Come da titolo, cercherò di dare soprattutto i numeri

(slide 1), o meglio, cercherò di riflettere criticamente su chi dà i numeri. Perché di numeri sull’aborto ce ne sono e, bene o male, vengono resi noti. Esistono le relazioni ministeriali e le tesi che, più o meno esplicitamente, le relazioni ministeriali tendono a portare avanti. C’è un’iniziativa sul piano culturale che, anche con i numeri (o anche grazie a certi numeri), vuole farci partecipi di una filosofia di fondo incentrata sul: «tranquilli, il problema è del tutto sotto controllo».
Ecco, questo è l’atteggiamento “ufficiale” che da qualche anno, anzi, da ben più di qualche anno, si cerca di avallare da parte di quelli “che sanno cosa è bene per tutti noi” e che vogliono convincerci, con argomentazioni scientifiche o pseudo scientifiche, che quanto sta accadendo sul fronte dell’interruzione volontaria di gravidanza (aborto volontario) è un buon segnale. Vogliono dirci che la legge 194 è una buona legge, una saggia legge. Vedremo più avanti le “confortanti” parole con le quali viene ufficialmente etichettata la 194.
Anch’io in questa sede vorrei proporvi alcune osservazioni che scaturiscono dalla lettura e dall’interpretazione dei numeri, ma intendo farlo senza tesi precostituite e senza fare lo slalom tra i dati alla ricerca del percorso più comodo per sostenerle.
Vorrei prendere il via da un recente fatto di cronaca: la notizia degli orsetti uccisi in un grande parco del nostro paese

(slide 2). Se è vero che è un segno di sensibilità e di civiltà il comune dispiacere per la sorte dei tre poveri orsetti, mi chiedo tuttavia – e fortunatamente non sono il solo – per quale motivo tre orsi uccisi dovrebbero commuoverci più di oltre centomila aborti l’anno. E avendo constatato che purtroppo così stanno le cose, non posso che leggerle come un amaro segnale della perdita del più elementare senso dei valori.
La reazione indignata all’uccisione degli orsi si è sviluppata mentre, in occasione dell’annuale rapporto al parlamento sulla legge 194 con il suo bilancio di 130mila aborti, si è affermato pubblicamente che “La legge è stata e continua ad essere non solo efficace, ma saggia e lungimirante. Profondamente rispettosa dei principi etici della tutela della salute della donna e della responsabilità femminile rispetto alla procreazione. Dei valori sociali della maternità e del valore della vita umana dal suo inizio.”
Queste sono le parole del ministro tratte dal resoconto sulla applicazione della 194. I dati che qualificano questa legge “saggia e lungimirante” con il “più ampio rispetto per il valore della vita”, eccetera, eccetera, eccetera, segnalano che

(diapositiva3) dalla metà del ’78 al 2006 si è impedita la nascita -ma con saggezza e lungimiranza – di quasi 5 milioni di bambini. Via via vengono delineate le successive tappe: il primo milione raggiunto nel 1982, il secondo nel 1988, il terzo nel 1994, il quarto nel 2002 e così via verso la prossima meta: il quinto milione. Ma sempre nel segno di una legge saggia, lungimirante e rispettosa della vita e con il conforto del “Calma ragazzi – tutto è sotto controllo -“

(diapositiva4).
In fondo, si dice nelle comunicazioni ufficiali, siamo partiti nel 1978 con una crescita rapida sino a 200mila e a circa 250mila casi nei primi anni ’80; poi, insomma, “la gente si è data una regolata”; vedete che alla fine siamo arrivati a malapena 150mila casi annui. Anzi, meno di 150mila, ed è ormai da un po’ di tempo che si va in questa direzione. Esiste un aspetto, come dire, fisiologico del problema. Però possiamo affermare che oggi sono solo pochi gli aborti in Italia. Il fenomeno è sotto controllo; la gente sta imparando; la contraccezione efficace funziona, eccetera, eccetera, eccetera.
Questo è dunque il messaggio che ci danno e che deve passare nella cultura del nostro tempo. E per sostenere la validità della tesi ecco il ricorso alle analisi del tasso di abortività

(diapositiva5), ossia del rapporto tra il numero annuo di aborti e il numero di donne potenzialmente esposte a vivere tale esperienza. Quindi: numero di aborti per ogni mille donne in età feconda (per definizione il 15esimo e il 50esimo anno). Questo tasso ha raggiunto punte del 17-18 x 1.000 nel corso degli anni ’80 e adesso è più o meno attorno al 10 x 1.000 da un po’ di anni e quindi, alla fine, è considerato un valore sotto la soglia di allarme.
