza dello stato psico-sociale di queste famiglie; e molto correttamente il più ampio studio su questa linea concludeva:

“Per le decisioni informate che devono essere fatte dai politici, e per una efficace consulenza da offrire ai genitori prospettivi è cruciale avere dati sistematici sulle reali conseguenze dei processi di riproduzione assistita sui figli e sui loro genitori”.

Riguardo alla crioconservazione, i problemi sono tanto gravi che H. W. Jones Jr., un esperto in questo campo, dopo averli ricordati, giunge ad affermare:

“A mio parere c’è pericolo che essa faccia accumulare inavvertitamente problemi etici di tale gravità che il vero futuro della crioconservazione diventa incerto eccetto che si trovi una soluzione soddisfacente”.

Con piena consapevolezza, perciò, C. Djerassi concludeva un suo provocante saggio affermando:

“Distaccare il figlio dalla procreazione tradizionale può ben essere il più fondamentale aspetto etico sollevato dalla tecnologia della riproduzione assistita. Né le scienze né il sapere umanistico ci hanno finora preparato adeguatamente alle conseguenze del sesso in una età di riproduzione meccanica, né al fatto che un efficace trattamento di infertilità genetica ha reso ereditabile il non-ereditabile”.

In realtà, si deve riconoscere che le grandi aspettative, che il progresso della scienza e della medicina sembravano aver aperto nel campo tanto importante della procreazione, stanno trasformandosi in una minaccia per la società. Minaccia a cui si cerca di far fronte con leggi e regole nelle quali gli aspetti etici sono in gran parte elusi. La ragione ultima di ciò mi sembra evidente: nel sistema scientifico-tecnologico che domina oggi non è soltanto cambiato, ma è caduto il valore di una costante indispensabile per l’equilibrio di tutto il sistema, la costante «Uomo». Riconoscere il suo «vero valore» e di conseguenza la sua dignità e i suoi diritti è, dunque, urgente.

Conclusione

Qui, la scienza e la tecnologia devono fermarsi. Il valore di questa costante non lo possono calcolare né stimare con le proprie metodologie. E’ allora necessario che lo scienziato e il tecnologo, i quali hanno oggi un innegabile potere nell’orientamento e nella attuazione dello sviluppo sociale, non restino chiusi nel loro sistema assiomatico riduttivo, ma aprano se stessi – pur conservando scienza e tecnologia ciascuna le proprie prerogative – agli stimoli di un sistema «sapienziale». Di un sistema, cioè, che riflette un pensiero e una luce che vengono dal profondo di noi stessi, quando è criticamente interrogato. Soltanto da questa interrogazione si potrà derivare il valore della costante «Uomo» e, per conseguenza, ritrovare il senso dei limiti e dedurne le responsabilità nei suoi riguardi.
A questa conoscenza richiamava Giovanni Paolo II, rivolgendosi nel 1994 ai partecipanti alla Sessione Plenaria dell’Accademia Pontificia delle Scienze:

“Non bisogna lasciarsi affascinare – affermava – dal mito del progresso, come se la possibilità di realizzare una ricerca o di mettere in opera una tecnica permettesse di qualificarle immediatamente di moralmente buone. La bontà morale si misura dal bene autentico che procura all’uomo considerato secondo la duplice dimensione corporale e spirituale”(n.5).

“Quando l’uomo è in causa, i problemi superano il quadro della scienza, la quale non può rendere conto della trascendenza del soggetto, né evitare le leggi morali che derivano dalla posizione centrale e dalla dignità primordiale del soggetto nell’universo”(n.6).

In questa riflessione «sapienziale», scienziati e tecnologi non troveranno mai un freno al loro irresistibile desiderio di «conoscere» e di «fare»; troveranno, al contrario, una «guida» che li illuminerà a trovare le vie giuste – e, forse, ancora più brillanti e promettenti – per dare le risposte più appropriate alla soluzione di tanti e gravi problemi della patologia umana, uno dei quali è proprio la sterilità. La società, a sua volta, ritroverà il vero senso della famiglia e del figlio dono di un vero amore.