Franco Henriquet
Presidente Associazione Gigi Ghirotti di Genova
La nostra esperienza con i malati di cancro verso il termine della vita iniziò venti anni or sono all’interno di un grande ospedale generale, l’Ospedale San Martino di Genova, allora con oltre 3000 posti letto.
La molla che ci spinse a occuparci di loro fu il problema del dolore nel momento in cui osservammo quanta poca considerazione gli fosse generalmente riservata insieme alla scarsa considerazione in generale per le cure complessive dei malati nelle fasi più avanzate della loro malattia.
Ci ispirammo ai promotori delle cure palliative nel mondo, alle esperienze della psicologa Kubler Ross con i suoi seminari svolti al letto dei malati morenti , all’opera della dottoressa Cecily Sounders nell’Hospice londinese di St. Christopher e non ultimo agli scritti di Gigi Ghirotti.
Del giornalista Gigi Ghirotti ci colpì particolarmente la descrizione della solitudine pomeridiana, nelle corsie ospedaliere, di tanti malati come lui, solitudine cui andavano incontro al termine del “tornado bianco” che imperversava nelle ore del mattino. Con questa immagine colorita fotografò il grande affacendarsi del personale sanitario durante le ore del mattino e l’impossibilità del malato, per il gran trambusto e fretta collettiva, di poter parlare dei propri problemi con i medici e il personale sanitario in genere in tempi consentiti per potersi compiutamente esprimere e ricevere le possibili risposte. Alla fine del “tornado” scendeva quindi la grande calma pomeridiana invasa dai dubbi irrisolti e dalle preoccupazioni trattenute.
Come anestesisti impegnati nelle ore del mattino nelle sale operatorie fu necessario dedicare il nostro tempo per questo compito proprio in quelle ore “vuote” del pomeriggio. Fu un fatto provvidenziale perché trovammo un fertile terreno di ascolto che permise ai malati di aprirsi e manifestare i loro sentimenti inespressi, dalle ansie e tante paure alle speranze e alle possibili attese.
Capimmo presto la grande complessità del dolore. Accanto all’impegno e alle lotte per poter dar loro i farmaci più utili per alleviare il dolore, soprattutto la morfina, cercammo di creare intorno a loro un clima di attenzione e partecipazione ai loro problemi per quanto più ampio possibile.
Nacque così all’interno dell’Ospedale un Servizio di Terapia del Dolore Oncologico. I medici responsabili dei diversi reparti ospedalieri accettarono il servizio non come consulenza ma come presa in carico del malato per quanto attinente al dolore e alle problematiche generali di un malato verso il termine della vita.
Non tutto scorse facilmente, come nel momento in cui un Primario di una Divisione ci disse che gradiva la nostra opera ma che non avrebbe mai permesso di dire ai malati, ricoverati nel suo reparto, la verità del loro stato.
Nacque un caso conflittuale quando una malata proprio in quel reparto evidenziò la consapevolezza della sua gravità di malata di cancro, ma ne cercava una conferma autorevole, che solo il medico poteva dare, una conferma che doveva preludere alla domanda successiva su quanto ancora avrebbe potuto vivere. Intorno a lei si era creata una barriera di pietose bugie, eretta dai familiari e dai medici stessi. Noi abbattemmo quella barriera, pur fittizzia, ma che impediva alla malata di pianificare quanto le restava da vivere. Dopo la conferma di una verità che intimamente aveva già acquisito decise di andare a morire a casa, ancor più vicina al marito e ai suoi due bambini.
La seguimmo a casa nel suo ultimo tratto di vita e questa fu una seconda molla che ci spinse a creare l’assistenza domiciliare per i malati oncologici nella nostra città.
Oggi la nostra Associazione, a distanza di 20 anni da qual giorno, assiste a casa ogni anno circa 1000 malati di cancro avanzato e ogni giorno non meno di 200 malati.
In quell’ascolto calmo e attento del malato nelle ore pomeridiane della vita ospedaliera imparammo presto a conoscere i tanti bisogni emozionali, psicologici, sociali, spirituali del malato, tutti concorrenti a determinare uno stato di sofferenza per il quale non era affatto esclusivo o necessario l’intervento del medico o di altro personale sanitario, ma per il quale potevano essere utili tante altre persone di qualsiasi estrazione sociale e professionale purché dotate di disponibilità all’aiuto per gli altri.
Una delle richieste più pressanti e insistenti che ci erano rivolte dai malati, al di là della effettiva possibilità di abolire il dolore, era di non essere abbandonati, di continuare a esser loro vicini. La sola presenza era terapia. E’ stata forte l’impressione di un loro vissuto di abbandono, sia pure all’interno di una struttura sanitaria. Una sorta di abbandono anche psicologico che nasceva dai comportamenti del personale di cura diverso da quello tenuto con gli altri malati. Piccole cose talvolta, risposte evasive, senso di imbarazzo, frettolosità, evitamenti, ma colti per una sensibilità acuita da uno stato di forte emotività proprio di una malattia percepita, più o meno consciamente, nella sua gravità.
L’aspetto dell’abbandono è indubbiamente uno dei motivi di maggior sofferenza del malato e dei familiari strettamente coinvolti nell’assistenza. Non è solo l’abbandono del medico e delle istituzioni sanitarie che cedono le armi di fronte a una sconfitta della medicina che non è riuscita a guarire, ma è anche quello di una società che ha rimosso la morte e la rifugge nella sua cruda visione del malato che muore.
Abbandono, solitudine, senso di inutilità, sentirsi di peso agli altri non a caso sono i motivi maggiori per cui i malati gravi, verso il termine della vita, tra cui in prevalenza i malati di tumore, chiedono l’eutanasia. Non è il dolore grave, insopportabile, come comunemente si pensa e si scrive, alla base della sua richiesta e come sostengono, quale argomento forte, i sostenitori dell’eutanasia. E’ un dato di fatto che è emerso dalla analisi dei motivi che hanno portato alla richiesta di eutanasia le persone che l’hanno ottenuta nei Paesi ove è consentita per legge, l’Olanda, l’Oregon degli Stati Uniti. Sono dati pubblicati su riviste di carattere internazionale.
Il medico può generalmente lenire il dolore nella sua dimensione fisica per mezzo dei farmaci e di tecniche antalgiche diverse, ma nessun farmaco né tecnica antalgica potrà mai essere in grado di lenire il dolore dell’animo tra le cui fonti c’è proprio l’indifferenza, l’abbandono, la mancanza di amore per un malato che muore. Il loro superamento non può essere solo compito della medicina ma della comunità tutta che deve stringersi intorno al malato per farlo sentire ancora essere vivente tra i viventi.
Proprio per questo motivo la nostra Associazione si è dotata e dà la massima importanza a volontari non professionali, opportunamente preparati, per integrare l’équipe tecnica nei compiti dell’aiuto psicologico e sociale dei malati di cui si prende cura.
Per finire oggi abbiamo integrato la rete delle cure palliative nella nostra città con l’istituzione di una casa di accoglienza, l’Hospice, per il ricovero dei malati che non hanno più la possibilità di essere assistiti nella loro casa.
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