Proviamo a riflettere su cosa vuol dire un tasso di abortività del 10 per mille in termini di diffusione del fenomeno. Se ci mettiamo a fare il conto su quale potrebbe essere l’incidenza della pratica abortiva in una società con un tasso annuo di questo livello scopriamo che in media una donna su tre vivrebbe, prima o poi, l’esperienza dell’aborto volontario

(diapositiva6). Magari sarà un tasso ‘insignificante’, sarà ‘fisiologico’, sarà pure ‘inferiore che altrove, ma pensare che, stando così le cose, il dramma dell’esperienza abortiva colpirebbe, prima o poi una donna su tre (in media), non è un fatto così marginale. Se poi teniamo conto che stiamo parlando di una intensità (il 10 x 1000) calcolata sul complesso delle donne in età feconda e che tra loro non tutte sono necessariamente esposte all’aborto nello stesso modo (è ovvio che chi, per motivi vari, non ha attività sessuale è esclusa dal rischio abortivo), ci si rende conto che, se circoscritto a chi effettivamente è a rischio, il rapporto non è di una donna su tre, ma è certamente più alto. Ciò nonostante guai fare dell’allarmismo: potrebbe alterare l’immagine di pieno controllo che il Rapporto del Ministro si proponeva di accreditare.
In questa logica, anche la scelta degli indicatori e i relativi confronti nel tempo e nello spazio hanno un loro peso. C’è ad esempio un’altra affermazione molto interessante che si ricava dalla Relazione ministeriale, quando si dice: “che siamo uno dei paesi con la più bassa abortività”. E’ interessante perché non è affatto vera! E’ solo il risultato di un gioco di numeri scelti e letti a piacere. Se si guardano realmente i dati di altre realtà europee, scopriamo che siamo più bassi rispetto ai paesi dell’est Europa (che ancora scontano il prezzo di mezzo secolo di cultura comunista), ma se andiamo a prendere la Svizzera, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Spagna, la Finlandia, scopriamo che sono tutti paesi con tassi di abortività più bassi del nostro. Ne segue che anche qui, con l’andare a dire – in fondo tutto va bene…. noi siamo tanto bravi ….siamo più bravi degli altri – si è voluta accreditare la tesi secondo cui il problema non esiste, barando ingenuamente sui numeri e speculando sull’ingenuità (o la disinformazione) della gente.
Poi, a ben vedere, ci sono due indicatori con i quali si dovrebbe misurare l’abortività. Uno è il tasso, di cui si è trattato sino ad ora, ovvero gli aborti per mille donne in età feconda
(diapositiva8). L’altro è il rapporto di abortività, che è ancora una misura di incidenza dell’aborto, ma si ottiene facendo una divisione tra il numero di aborti e il numero di nati. Calcolare il rapporto di abortività è quindi come contrapporre le nascite interrotte alle nascite realizzate. In un certo senso, a mio parere, l’indicatore è più completo del precedente (che per altro resta di grande utilità), in quanto risente della capacità nell’accettare in generale le gravidanze, ivi comprese quelle non programmate . Se ragioniamo in questi termini e osserviamo che il rapporto di abortività è oggigiorno attestato attorno a 250 nati non accettati per ogni 1000 nati vivi dobbiamo concludere che, per dirla in maniera semplice, un bambino su cinque non nasce
(diapositiva9). Anche qui, c’è chi sostiene che alla fine ciò sia poco (solo perché in passato era ancor peggio) e c’è chi ritiene che il livello sia fisiologico. Certamente si tratta di una dimensione consistente che non può non fare una certa impressione. Uno su cinque non è uno su cinque milioni! E’ come dire che ogni quattro bambini che incontriamo ce ne sarebbe un quinto cui è stata legalmente negata, grazie ad una norma “saggia e lungimirante”, quella stessa vita che riconosciamo sacra agli assassini!
Queste sono alcune delle molteplici considerazioni che derivano dalla lettura dei numeri sull’aborto volontario. Come vedete, non sto inventando nulla, mi limito a prendere in esame le elaborazioni dei così detti “dati ufficiali”. Perché qui parliamo di aborti rilevati ufficialmente, con tanto di scheda Istat e quindi di conteggio alla fine di ogni anno. Ma in realtà ci sarebbe anche qualcos’altro da aggiungere rispetto alla qualità dei dati e alla loro rispondenza, nel tempo, riguardo al fenomeno che dovrebbero rappresentare. Come ricordava il Cardinale Severino Poletto nel saluto portato al convegno, le tecnologie di oggi non sono quelle degli anni ’80. Quando nell’83 si contavano più aborti di oggi, il mondo e le conoscenze mediche, le apparecchiature, i farmaci e gli stessi atteggiamenti nell’affrontare il fenomeno erano ben diversi. Sono passati più di vent’anni, un quarto di secolo, è chiaro che molto è cambiato ed è altrettanto chiaro che non tutti gli aborti che si realizzano oggi con tecnologie “avanzate” passano attraverso le certificazioni mediche, quindi le rilevazioni statistiche. In conclusione, è vero che oggi gli aborti sono 150mila e che allora erano quasi 250mila, ma oltre agli attuali casi conteggiati quanti altri ce ne sono che non vengono in qualche modo identificati e registrati? Anche questa è una considerazione che varrebbe la pena di introdurre per una corretta lettura e interpretazione dei dati ufficiali e delle relative dichiarazioni di “pieno controllo”.
Ovviamente bisognerebbe pure tener conto della contraccezione spesso abortiva.
Caratteristiche della popolazione coinvolta
(diapositiva10). Chi sono le donne che abortiscono?
Se è ormai chiaro che nel complesso il tasso di abortività si è ridotto rispetto agli anni ’80 non sembra tuttavia essersi di molto modificato il profilo per età delle donne coinvolte dal fenomeno. L’Italia si è caratterizzata sin dall’origine come un paese che aveva un modello di abortività un po’ particolare: più da Est Europa che da paese occidentale. Presso di noi l’abortività era più spesso di carattere coniugale e d’arresto, nel senso che era molto praticato in corrispondenza di ordini di nascite abbastanza avanti. Non era tanto una questione di minorenni o di soggetti comunque molto giovani, ma per lo più di donne sposate che usavano l’aborto per contenere la dimensione familiare. Confrontando il profilo dei tassi di abortività per classi di età oggi e nel 1983 si vede chiaramente che le intensità si sono in genere ridotte, ma sorprende il fatto che non sia affatto abbassata la prima fascia, quella delle meno che ventenni. A ben vedere, se come si dice ”tutto è sotto controllo” anche perché si “sta imparando la contraccezione efficace” ci si aspetta di rilevare che anche le più giovani abbiano beneficiato del maggior grado di informazione. Come mai l’incidenza dell’aborto volontario, che è diminuita nelle fasce più avanzate, non è diminuita affatto nelle fasce giovani? Ancora una volta, prima di dire che tutto è sotto controllo converrebbe approfondire le singole tessere del mosaico.
Quanto poi alla caduta degli aborti tra donne con due o tre e più figli
(diapositiva11), questa è anche derivante dal fatto che ormai le donne con almeno tre figli sono piuttosto rare. C’è stata una diminuzione della fecondità in Italia che ha colpito gli ordini superiori al primo e che quindi ha creato un universo di donne con spesso un figlio, qualche volta un secondo, ma difficilmente un terzo. E’ chiaro che essendo diminuita la popolazione a rischio con queste caratteristiche sia diminuita anche l’incidenza rispetto ad esse.
La nostra relazione ministeriale se mai deve trovare qualcosa che ancora non va come dovrebbe la scopre nell’abortività delle donne straniere. Sarebbe infatti loro la colpa di una certa resistenza del fenomeno. D’altra parte sappiamo ormai tutti che l’Italia è diventato un paese di immigrazione. Gli stranieri sono oggi quattro milioni e in prospettiva saranno ancora di più. Si tratta di una popolazione, non più solo di forza lavoro, che si è via via costituita attraverso i ricongiungimenti familiari con l’arrivo di coniugi e figli. La ricostituzione delle coppie e il frequente disagio del vivere la condizione di immigrata, sono in effetti i fattori che hanno favorito la crescita dell’abortività tra le donne straniere. Attualmente l’incidenza dell’abortività nella popolazione straniera è molto alta, se diamo un’occhiata alle curve della frequenza dell’aborto e delle nascite nella popolazione straniera
(diapositiva12) vediamo come siano quasi coincidenti: oggi 40mila aborti a fronte di 50mila nascite. Ecco un segnale di disagio dell’essere madre in immigrazione sul quale è chiaro che si deve intervenire, ma non solo dicendo “benissimo allora diamo più facilmente informazioni sulle modalità con le quali eliminare il disagio interrompendo la gravidanza” bensì risolviamo i problemi che creano il disagio. Cercando di capire perché una donna straniera abortisce, perché non accetta (o non è in condizione di poter accettare) un figlio. Spesso è la condizione economica, abitativa, professionale o comunque una causa che si potrebbe rimuovere. O che comunque vale la pena di individuare e di valutare se e come si potrebbe rimuovere.
E veniamo ad un altro punto controverso, quello sugli aborti ripetuti. In proposito la relazione ministeriale dice che “la percentuale delle IVG ripetute (ossia quelle di coloro che fanno una interruzione di gravidanza avendone già fatta un’altra prima nella loro vita) è del 26%”. Ciò premesso, si afferma che, secondo valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, il numero di aborti ripetuti che si verificano oggi in Italia è inferiore a quello che ci si poteva attendere
(diapositiva13). Quindi vuol dire che nel tempo il tasso si è progressivamente ridotto e che quindi emerge un ulteriore elemento a conferma del pieno controllo della situazione.
Poiché questa cosa non mi convinceva e siccome io stesso vent’anni fa ho fatto qualche lavoro scientifico in tema di abortività ripetute (e altri molto più autorevoli di me avevano fatto qualche altra valutazione al riguardo), ho cercato di capire se i dati sul tasso al 10% e gli aborti ripetuti al 26% fossero coerenti, e in realtà non mi è sembrato che quadrassero. Detto in termini semplici, in base ad un modello di analisi dell’abortività ripetuta (che ho a suo tempo pubblicato sulla rivista Genus), se la percentuale di aborti ripetuti è del 26% il tasso di abortività “vero” deve essere superiore al 10% indicato nei dati ufficiali. C’è dunque sotto qualcosa che non funziona e che nella relazione e nelle dichiarazioni ministeriali ufficiali non emerge. Anzi si enfatizza che rispetto al modello dell’Istituto Superiore di Sanità stiamo molto più in basso, quindi il fenomeno dell’abortività ripetuta, che è indubbiamente un aspetto chiaramente tra i più problematici, è un altro di quelli sotto controllo
(diapositiva14).
Il bilancio
(diapositiva15). Dopo trent’anni di aborti, che cosa è successo in termini di risorse umane sottratte al paese?
La popolazione che manca è tutt’altro che marginale. Guardando la piramide dell’età dei non nati
(diapositiva16) si ha la percezione di quanto abbiano significato trent’anni di aborto legale nel nostro paese. Se poi si va a vedere anche l’effetto sulla seconda generazione, ossia i mancati figli dei non nati per effetto dell’aborto, si scopre che il loro numero sarebbe quasi equivalente a quello delle nascite che provengono dalla popolazione straniera
(diapositiva17). Come dire che quel 10% di nascite da stranieri che noi demografi andiamo enfatizzando perché salvano il pareggio del bilancio demografico nazionale, si sarebbero potute ottenere semplicemente come contributo da parte delle generazioni abortite nel corso degli ultimi trent’anni. Non si vuole certo drammatizzare, però questo è un dato di fatto.
E lo è ancora di più se si considerano i discorsi sulla popolazione che invecchia e sul finanziamento del welfare. Si parla tanto dei problemi del cambiamento demografico, si discute su chi pagherà le pensioni; si fanno schermaglie politiche sugli “scaloni” e sulle “finestre” per uscire dall’attività lavorativa; si dubita sulla sostenibilità della spesa sanitaria e si dimentica che abbiamo perso 5 milioni di soggetti
(diapositiva18), in un paese che ringrazia il cielo di avere 4 milioni di immigrati che gli danno una mano per tirare avanti. Questa è la situazione paradossale.
Siamo un paese che da trent’anni è sotto il ricambio generazionale
(diapositiva19), ossia è incapace di garantire quei due figli per donna (in media) che assicurano la continuità ad una popolazione. Oggi in Italia siamo al livello di 1,3 anche grazie al contributo dell’immigrazione, ma sono tre decenni che si va avanti così. Quindi non è più, come dire, un raffreddore o un’influenza, è una malattia cronica. D’altra parte il problema demografico dell’Italia deriva non tanto dal fatto che non si fanno figli, ma che non si fanno figli di ordine superiore al primo. Perché è evidente che se si vogliono avere mediamente due figli per coppia occorre che qualcuno ne faccia almeno 3
(diapositiva20).
Dove ci porterà dunque il cambiamento demografico in atto e l’aggravante di non aver saputo salvaguardare un capitale umano di 5 milioni di non nati per interruzione di gravidanza?
(diapositiva21) Gli scenari sono ben noti: invecchiamento della popolazione e quindi stazionarietà o declino numerico. I quasi 60 milioni di italiani di oggi tenderanno a diminuire ma non in modo equilibrato, bensì con un forte squilibrio a favore delle età anziane per assenza di un adeguato ricambio generazionale. E non possiamo neppure teorizzare che “ci salverà l’immigrazione”, perché un significativo risultato da questo punto di vista si potrebbe ottenere solo con flussi di immigrati di proporzioni realisticamente poco gestibili.
Le prospettive di sviluppo della popolazione italiana, conseguenti al mancato ricambio generazionale, si possono riassumere in alcuni grandi dati
(diapositiva22 e 23). Le persone con oltre 60 anni, che negli anni ’50 erano 5 milioni nel 2050 diventeranno 20 milioni. I giovani, 0-19enni, che erano 15 milioni allora, diventeranno circa 8 milioni. Il sorpasso tra gli ultra sessantenni e i meno che ventenni c’è già stato nei primi anni novanta. Adesso sta andando davanti al sorpasso ad opera degli ultra sessantacinquenni. Quindi in sostanza un po’ alla volta il gruppo dei giovani scende progressivamente ed il gruppo degli anziani cresce. Un’altra cosa che non è irrilevante è la dinamica della fascia di età centrale da 20 a 59 anni, che in prospettiva va anch’essa a diminuire. Il dramma è che si tratta della popolazione in età lavorativa, quelli che dovrebbero in qualche modo mantenere sia i giovani in formazione, sia gli anziani in pensione. Se poi andiamo a vedere cosa succede all’interno degli anziani
(diapositiva24), si può subito vedere che gli ultra sessantacinquenni erano 4 milioni negli anni ’50, sono diventati oggi intorno ai 12-13 milioni e saliranno a 20 nel 2050. E all’interno di questi, quelli con più di 80 anni diventeranno, alla stessa data, circa 8milioni, ossia quanto i giovani. Si prospetta dunque il sorpasso tra la popolazione meno che ventenne e la popolazione più che ottantenne.
Di fronte a tali cambiamenti i problemi che avanzano non sono solo quello delle pensioni, ma vi sarà anche un problema di sanità e forse di adeguata offerta di lavoro. E sarà illusorio aspettarsi che la magica soluzione provenga dai flussi migratori. Se il flusso netto di immigrati non sarà a livello di almeno mezzo milione costantemente ogni anno – livello che però porterebbe problemi di convivenza non facili da gestire – il beneficio sarà presente ma non sufficiente a risolvere i nostri problemi. Così come non si rivelerà sufficiente a mantenere gli attuali livelli di natalità
(diapositiva26). Se infatti proviamo a chiederci quanti immigrati ci servirebbero per conservare nei prossimi 15 anni il livello attuale di 550mila nati, con qualche simulazione si scopre che se dovesse esserci un ingresso netto annuo di 150mila immigrati, le nascite in Italia scenderebbero a 450mila progressivamente. E continuerebbero a scendere anche se ci fossero 250mila ingressi netti l’anno. Ed ancora se ce ne fossero 350mila. Alla fine si vede che se vogliamo arrestare la diminuzione e mantenere stabile il numero dei nati, dobbiamo mettere in conto un numero di ingressi medio annuo costanti – quindi ogni anno – di 450mila immigrati. Il famoso mezzo milione di cui si è detto prima. Si può fare? E’ accettabile? Il sistema l’assimila? E’ la soluzione? Ecco, queste sono alcune delle cose sulle quali riflettere.
Chiudiamo con un po’ di ottimismo. Dopo aver affrontato con realismo il panorama dell’aborto ed averlo collocato negli scenari demografici che vanno configurandosi, proviamo a considerare anche che, nonostante i 5 milioni di non nati, non sempre una gravidanza problematica finisce in aborto
(diapositiva27). Lo dico anche alla luce di qualche recente esperienza personale di collaborazione con SOS Vita (8008/13000), e di analisi dei loro dati sull’attività svolta in questi anni.
E’ bello scoprire, anche in forma anonima attraverso le statistiche, quanti casi di gravidanza problematica sono stati risolti con l’aiuto di tante persone di buona volontà piuttosto che attraverso la drammatica scelta dell’aborto. Questo risultato, che vale in maniera differenziata in funzione dell’età
(diapositiva28), è un segnale importante che testimonia la possibilità e la capacità del fare.
Non lo scopriamo certamente adesso, sono decenni che diverse iniziative sono in atto. Si è visto che quando la via dell’aborto ha motivazioni legate al disagio, al bisogno di supporto, alla mancanza di un aiuto, basta relativamente poco per salvare un bambino. Forse questa è la fantomatica “prevenzione” che la legge 194 enuncia nei principi e ignora nei fatti. E le relazioni al parlamento fingono di non vedere il grande lavoro di chi sulla propria pelle e con il proprio sacrificio dimostra quotidianamente che i numeri non sono solo quelli degli aborti attuati, ma anche e soprattutto quelli degli aborti evitati.
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